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Attencion !! a la gendarmerie Attencion
Partenza all’alba per salire l’ultima montagna che ci separa dal mare prima della calura, Driss mi aiuta a sistemare il carico, ci scambiamo gli indirizzi e ci regala un pane appena sfornato, mi saluta con una stretta di mano e un ennesimo “attencion, pas confidence, ombertò attencion”. Ilcielo è viola quando attraversiamo una Targuist ancora dormiente, imbocchiamo una mulattiera ritrovando subito le piantagioni di Kif dove le donne già al lavoro stanno “sarchiando”. Saliamo andando incontro all’alba, raggiunta la sella mi aspetto di vedere il mare che invece è nascosto da un fitto strato di nuvole basse, saliamo seguendo il crinale, poi trovo l’ingresso di un viottolino che scende nella macchia di cisto e leccio, il sentiero è quasi invisibile ma è molto battuto tanto che il fondo è diventato sabbioso. All’improviso il viottolo incontra una fattoria, si apre su una grande coltivazione di kif che si estende a perdita d’occhio, c’è un uomo gli chiedo la strada per Torres de Alcalà, mi indica un viottolino che risale la collina dall’altro lato, abbiamo un dialogo breve e asciutto ma abbastanza per capire che mi sta facendo i complimenti perché sono andato a prendere la roba direttamente dai produttori senza essere passato dagli intermediari, per lui come del resto un po’ per tutti se vieni qui è solo perché sei interessato alla droga. Mi scompiglia tutta questa simpatia, se sapessero che io sono contrario a tutte le coltivazioni che portano alla produzione di droghe, a partire dai vigneti. Risalito il poggio si apre sotto di noi un panorama fantastico con ampie terrazze di kif affacciate sul mare, interrotte solo dal grano coltivato nei terreni più accidentati e da qualche fico. Camminiamo per un paio d’ore attraverso le piantagioni di marijuana, qui le piante non sono molto alte ma ce ne sono tantissime fiorite, l’aria è così densa di questo aroma appiccicoso e intenso che sembra di nuotarci dentro, i campi si estendono su tutti i lati e più ci avviciniamo alla strada asfaltata più aumentano. I contadini che lavorano nei campi ci osservano curiosi, le donne più sospettose, mentre gli uomini sempre gentili mi indicano la via migliore per Torres, è un periodo di lavoro intenso, c’è da mietere il grano e da togliere continuamente le erbe infestanti dal kif e tutti vi partecipano uomini donne e bimbi. Arriviamo all’asfalto, tagliamo attraversando campi di grano e mandorli, qui è troppo arido per la cannabis, siamo scesi molto di quota, le nuvole sono scomparse e fa molto caldo, ma il mare non si vede ancora, il Godrone fiancheggia il grande oued secco che ci accompagnerà fino al mare, anche la vegetazione è cambiata ci sono grandi oleandri fioriti, pitte e carrubi. Arriviamo a Bni Boufrat, primo paese che incontriamo e anche l’unico prima di Torres de Alcalà, è un paese di pianura con case sui due lati della strada e due cafè frequentati da personaggi mediamente fulminati che attraversano continuamente la strada barcollando. Siamo sul chiocco del sole e fa un gran caldo, mancano solo cinque chilometri alla costa ma il mare sembra camminare davanti a noi e non si fa raggiungere. Attraversiamo una campagna gialla di grano appena mietuto incontrando anche una veccia trebbiatrice tutta cinghie, pulegge e castelletti di legno che sembra quella dei Pupilli che veniva alla Bonalaccia per la trebbiatura quando ero bambolo.
Mi viene incontro un ragazzo che mi chiama collega ostentando un sacchetto di haschish.
Ormai ci siamo un cartello indica un chilometro a Torres e due a Cala Iris, si sente il mare, a destra un piccolo villaggio abbastanza fatiscente, proseguiamo nel oued secco che finisce in un bosco di eucaliptus e tamerici, poi finalmente il mare. Non ero mai stato così tanto tempo senza vedere il mare, percorriamo gli ultimi metri in silenzio, nella mente rivedo il film di questa camminata, si sovrappongono centinaia di immagini e suoni, paesaggi maestosi e persone magnifiche, fatica, freddo, fame, falò, risate e canti, deserti, montagne, foreste, miniere, grotte, douar e città e mille e mille volti di persone che sento come una grande famiglia. Senza rendermene conto sono in riva al mare, incrocio lo sguardo di Serena che luccica, anche Tambone sente la “densità” del momento, sembra commosso, è la prima volta che vede il mare e sicuramente se non l’avessi preso con me non l’avrebbe mai visto, me lo immagino di ritorno nella valle di Anergui a raccontare delle infinite distese di grano della piana di Fes, dei pascoli estesi del medio Atlas, di Ifrane paese fantasma senza ciuchi, altezzoso a descrivere le migliaia di asini, muli e cavalli incontrati, chissà cosa c’è nel capo di Tambone, sicuramente vuole che gli levi il carico dal groppone e che lo faccia bere!
A Torres c’è una spiaggia ciottolosa tipo Pomonte con due cafè alle spalle dove arrostono sardine, in alto su una piccola collina il rudere del torrione che da il nome al paese, risale al periodo di Mulay Ismail che qui aveva costruito il porto principale del suo regno. Subito veniamo avvicinati in maniera molto amichevole da un tipo che si presenta come il direttore della scuola del paese, sa già tutto di noi, ci dice che siamo i benvenuti e che possiamo fermarci quanto vogliamo e montare la tenda dove ci pare, però ci consiglia di segnalare la nostra presenza alla gendarmeria del paese.
Fa l’amicone ma non mi piace, fuma continuamente ha gli occhi piccoli e un sorriso da faina.
Ci offre un piatto di sardine che ci gustiamo all’ombra di una pergola in riva al mare, il posto è bello e sa di casa, l’idea è quella di fermarsi qualche giorno per mettere in pari il diario, confezionare il primo servizio “importante” e farsi qualche bagno. Faina ci spiega che qui la gente è molto tollerante e che le donne fanno normalmente il bagno in bikini però le uniche che vedo in acqua sono vestite dalla testa ai piedi, mi racconta che ama questo villaggio perché abitato da persone tranquille e pacifiche che vivono di pesca, però non ci sono pescherecci, mi chiede se sono un giornalista …
Do il grano a Tambone e andiamo alla caserma accompagnati dal professore. La caserma sa di legione straniera e di siesta alla sergente Garcia, veniamo fatti accomodare in una stanza dove c’è la prigione con dentro un detenuto che dorme. Vengono fatti i soliti controlli e sembra tutto a posto come nei controlli degli ultimi giorni, l’ultimo quattro giorni fa a Tahar Souk. Arriva un gendarme grasso e sudaticcio con le mani piccole e tozze che strappa i passaporti di mano al collega e senza guardarli ci chiede severo quanti giorni staremo a Torres, gli rispondo tre o quattro, i poliziotti ci lasciano e dopo una discussione animata nell’altra stanza tornano e ci dicono che proprio in quel momento è arrivata una circolare dal ministero che dice che a Torres de Alcala arriverà il re e che da oggi in tutta la zona è proibito campeggiare. Chiediamo se c’è la possibilità di affittare una casa, Ciccio ci dice che è proprio quello che ci volevano proporre e si stanno organizzando per trovarla, ci consentono di tornare alla spiaggia nell’attesa che i gendarmi ci indichino la casa dove alloggiare. Alla spiaggia ritroviamo il professore che ci sta aspettando, non facciamo in tempo a spiegargli l’accaduto, sa già tutto perché è stato informato per telefono, ma la sua versione contraddice con quella dei gendarmi infatti ci dice che non possiamo montare la tenda per la nostra sicurezza. Ci invita ad aspettare al bar che tra poco arriverà il signore che affitta le case, che è un suo amico e ci mostrerà alcune case comunque tutte lontane dalla spiaggia. Gli dico della circolare, abbassa gli occhi e inizia un discorso farfugliato ” io non so niente di politica e non voglio sapere niente, io sono per la pace” (nessuno ha parlato di politica). Con un mercedes scuro arriva l’uomo delle case, inizia una trattativa mediata dal professore, ma il prezzo richiesto è troppo alto, allora ci viene proposta una “camera” che altro non è che un sudicio rimessaggio, anche questo ad un prezzo esorbitante. Decidiamo di chiedere al proprietario del cafè di poter montare la tenda nella terrazza sul tetto (come hanno fatto i ragazzi spagnoli sul tetto del cafè di fianco), la richiesta sembra spiazzare il proprietario che dice che deve chiedere….(così traduce il professore) ma non si capisce a chi! Dopo qualche minuto arrivano i gendarmi in macchina, ci dicono che c’è un problema con i passaporti, ci chiedono ancora i documenti, parlano al telefono con qualcuno, ci dicono di tornare a sederci al tavolino che quando hanno finito ci chiamano loro, il professore però rimane lì con loro.
Ci dicono di tornare in caserma. Ci attende il comandante stizzito che ci dice che non siamo regolari, sono scaduti i tre mesi del visto turistico, diciamo che l’ultimo dei numerosi controlli l’abbiamo fatto quattro giorni prima a Tahar Souk e il capo della gendarmeria ci ha detto che era tutto ok, anzi mi ha fatto notare che a fine giugno sarebbero scaduti i sei mesi di soggiorno per me. Niente, non ci ascolta nemmeno, continua a sovrapporre la sua teoria e poi insiste sul mulo: “dove l’avete comprato? da chi? chi mi dice che non l’avete rubato?” e poi “dove avete dormito? non si può viaggiare così” Ci dice di uscire dall’ufficio rispedendoci nell’antigalera dove, da dietro le sbarre, mi saluta solidale il detenuto che nel frattempo si è svegliato, mi viene da ride perché è tutto il mi cugino Claudio. Nell’altra stanza si sente il comandante che sta facendo una serie di telefonate urlando in maniera sempre più isterica. Dopo una mezz’ora di attesa arriva il grasso che ci spiega con vocina pia e manine giunte che la nostra presenza nel paese è irregolare, che dovrebbero aprire una procedura molto lunga ed onerosa sia per loro che per noi, ma siccome loro sono molto buoni si sono sforzati tanto e hanno trovato la soluzione: bisogna andare a Melilla (enclave spagnola in terra marocchina ), uscire dal Marocco e rientrare subito con il visto comunitario spagnolo, in modo da poter restare altri tre mesi in Marocco senza problemi. Ci rendono i passaporti e ci accompagnano in macchina alla spiaggia dove insistono per offrirci un caffe’ in compagnia del professore e ci ripetono che tutto questo lo fanno per farci un grosso favore. Ci suggeriscono di riposarci e partire domani per Melilla, il professore ci offre ospitalità a casa sua (prima mi aveva detto che ci avrebbe ospitato volentieri ma non aveva posto) ma preferisco partire subito e risolvere il prima possibile. Controvoglia ci chiamano un grand taxi, lasciamo i bagagli e Tambone in custodia al tipo del cafe’ con la garanzia della gendarmeria che nessuno toccherà niente. Faina e il grasso insistono perché stanotte si rimanga qui e si parta domattina, ora per una notte si può dormire anche con la tenda e anche sulla terrazza del cafè, ma io voglio andare, allora mi consigliano di dormire a Al Hoceima e di proseguire domani con calma verso Melilla,il messaggio è chiaro: domani voi qui non ci dovete essere. Raggiungiamo la città di Al Hoceima in taxi, telefono al mi fratello per fargli gli auguri di compleanno e a Azedine per dirgli di venire a prendere Tambone il più velocemente possibile poi aspettiamo il primo pullman per Nador che parte alle due del mattino.
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Monthluglio 2008
Ciber frate (internet con ciambella per i continentali)
Andiamo da Tambone, è legato a un palo della luce e guardato a vista dal custode ingaggiato dal rosso. Il giovane Asserdun è diventato la mascotte del parcheggio, mi sento in colpa per averlo portato via dai pascoli della montagna e averlo costretto alla tristezza di un piazzale asfaltato, ma Driss ha detto qui !! A Targuist non esiste la polizia, o perlomeno non si vede, la repubblica del Rif aveva nemici potenti, quella del kif i potenti c’è l’ha a protezione.
Oggi è giorno di Souk, andiamo a vedere, chiaramente non c’è il fascino dei mercati di montagna, i mercati arrivano con i pulmini e i camion e le merci sono omologate, però è un posto vero non ci sono merci per turisti, i banchi più grandi sono quelli di frutta e verdura e poi ci sono tanti banchi di pesce, con sardine, paraghi e triglie che ci ricordano che il mediterraneo è a meno di quaranta chilometri. La parte più originale del mercato è il reparto gastronomico dove grigliaroli in fila sfamano mercatai e compratori, si mangia su tavolacci sotto tende cenciose, con l’equivalente di un euro ti mangi una decina sardine. Nel mercato la partecipazione delle donne è minima, le poche presenti sono vestite in modo tradizionale acquistano silenziose e si dileguano velocemente.
Sono iniziati gli europei di calcio e i cafè sono pieni di gente che guarda le partite, anche se in realtà nessuno sembra veramente interessato, mentre sorseggio un panacee (frullato con tanti frutti diversi) assisto a un incontro di incravattati, politici e affaristi e portaborse arrivati con le classiche mercedes dai vetri scuri, si siedono intorno a un tavolo strapieno di dolci, ma se li godono poco tutti concentrati a fare la risata più sguaiata e rumorosa quando il capo fa la battuta, mi fanno pena tutti sudati e forforosi nelle loro divise da bara. Passa Driss, ci diamo appuntamento fra un paio d’ore per fare una chiaccherata. Vado a internet, il collegamento viene e va ma il gestore compensa la poca efficienza con la distribuzione gratuita di frati caldi, dopo un paio d’ore non ho combinato granchè però so’ satollo. Andiamo all’appuntamento fissato con il mio amico, come tutti i Berberi anche Driss rimarca l’orgoglio Berbero e il valore assoluto dell’amicizia sopra ogni questione religiosa o economica che sia, mi dice che lui è rosso come tanti Berberi del Rif perché sono discendenti degli europei del nord che sconfissero i Romani, Driss mi parla dei vandali di Gianserico che entrarono in Africa da Gibilterra nel quarto secolo dopo Cristo, conquistarono velocemente il nord d’Africa e poi saccheggiarono anche Roma. È bello parlare di storia così, in un cafè parlando con gesti e parole inventate, seduti in un posto frequentato da gente di malaffare sorseggiando cafè noir. Si avvicina a noi un tipo serioso che si presenta come coltivatore di legumi, parliamo un po’ e poi lancia un’ anatema contro la droga e i traffici illeciti accorato ma poco convincente e poi si allontana, Driss mi spiega che come quasi tutti qui commercia droga e voleva provare a vendermi qualcosa, nessuno capisce perchè sono qui se non voglio comprare o vendere niente, Targuist, mi dice, è la capitale del traffico della droga, qui si svolgono gli affari importanti e si gestiscono i traffici, non a Ketama che è una zona di coltivazione ma è anche un po’ un cinema per i turisti dello sballo. Qui le forze dell’ordine non si vedono mai, è tutto organizzato bene e mi raccomanda attenzione per domani “ atencion ombertò attencion, pas confidence, domain pas confidence su la piste”.
Ci salutiamo dandoci appuntameto domattina alle cinque da Tambone. |
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Driss il rosso
Ci si sveglia nell’aria fine di montagna, la brace è ancora calda e basta poco per bollire l’acqua per il the. A nord c’è un orizzonte blu che sa di mare, il mediterraneo non si vede ma si sente che è vicino, pensare che siamo arrivati fino a qui partendo a piedi da Marrakech mi emoziona. Scendiamo nella foresta che a settentrione è molto più estesa e scende a quote più basse, la pista diventa asfaltata ma preferisco scendere da un viottolo che dopo poco sbuca in una radura dove ci sono delle maison foresterie risalenti al periodo coloniale francese abbandonate e, isolato dagli altri, un cedro enorme con un tronco di almeno cinque metri di diametro. Dopo un paio d’ore di viottolo ritorniamo sull’asfalto, rimango però sempre dentro la foresta e poco dopo incontriamo una mandria con una trentina di cavalli che attraversa la strada al galoppo,Tambone s’ingazzurisce e aumenta il passo che stamani era “cagnoso”. Finiti i cedri il paesaggio diventa arido e ritornano i campi coltivati con spighe di grano corte e kif rinsecchito. Fa caldo, per fortuna trovo una scorciatoia tra i campi, ci sono piccole fattorie isolate sparse sui fianchi ripidi della montagna, qui il kif soffre la carenza di acqua e molte piante seccano per l’aridità, viene comunque piantato da tutte le parti perché la resa economica è nettamente superiore a qualsiasi altra coltura. Dall’ alto Targuist si mostra in tutta la sua bruttezza: una cittadina di palazzoni in gran parte incompiuti costruiti intorno alla strada che collega la regione di Ketama al Mar mediterraneo. Ritroviamo il godron all’altezza delle prime case, delle donne ci invitano a pranzo ma proseguiamo, Il paese visto dal basso è ancora più brutto e gli sguardi che si incrociano sono poco raccomandabili fa strano vedere i cartelli che inneggiano ai progetti finanziati dalla comunità europea per disincentivare la coltura del kif, compreso il bacino artificiale che viene usato per irrigare i coltivi. Targuist è stata l’ultima roccaforte della Repubblica del Rif, qui Abd el Krim trattò la resa con le forze coloniali congiunte di Francesi e Spagnoli il 27 maggio 1926. Gli europei per sconfiggere l’esercito Ritegno furono costretti ad impiegare oltre duecentocintamila uomini e ci riuscirno grazie all’appoggio dell’aviazione e all’uso assassino del gas. Il Rif tornò sotto il controllo spagnolo e buona parte dei guerrieri repubblicani furono arruolati dall’esercito spagnolo e finirono dieci anni più tardi a combattere nella guerrra civile Spagnola aiutando il generale Franco a sconfiggere la nascente repubblica Spagnola.
Il Rif è storicamente una terra abitata da uomini ribelli ed anarchici, tutte le dominazioni che nei secoli si sono susseguite in Marocco hanno sempre rinunciato a sottomettere gli uomini senza legge, spaventati dall’inospitalità di queste impervie montagne aride e dalle ruvide genti che da secoli ci vivono. Nel 1921 le truppe Spagnole nel tentativo di catturare il mitico Raisili, un Barabba del Rif, a metà strada fra il patriota e il bandito, guadarono il fiume Amekran considerato dai Rifegni confine invalicabile per le truppe coloniali, la reazione non tardò, sotto la guida del già mitico Abd el Krim per la prima volta le tribù del Rif si unirono a formare un esercito di tremila uomini e attaccarono gli Spagnoli infliggendogli una tremenda sconfitta nei pressi di Anwal dove il 21 luglio 1921 annientarono un esercito di tredicimila uomini facendo più di ottomila morti. Sull’onda della vittoria il 19 Settembre dello stesso anno Abd el Krim fonda la repubblica del Rif, la terra dei selvaggi abitata da tribù divise, sempre impegnate in faide omicide, diventa una nazione autonoma e indipendente, fedele ai precetti dell’Islam ma moderna, con un Parlamento dove sono rappresentate le quarantuno tribù del Rif. Abd el Krim pubblica il manifesto anticoloniale, lettera alle “nazioni civilizzate” dove rivendica il diritto del suo popolo e di tutti i popoli a mantenere conservare e promulgare i propri costumi e le proprie religioni senza alcuna interferenza di potenze straniere che pretendono di imporre leggi e religioni con la forza delle armi. Smaschera la palese contraddizione fra modernità libertà e occupazione militare e allo stesso tempo apre ai commerci e agli scambi culturali con le nazioni europeee e americane e si propone come ponte culturale e commerciale fra l’Europa e l’Africa, fra l’Islam e l’occidente. Fonda la banca nazionale e conia una moneta propria e si ripromette di sfruttare le risorse minerarie del territorio in maniera più oculata e a favore dello sviluppo della popolazione locale. Tutto questo fa paura, l’Europa teme che il vento indipendentista soffi sull’Africa coloniale, Spagnoli e Francesi, fino all’ora grandi nemici, si alleano contro il pericolo comune e combattono contro la giovane repubblica nord Africana, la guerra dura cinque anni ma alla fine, pur pagando un enorme prezzo in risorse e vite umane, le forze coloniali sconfiggono definitivamente le truppe di Krim proprio qui a Tarquist.
Di tutto questo passato epico e romantico qui non c’è traccia, solo enormi casermoni senza finestre e strade sporche. Entriamo nel centro circondati da sguardi indagatori e silenzio, davanti alla piazza della moschea si è radunata una folla numerosa per la preghiera all’aperto, la scena è molto bella, ma per evitare di urtare la suscettibilità dei fedeli cambio strada e mi incammino su una via parallela. Si avvicina un ragazzo con la faccia da duro, ha la pelle chiara e lentigginosa e i capelli rossi, mi chiede chi cerco e cosa trasporto, gli spiego, ”pas problem, ma attencion ombertò, attencion” . Driss mi dice di seguirlo e di dargli retta che pensa a tutto lui, ci aiuta a sistemare Tambone al parcheggio e ci accompagna a un hotel, mi dice di stare tranquillo che sono sotto la sua protezione e di fare come dice lui. Andiamo in albergo presentati da Driss il rosso, ci sistemiamo e ci diamo appuntamento in serata davanti all’officina vicino al parcheggio di Tambo.
Driss è un personaggio conosciuto e rispettato dice che è un meccanico ma le sue mani curate con le unghie pulitissime sembrano dire altro, con noi è molto gentile, mi chiede se sono interessato a comprare qualcosa, capito il mio disinteresse non insiste anzi ci accompagna a fare un giro mostrandomi i vecchi edifici coloniali spagnoli e la grande diga che aiuterà l’agricoltura. Non so se è stato l’accompagnamento del nostro “Padrino” ma la sensazione di essere indesiderati è svanita.
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Selvaggio Rif |
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I bimbi di Sidi Ahmed e il marabutto mandolino
Sveglia alle quattro, alle cinque primo tentativo di sellare Tambone, sette e mezzo partenza, lo stronzo ha mangiato grano tutta la notte e oggi è in esubero di energia. Lasciamo subito la strada e seguendo la preziosa mappa fatta ieri con l’aiuto di più persone risaliamo una pista dove c’è un gran traffico di ciuchi carichi di spighe di grano, la strada sale verso la foresta che in realtà è una pineta che assomiglia tantissimo ai rimboschimenti delle Piane della Prigione. Decido di prendere una scorciatoia ma è troppo ripida e il mulo perde il carico e si rovescia, Serena s’incazza perché scelgo sempre la via più difficile ma poi m’aiuta a risistemere su il carico, qui la gente non ti corre incontro in aiuto ma rimane a distanza ad osservare. Riprendiamo ma poi devo tornare indietro perché non si sfonda, però la deviazione ci permette di ammirare dei paesaggi grandiosi sulle montagne impervie della regione di Ketama dove spicca la vetta del monte Tidiquin a 2448 metri di quota. Discesa impegnativa, fra pini e scannafossi poi di nuovo la pista fino a Bab Sadra, un ragazzo ci conferma che siamo sulla giusta via e ci indica il viottolo da percorrere. Bab significa porta ed è veramente l’ingresso in un altro mondo, riprovo un po’ le senzazioni del sentiero Bni Krama, Il sentiero sbuca su un crinale e lo segue regalando la sensazioni di “volo”. Si continua a salire mentre compaiono in alto a destra dei picchi di rocce chiare. Il silenzio si inizia a miscelare con il con il canto delle donne che stanno mietendo il grano sui pendii. Vediamo una casa isolata e ci avviciniamo per far bere Tambone, è una casa abitata solo da bimbi, gli adulti sono tutti nei coltivi, i bimbi ci accolgono curiosi e festosi e ci riempiono tre secchi d’acqua che il mulobimbo se li scola a razzo. A poche centinaia di metri dalla casa dei bimbi, incontriamo il villaggio di Lota, incantato e silenzioso, gli abitanti sono tutti nei campi a parte una coppia di anziani, l’articolata spiegazione della signora ci fa capire che siamo vicini ad un luogo bellissimo con una cascata. Incontriamo Mustafà un ragazzo che ci conferma l’esistenza del luogo incantato, si chiama Sidi Ahmed e si raggiunge con un ripido viottolo che porta al fiume, dall’altro lato del villaggio, poi per proseguire bisogna tornare indietro, gli chiedo se posso lasciare Tambone al villaggio ma mi dice di portarlo con me.Scendiamo verso Sidi Ahmed, si aggregano subito tre bimbi che poi diventano cinque, la discesa è ripidissima nonostante i tornanti che si snodano arditi fra mandorli e fichi che ogni tanto sbucano dal terreno arido e pietroso. Scendiamo in carovana verso il fiume, arrivati a fondovalle incontriamo le prime coltivazioni di kif, guadiamo il torrente e attraversiamo una rigogliosa piantagione di cannabis, è evidente che questa pianta ha bisogno acqua, in alto finalmente vediamo la cascata, non è grande sarà alta una trentina di metri, ma è molto scenografica. Sidi Ahmed è un luogo molto bello una macchia di verde che si apre all’improviso nella aridità circostante, dove il fiume disegna un ansa, ci sono delle ampie terrazze ricoperte di prato e all’ombra di un grande gelso, un cimitero di marabutti e poco più in alto una piccola casa dove vive solitario un marabutto cieco che viene salutato con grande reverenza dai bimbi. Mentre noi saliamo alla cascata i bamboli fanno il bagno in un pozzalone in basso. La salita alla cascata è divertente e assomiglia alle lisce della valle del Poio, anche qui c’è un pozzalone e ci facciamo una doccia gelida sotto la cascata. Ritornato sotto il grande gelso vado a salutare il Marabutto che ha un aspetto da grande mistico, con gli occhi spalancati e pieni di sangue, ma quando apre bocca è una delusione atroce “Italiano mandolino spaghetti maccaroni fai cadò al marobu”, faccio un giro intorno per vedere le “coltivazioni” tutte ordinate in saltini e irrigate da canali e poi dopo una merenda a base di more bianche, si risella Tambone che sembra un mulo d’acciaio perché nel frattempo si è rotolato nelle ceneri del cimitero. Con l’aiuto dei bimbi si ricarica la soma e si risale al villaggio. La pendenza è esagerata e a un certo punto L’Asserdun cede e si accascia. Lo faccio riposare e poi si ricarica il bagaglio e si prosegue, se non c’erano i bimbi sarebbe stato un grosso problema. Arriviamo sotto il villaggio che le ombre sono lunghe, da un viottolino alla nostra destra si sente un gran canto squillante e intonato: è un bimbo di tre o quattro anni che indossa una maglietta dell’inter che sta rientrando in sella al suo asino dalla sorgente dopo aver riempito i contenitori dell’acqua. Ci aspetta e facciamo l’ultimo tratto insieme, poi si aggrega anche una bimba che sta rientrando con le capre, entriamo nel villaggio che sembriamo una tribù. Arrivati in paese rincontriamo Mustafà che ci offre la sua ospitalità che naturalmente accettiamo di buon grado. Siamo ospiti,in una grande casa, la più alta del Douar posta sulla sommità del colle in una posizione di dominio nel cuore del Rif, Tambone è legato in un campo di grano in compagnia di asini e muli, Mustafà è molto amichevole, il bimbo canterino è il su figliolo, ed è anche il babbo di due bimbe più piccole. Passiamo la serata parlando del Rif della sua bellezza e delle sue contraddizioni e poi prima di dormire una pisciata sotto le stelle giganti e infinite del Jebel di Lota.
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Rimaniamo ancora un giorno, devo scrivere, cerco un posto imboscato con l’energia elettrica per attaccare il computer alla rete, non mi va di essere troppo in vetrina perché qui non amano i giornalisti. Trovo un piccolo cafè ai margini del paese e mi piazzo in fondo nella penombra. Ogni tanto entra qualcuno a prendere un the o un caffè ma è la base di un gruppo di ragazzini, tra cui il figlio del gestore, che alternano la visione di documentari quando c’è il babbo, a video musicali quando se ne va, sempre accompagnati da robuste sedute di kif fumato in svariate modi.
In serata vado a internet e mi collego con skype a casa del mi’ fratello e li trovo Elias che è andato a farsi una breve vacanza all’Elba e Sofia che si è tagliata i capelli
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Come sempre nelle case contadine ci si alza con il sole, ho un gran sonno e vorrei dormire di più ma non posso condizionare la giornata della famiglia specialmente in un momento importante come quello della mietitura. Facciamo colazione e poi preparo le torcie per noi e per Mohammed che ci accompagnerà alla grande grotta di Kef el Ghahar che Hafif ci conferma essere lunga più di sei chilometri. Ci avviamo verso la voragine scendendo verso il torrente dove nelle anse ci sono numerosi pesciolini, poi iniziamo a risalire fino al vero e proprio ingresso. È una montagna sezionata, una grossa fetta è collassata e permette di vedere le tante grotte delle venature interne, sembra un macroscopico plastico di un termitaio, entriamo nel ventre della “pacia mama”da una grande fessura dove volteggiano custodi corvi e pipistrelli. E’ un luogo solenne, lievemente tetro, affascinante perché assolutamente selvaggio, ho come una terribile visione: questo “luogo sacro” profanato dal turismo di massa con inciso sopra la porta il nono verso del terzo canto dell’inferno dantesco “Lasciate ogni speranza voi ch‘entrate” a offesa di Dante e della Grotta e poi corde, cavi, passerelle, cartelli e bancarelle con le stalagtiti di plastica da vende’ ai turisti. Mi sveglio dall’incubo che siamo già dentro, è un ambiente enorme le nostre torcie non riescono darne la dimensione i fasci si perdono nell’oscurità, ci sono pozze di acqua ferma e trasparente che sembrano lastre di ghiaccio, tanti rigaglioli di acqua corrente e enormi concrezioni dalle forme fantastiche, non ho un attrezzatura fotografica che mi permette di documentare la grandiosità del luogo. Ci sono enormi bocche con denti di orca, teschi e teste di drago, è una sorpresa continua. Nel silenzio ovattato si sente rumori di passi nell’acqua che si avvicinano, è Abdulhal il fratello più grande che sta arrivando, cammina agile fra pozze e scogli scivolosi con le sue ciabatte di plastica. Attraversiamo una serie di gole strette adornate da cascate di stalatiti multicolori, poi attraversato un laghetto entriamo in una grande camera dai confini indefiniti, Abdulhal con un colpo di teatro illumina la grande sala dando fuoco a una fiaccola fatta con i resti di una pressa di frantoio unta d’olio, e come per miracolo appaiono decine di stalagtiti bianche, un laghetto algido e enormi colonne marroni che sostengono la grande sala. La magia della potente torcia dura poco, continuamo l’esplorazione, c’è sempre più acqua, un vero e proprio fiume sotterraneo, dopo avere attraversato un tratto stretto e sinuoso fra levigate rocce scure, ritroviamo un‘altra grande sala che viene nuovamente illuminata con l’ultima torcia oleosa in modo da regalarci un'altra spettacolare visione su stallatiti e sagome tozze velate da una tenda di goccioline che viene giù dalla volta buia. Ancora gole strette poi inizia a filtrare la luce, si risale verso la luce fino a trovare l’uscita dove svolazzano decine di pipistrelli. Si esce da una grande spaccatura nella roccia rossastra dall’altra parte della montagna e ci si trova dentro una radura coltivata a grano, poi si sale ripidamente tra i cisti fioriti e lentischi che nascondono decine di grotticelle. È la stessa macchia dell’Elba ma con due tipi di cisto (mucchio) in più, uno rosa e uno bianco. Si inizia a scendere girando verso destra, per ritornare sul lato di partenza e si sbuca alti su un affaccio panoramico che domina decine di colline tutte coltivate a grano, siamo in corrispondenza del punto di partenza ma circa quattocento metri più in alto. Intorno ancora grotte, camminiamo su un solco scavato nella parete rossa, da cui si vede l’ingresso della grotta dall’alto, mentre passa un grande falco, poi si scende da un sentiero friabile a picco sulla casa, intorno i bimbi pastori che camminano insieme alle capre su sentieri impossibili mentre più in basso altri sono impegnati nella raccolta del grano.
Solito invito a rimanere qualche giorno, e poi i saluti e la partenza, Tambone zoppica, ieri sera è scivolato ma non sembrava niente di grave, ma oggi specialmente in discesa ha un passo claudicante, per fortuna dopo un’oretta da sciancato ricomincia a marciare discretamente. All’improviso fra i campi un enorme edificio dissonante con tutto il contorno, proprio come la palestra di Pomonte ma grande almeno venti volte: è una scuola enorme, costruita, come spiega il grande cartello all’ingresso, con l’aiuto del Giappone, è dotata di tante strutture, peccato che è inutilizzata anche perché troppo grande per le esigenze della zona. Saliamo verso il paese di Kef el Ghar (Il souk), c’è un bar con un pergolato da dove ci chiamano, c’è un uomo che parla bene francese che ci saluta e ci invita a sostare, è un funzionario governativo e rappresenta l’autorità nel paese, ci aspettava ieri e la nostra sosta alle grotte lo ha spiazzato. Ci fa le solite raccomandazioni ma è molto gentile e ci disegna una minuziosa mappa ricca di particolari per proseguire lungo i viottoli evitando la strada. Segueno la preziosa mappa lasciamo la via e prendiamo un sentiero che ci porta verso un fiume, tra grano e olivi, sotto lo sguardo delle donne che si spostano da un campo all’altro cantando. Guadiamo su un bel ponte di legno e iniziamo ad attraversare il douar Oulad Bchir, un villaggio invisibile finchè non ci sei dentro, sempra un paese segreto costruito sotto gli olivi, è un luogo pacato e ombreggiato con tanti frantoi sparsi un po’ dappertutto, una delle case è un microscopico bar dove si ritrovano i ragazzi del douar, chiedo informazioni e Azzedine il più curioso ci accompagna sulla giusta pista, risaliamo l’altro lato della valle, verde e rigogliosa, c’è anche una cascatella da dove si lancia nel vuoto un serpente spaventato dal nostro passaggio. Camminando in fila indiana sotto gli olivi arriviamo alla sua abitazione, all’inizio del Douar di Bni Krama, è una casa bella curata, circondata da un cannicciato, con una grande aia e tuttintorno all’ abitazione una piazza liscia e pulititissima, è una casa speciale è marocchina ma allo stesso tempo è famigliare, ci accolgono sorridenti la sorella Hayshia e la mamma Fatima, e poco dopo arriva il babbo Ahmed che avevamo incontrato sul viottolo. È un luogo sereno e rilassante e ancora di più lo sono le persone, accogliamo volentieri l’invito a rimanere qui. Con Azzedine andiamo a fare un giro nei dintorni, ci affacciamo da una spianata di rocce bianche che dominano un grande panorama sul oued e le montagne circostanti, passiamo vicino alla tomba della nonna ai bordi del bosco, all’ombra di un grande albero e poi scendiamo verso la cascata per un ripido viottolo prima circondato da olivi e orti coltivati in stretti terrazzamenti (saltini) e poi nella macchia dominata dagli oleandri e da gigantesche piante di vite abbandonate, ricordo dei vigneti dei coloni europei che ormai fanno parte della macchia. Al rientro dalla cascata ci aspetta una ricca merenda, con tanti dolci preparati da Hayschia.
La casa è un mix perfetto di tradizione, armonia e confort, Ahmed ha lavorato tanti anni in Francia ed ha aggiunto confort europei alla sua abitazione che è un’eccezionale modello di casa ecosostenibile: il forno esterno è il cuore, serve per il pane, per cucinare e per scaldare l’acqua, che qui è corrente perché è stata allacciata una sorgente in alto. La doccia è uno spettacolo, con la stanza riscaldata dal vapore del bollitore del forno, il tubo dell’acqua fredda che arriva direttamente nella stanza dalla sorgente e un pentolino per prendere l’acqua calda da un bidone per miscelarla a gradimento, mentre l’energia elettrica è fornita da un impianto solare.
Cena in giardino, l’invito a rimanere qualche giorno per conoscere bene queste valli è duro da rifiutare, ma decido di continuare e partire domattina, anche Azzedine verrà con noi fino a Tainaste.
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Bumm bumm chiamata bussata prima dell’alba, il capo famiglia ci sveglia, mi affaccio e vedo che il figlio più giovane ha dormito in giardino per fare la guardia a Tambone. Dopo le rituali abluzioni mattutine e la colazione usciamo con il nostro anziano tutore che con passo spedito avvolto nel suo jalabah marrone ci accompagna per tre chilometri fino al fiume, il confine della sua giurisdizione, mi indica il cammino con ampi cenni e si raccomanda di dormire solo nei villaggi grandi e di chiedere del cher (sindaco) appena arriviamo in paese.
Il oued è in gran parte secco, solo a tratti appare l’acqua e anche qui come nei fossi di Pomonte e Patresi proliferano i tubi neri di polietilene. Lascio il fiume ed inizio a salire un viottolo in mezzo ai campi dove stanno mietendo il grano con le falci, la roccia è chiara, prevalentemente calcare e ci sono numerose grotte, il viottolo si perde fra i campi e subito dopo ne ripartono altri che vanno in tutte le direzioni. Chiedo informazioni a un uomo che sta mietendo in compagnia di una splendida bimba dai boccoli biondi, qui non parlano come nell’Atlas però il sistema è sempre quello, la direzione verso il prossimo paese dai viottoli, trek (cammino) El Khemis el Brarha (paese) la godron (no asfalto), tutto accompagnato da ampi gesti lenti e la risposta con altrettanti gesti che poi sono insieme agli sguardi il vero linguaggio: la (no) la, ahh ! (lì va bene) e poi le solite domande palmo della mano destra rivolto verso l’alto fronte arricciata e occhio perplesso e stupito (oh che cazzo ci fai te qui?) dove hai dormito, è tuo il mulo, quanto l’hai pagato, dove vai ? che cerchi? mzien (bene), zwina (bello), bravo. Mi indica un viottolo che scende fra il grano dorato in direzione del fiume, è giovane ma il volto è segnato da rughe profonde e non ha quasi più denti, miete e lega le fascine di frumento, mentre la bimba raccoglie piantine di piselli selvatici e ne mangia i semi, i chicchi più ambiti dai bimbi di queste parti. Il viottolo cammina lungo il fiume dove ci sono tanti tamerici, ci sono anche tanti uccelli: garzette, cicogne, falchi, ma il protagonista volante è il grande avvoltoio bianco con un poderoso becco giallo che vola maestoso davanti a noi. Avanziamo nel terreno ciottoloso, dove c’è più acqua le donne lavano e riempiono i contenitori da portare a casa, un ragazzino che gioca a golf con una grande radice lanciando nell’acqua i sassi mi indica il cammino. Lasciato il greto ricominciamo a camminare fra i campi di grano, è un paesaggio tipicamente agricolo dominato da grano e olivi, Tambone non va nonostante le grandi mangiate di grano, è nervoso, irritato dal caldo e da mosche e tafani, provo a camminargli dietro senza tenerlo per la fune come fa la gente di qui, il risultato è che scappa in un campo di grano e inizia a razzia’, gli corro dietro ma va più di me, nel frattempo nei campi intorno il lavoro s’è fermato per lo spettacolo, lo prendo per la coda ma comincia a scalcia’ e per poco non mi leva, salta, il carico va giù rimanendo legato alla sella, il tonto si sente soffoca’ e si ferma. Alla fine del rodeo, la sella è ormai tutta sfatta e rimettere il tagrart è sempre un’ impresa. Il bestio sta crescendo, è diventato tutto corto, abbiamo cambiato il morso, riferato gli zoccoli e tagliato un pezzo di sella per risagomarla, ma ora dopo questa cura è completamente schiantata, però si so’ divertiti in tanti, sorrisi, risate e saluti che sbucano dalle spighe ci accompagnao alla ripartenza. Pensavamo di prendere qualcosa per mangiare nel primo douar ma in realtà sono solo poche case sparse e la gente è quasi tutta nei campi, Serena vede che in una casa stanno sfornando il pane da portare nei campi e si avvicina, le donne la chiamano al forno e gli fanno una grande festa, con baci e abbracci, mi godo la scena a distanza, in una casa di sole donne la mia presenza sarebbe inibente. Ci invitano a fermarci per il pranzo, come sempre nelle campagne, e prima del saluto le regalano un bel pane ciatto caldo e fragrante quanto mai gradito. La via lascia il fondovalle e inizia a salire, fa caldo per fortuna ogni tanto si inconta l’ombra degli olivi. Dai pendii ripidi scendono le melodie delle donne che mietendo cantano infiniti cori ritmati che trasudano di orgoglio e fatica, tanta fatica, ma positiva e allegra. Sulla via si incrociano asini con enomi carichi di grano tenuti fermi da un intreccio di corde che forma una rete a maglie larghe, è un lavoro che si ripete uguale chissà da quanto tempo, ma ogni tanto c’è un tocco di modernità naif come quando passa in sella a un ciuchino un omino col vestito tradizionale che sta chiamando dal telefonino (raccontando divertito dell’inusuale incontro: noi). Si apre un panorama maestoso verso nord, le grandi e ripide montagne del Rif. Pausa di un’ora sotto gli olivi per ripararsi dal sole e poi si sale in direzione di El Kemis, un paese che non esiste come capita spesso in Marocco, dove con il nome si indica una zona non ben definita, come se all’Elba ci fossero le indicazioni per Valdiruta, la Galea, Caubbio. Ci sono dei campi, El Kemis è al di qua del fosso El Brarha di là, in questa zona i coltivi sono così ripidi che la gente miete falciando con la schiena dritta, lavorano nei campi a “solana” perché a “ombrìa” qui in alto il grano è ancora verde. Proprio sul fosso, dove convergono le due valli c’è il piccolo perfabbricato della scuola che raccoglie i bimbi della zona, stanno facendo lezione, il maestro è un ragazzo arabo, che non mi sa dire niente a riguardo di dove siamo, l’unica cosa che capisco è che lui è qui perché ce l’hanno mandato, per fortuna che ci sono i contadini analfabeti, con loro ci si capisce sempre. Si sale ancora seguendo le indicazioni dei “fratelli berberi” con i loro guanti protettivi fatti di tronchetti canna tagliati a metà per difendere la mano che agguanta le spighe. Si sale fino al culmine di un colle tutto coltivato, qui il grano è ancora verde verde, davanti a noi una grande montagna grigia che ricorda nella forma il monte di San Bartolomeo sopra a Chiessi. Si scende fino ad arrivare al paese di El Chouyyab, c’è un piccolo emporio seminascosto da un enorme fico (almeno il doppio di quello dell’Enfola), è chiuso ma chiamano subito il proprietario che apre per noi, sembra che qui turisti (o viaggiatori che suona molto più bello e poetico) non ne hanno mai visti, in un attimo s’è fatta gente che è venuta a vedere “gli alieni”, sono tutti molto gentili soprattutto le persone anziane che sono sempre prodighe di consigli e raccomandazioni, “fransè fransè” dico che sono italiano e divento fransè italiano, perché nei posti “veri” fransè sta per europeo, è come continentale, uno prima è continentale poi po’ esse’ di Piombino, di Milano, di Bruxelles…. Riroviamo una strada, a destra per Taza, a sinistra per Kef El Ghar la nostra meta. La strada è piatta e cammina lungo il fiume circondata da grandi alberi, chiedo delle grotte, qui in zona ci dovrebbero essere delle grandi grotte, le informazioni sono diseguali ma la direzione è quella giusta, la zona è ricca di grotte e quando ricominciamo a salire sembra di vederne dappertutto. Poi si presenta in lontananza una montagna spaccata, con delle imponenti pareti rosse, si respira che è un posto speciale, un omo grosso su un ciuco piccolino mi conferma che le grotte sono lì. Non rispetto le consegne del chir, invece di andare verso il villaggio di Kef El Ghar mi dirigo verso la montagna dalle rocce rosse passando da un sentiero tra campi di grano e olivi. Ci sono case sparse e un ingegnoso ed articolato sistema di canali per l’irrigazione, è ormai sera, ci sentiamo gli sguardi di tutti adosso, ma è impossibile incrociare sguardi, solo i bimbi come sempre curiosi cercano con gli occhi ma sempre a distanza. Arriviamo alla montagna spaccata, sotto scorre un fiume e sopra c’è l’ingresso di una grande grotta dove volteggiano eleganti e tetri decine di corvi, è ormai quasi buio, e c’è aria di temporale ora bisogna cercare da dormire, da una casa risuona altissima la musica di una radio, sembra un richiamo, mi avvicino e il padrone che sembrava in attesa ci accoglie con entusiasmo, arrivano anche i figli e in un attimo ci ritroviamo comodamente distesi nel salone mangiando pane, burro e marmellata e sorseggiando thè. Inizia a piovere forte, come sempre siamo fortunati, siamo ospiti di una famiglia generosa e simpatica, Hafid il babbo è entusiasta della nostra presenza vuole sapere del viaggio e delle differenze fra la gente incontrata in Marocco, ha quaranticinque anni e è un tipo tutto muscoli e nervi come sempre si passa la serata dialogando con un linguaggio inventato e facendo foto. Domani andremo a vedere la grande grotta guidati dai ragazzi grandi di casa.
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