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L’oasi delle “Lampate delle sabbia” {youtube}h-nOf7ssfYw{/youtube}
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Monthaprile 2009
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La festa del Profeta e unico filo (verde) Questa mattina il cielo è straordinariamente limpido, c’è un’aria fresca da montagna e come per magia è scomparsa la patina di polvere che avvolgeva tutto da quando siamo arrivati. Mi godo l’oasi osservando i carretti dal tetto della terrazza e le bimbe vestite a festa che non vogliono le foto. Oggi è un giorno di grande festa, è il compleanno di Maometto, vicino alla moschea più grande stanno preparando per la celebrazione della ricorrenza, si vedono passare uomini con grandi bandiere verdi e altri con tamburelli. La luce è molto bella e il cielo terso è azzurro intenso, ritorniamo a visitare la fortezza di Shali. Il sale della struttura del grande minareto brilla riflettendo la luce del sole, così come le altre strutture tutte consumate e rese sinuose dalle rare piogge, Shali sembra un enorme plastico costruico con cartoni bagnati. Salendo sulla fortezza si apre un panorama inedito e molto più ampio, la città vecchia sembra molto più grande, le dune del deserto occidentale sono vicine e grandi e il lago di Siwa sembra un mare con le piccole isole ben definite, così come il Djebel Mawta, la collina del Tempio dell’Oracolo e il Djebel Dakrur, che si elevano dal verde delle palme come isole galleggianti. Salendo sulla montagnola a ovest della città di sale, il panorama è ancora più bello. Anche vicino alla moschea di Shali ci sono preparativi per la festa, gli uomini dentro i ruderi della vecchia città hanno acceso un focolare dove stanno cuocendo dentro un pentolone una grande quantità di cibo che sembra cous cous. Ci sono diversi uomini impegnati in questo lavoro, c’è un gran movimento di pentoloni e vasoi ma sempre con calma e in silenzio come costuma a Siwa. La festa alla moschea sembra una cosa soprattutto fra uomini, donne qui non ce ne sono, se ne vede un gruppo dall’altro lato del villaggio fortificato che nell’aia di una casa stanno lavorando in cerchio intorno a un monticello di lana e mi immagino che questo sia un po’ il loro modo di passare questa festa. Scendendo nel paese la vita continua a scorrere come l’abbiamo lascita, via vai di carretti per lo più guidati da bimbi che accompagnano le loro mamme completamente velate e coperte con il Tarfottet e uomini, oggi tutti vestiti a festa con turbanti e camicioni bianchi, che chiacchierano intorno alla moschea. L’atmosfera rilassata di Siwa mi sta contagiando, il caos e la frenesia abbrutente del Cairo sembrano un incubo lontano. Tornato al fondouk mentre aggeggio su una presa elettrica a un certo punto prende fuoco tutto e in un attimo i fili di rame si fondono tra loro, per fortuna che Serena stacca prontamente il contatore. Un’ala dell’ostello è senza energia, dopo un po’ di ricerche insieme a Mohammed, uno dei ragazzi che gestisce la struttura, si trova il contatore principale, è esterno nella via, proprio sopra una garitta della polizia, provo a salire sul tetto della garitta sotto lo sguardo perplesso del milite, quando Mohammed gli dice del contatore della corrente per paura di essere fulminato si da prontamente alla fuga. Dopo un paio di tentativi a vuoto con un legno di palma si riaccende il contatore e tutto torna regolare e il ragazzo, che mi ha scambiato per un elettricista, compra un paio di prese e una piastra nuova per sistemare il tutto. Non è semplice perché l’impianto è fatto tutto con un filo di un solo colore (verde islam naturalmente) in omaggio alla filosofia dell’inshallah, almeno apparentemente faccio un buon lavoro e Mohammed assai soddisfatto, mentre mi elenca a memoria tutti i calciatori della formazione dell’Italia campione del mondo, mi commissiona un paio di lavoretti. La luna piena è già alta sopra il Tempio dell’Oracolo mentre il sole comincia ad abbassarsi sopra la fortezza di Shali colorando d’arancio il cielo, è un tramonto reso ancora più bello dalle tante garzette che rientrano dalla laguna verso le palme del villaggio. |
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L’ecolodge e la mazza da otto chili Mattina serena e fresca, si prendono le bici e si va verso Adrar Amellal, la montagna bianca con la cima piatta che domina il lago di Siwa sul lato opposto al villaggio. Questa distesa di acqua salata fa venire voglia di mare, mi piacerebbe trovare un barchino per fare una vogata. Dopo qualche chilometro si lascia la strada principale (quella che va a Marsa Matruh) e si prosegue verso ovest sull’asfalto che costeggia il lato nord del lago, i cui confini sono delimitati da grandi zone secche con croste di sale e fango che brillano al sole, mentre più a largo i fenicotteri camminano riflettendosi nelle acque basse e immobili, che si trovano una dozzina di metri sotto il livello del mare. Provo a camminare su questo pavimento di sale, ma dopo qualche metro mi devo arrendere all’effetto sabbie mobili di questo pantano salato. In questa zona ci sono delle strutture turistiche segnalate con la dicitura ecolodge, imbocchiamo una strada che porta a un villaggio di capanne su un’isola di palme secche, a meta via c’è una grande palma finta che nasconde un’antenna e a fianco un gruppo elettrogeno, la strada rialzata prosegue dentro la laguna e la percorriamo insieme a un cucciolo di cane che ci segue. L’ingresso del villaggio è sorvegliato da un hasky impazzito che qualche sciagurato ha portato nel deserto per incatenarlo a un tronco di palma, si riesce comunque a passare. Il villaggio si vede che è nuovo ma è già abbandonato, le padrone sono un gruppo di oche che schiamazza beato nel laghetto di una risorgiva. C’è un pedalò su un carrello e una barca sfondata, evidentemente qualcosa non ha funzionato, mi viene da pensare “e se quando torno all’Elba la trovassi così?”. La laguna è bella anche se un po’ tetra e surreale, la calura e l’assenza di vento rendono tutto velato e senza colore e le piastre di sale lungo le sponde asciutte del lago ne esaltano l’effetto algido. Le palme sull’isola sono tutte secche, forse proprio a causa di questo insediamento totalmente fuoriluogo che nell’aspetto sembra il classico villaggio turistico della Polinesia con le capanne di canne e gli ombrelloni alla Paglicce beach. Riprendiamo la strada che costeggia il lago, ogni tanto si incontrano delle chiazze verdeggianti con palme, olivi e campi di erba medica, si avanza fino alla grande montagna bianca, un’altra scritta ecolodge, ancora una strada sopraelevata ci porta verso la zona degli insediamenti. È un tratto bello e ci sono tante garzette e alcuni aironi grigi, passa un turista a cavallo totalmente dissonante con tutto il resto: gilet, stivali e caschetto e tutori che lo controllano a vista da dentro un fuoristrada a poca distanza, questa è la zona dei residence di lusso e anche qui nonostante siano tutti vuoti, ne stanno costruendo ancora, la follia globalizzata dell’edilizia turistica non risparmia nemmeno Siwa. La strada che conduce ai piedi della Montagna Bianca è chiusa da una sbarra e controllata da guardiani che fanno un po’ di storie dicendo che è tutto privato, poi però ci fanno entrare. Arrivati ai piedi dell’Adrar ci troviamo davanti un grande complesso turistico costruito in kershef, arriva un ragazzo che, una volta chiarito che non possiamo andare a giro da soli, ci invita a mettere le nostre bici scarcassate dentro il parcheggio per nasconderle alla vista e poi ci accompagna a visitare il lussuoso resort. Ecolodge spartan chic come lo definiscono, è indubbiamente molto bello e curato, costruito tutto di sale, argilla e legno di palma, ma nonostante la grande cura costruttiva i letti e i tavoli di sale, è senza anima. L’impressione è che tutto questo esclusivo “eco lusso” sia un bluff, anche come affluenza, mi sa che anche qui la crisi è arrivata, io vedo solo cinque o sei pancioni americani all’ombra del palmeto accanto alla piscina, in compagnia dei loro immancabili beveroni alcolici e i fuoristrada con gli autisti a pochi metri. Hanno costruito queste cose per ricconi spacciandole come modelli di turismo ambientale, ma per come la vedo io mi sembra più un capriccio di stile che un esempio di turismo in sintonia con l’ambiente e poi stando dentro questo lagher dorato, dove una camera costa cento volte di più che nel “nostro” ostello, sei isolato dalla realtà del posto e non hai nessun rapporto con la gente che ci vive. Anche se costruito secondo i principi della bio architettura applicati alle tecniche tradizionali di Siwa, sotto la scorza di sale rimane un villaggio turistico e i ragazzi Siwani in elegante divisa da servo, sono qui a confermarlo. Recuperiamo i nostri claudicanti cicli e ritorniamo sulla via, due bimbi hanno lasciato l’asino con carretto sulla strada e con i falciotti stanno tagliando i giunchi nel canale, sono piccoli ma lavorano a capo basso. La strada attraversa un palmeto con gli orti e poi incontra il deserto, anche qui si lavora duro, ci sono tre uomini che spaccano le pietre, battere la mazza sotto il sole cocente nel deserto sa di galera e di inferno e invece è semplicemente lavoro. Qui sabbia non manca ma i sassi sono cosa rara, è molto più facile trovare sale e fango e questo spiega la tradizione costruttiva Siwana, ma oggi la pietra bianca di questa zona è molto richiesta. Gli uomini lavorano seguendo un filone in superficie, usano mazze molto pesanti, da 8 chili, che sono manicate con legno d’olivo, mazzoli, pali di ferro a punta di subbia e zeppe di metallo molto larghe spesse meno di un centimetro, mi piacerebbe fare un filmato e delle foto ma capisco che la cosa li imbarazza e allora saluto e tiro dritto. Il deserto è un mare di conchiglie e coralli ormai sbiancati, ci sono migliaia di ostriche, alcune gigantesche, tante conchiglie a pettine e delle larghe conchiglie bivalve che sembrano cozze giganti. Fa caldo ed è tutto molto fosco e polveroso, un peccato perché la vista sul lago salendo solo di pochi metri, è notevole, la cosa bella è che non si suda per il gran secco. In questo deserto il colore prevalente è il giallo, ma ci sono delle lunghe strisce bianche di sale e varie tonalità di ocra che si scuriscono fino al rosso porpora, le rocce calcaree sono scolpite dal vento che ne ha disegnato le forme stondate. Nelle parti rocciose più alte e compatte ci sono scavate centinaia di tombe di cui nei libri che ho non c’è nessuna menzione, gironzolando dentro una depressione ne troviamo una sessantina numerate, alcune hanno più di una camera, ma la maggior parte sono piccole e spesso l’ingresso è ostruito dalla sabbia, in alcune si vedono le tracce di pitture e in altre si intuisce che sono state scalpellate di recente come per togliere pitture murali, tutt’intorno ci sono tanti resti di ceramica e decine di resti di ossa umane. Riprendiamo le bici e si ritorna verso Siwa, che da qui dista una ventina di chilometri. Avvicinandosi al villaggio principale si ricominciano ad incontrare i carretti trainati dai ciuchi e le moto col cassone, che mi fanno tornare in mente Umberto di Daria che quando ero bambolo con un mezzo simile girava portando le bombole del gas per Filetto e Bonalaccia. E’ormai sera, a Siwa la vita scorre tranquilla regolata dal ciclo del sole e dalle chiamate dei muezzin. Mi piace Siwa e la tranquillità della sua gente anche nei confronti del turismo, qui voglio stabilire un contatto per Base Elba, la comunicazione è complicata, il Siwi è diverso dall’Amazigh di cui in Marocco avevamo appreso qualche vocabolo e la lingua straniera conosciuta è l’inglese che per me è peggio dell’arabo, ma comunque sforzandoci ci si intende sempre. |
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Il Tempio dell’Oracolo Ancora una giornata di vento che rende tutto impastato di sabbia e indefinito, concedendo una visibilità assai limitata, è il “Khamsin” il vento di primavera che a quanto ci dicono può durare anche per settimane. Il fonduk che ci ospita è un posto piacevole frequentato da egiziani e turisti indipendenti, è gestito da un gruppo di ragazzi Siwani che passano la maggior parte del tempo sdraiati in un camerone a dormicchiare, la quiete regna sovrana in quest’ostello con la porta sempre aperta, il suo punto di forza è il giardino ombreggiato dalle palme di cui una delle più assidue frequentratrici è una signora australiana di mezz’eta che passa le giornate a scrivere e a leggere in compagnia di una famiglia di eleganti gatti rossi di cui è innamorata. È una tipa molto gentile ed è sempre sorridente, specialmente quando scrive, poi c’è una coppia di giapponesi, lui sembra un marinaio dell’Arcadia, l’astronave di Capitan Harlock, in libera uscita e suona i bonghi mentre la sua compagna, una fricchettona esile e sempre vestita di bianco, gli danza intorno; la cosa che mi piace è che ognuno quello che fa, lo fa per se, almeno così mi sembra. Nel villaggio è difficile incontrare delle donne Siwane che camminano per le vie, preferiscono starsene in casa, quando escono si spostano con i carretti o i motocarri guidati dagli uomini, spesso le mamme aspettano sul cassone e mandano i figli a fare le compere, per noi è difficile da comprendere ma a loro sembra che piaccia così, questo è uno degli aspetti che vorrei approfondire nei prossimi giorni. Intanto mi compro “Siwa dall’interno” il libro scritto da Fathi Mandhi un antropologo Siwano, che è stato tradotto anche in italiano. Nel pomeriggio il vento cala e si va a fare un giro verso Aghurmi per visitare il famoso tempio, la gente ci comincia a riconoscere, sono appena tre giorni che siamo qui ma il posto è piccolo e poi normalmente per uno straniero tre giorni a Siwa sono tanti. Ora che il vento si è quietato i bimbi sono tornati a giocare in strada, due bimbe sorridenti si rincorrono, hanno le trecce lunghe legate in fondo da due grandi fiocchi rossi e vestiti lunghi e colorati che sembrano usciti da un libro di fiabe, poco più avanti c’è un bimbo che gioca spingendo nella sabbia il guscio rigido delle infiorescenze della palma, lo guida con un bastone facendolo scorrere nelle ondulazioni della sabbia come fosse una barca. Anche le persone anziane sono uscite e se ne stanno appoggiate ai muri osservando e commentando l’andirivieni lungo la via. In una quarantina di minuti si arriva sotto la collina di Aghurmi intorno alla quale si sviluppa un piccolo villaggio molto povero dove abitano prevalentemente gli “Agmage” i Siwani di pelle scura, quelli che un tempo erano gli schiavi dei Siwani più ricchi, quelli che hanno la pelle più chiara e sono di ceppo Amazigh, probabilmente i discendenti dei primi abitanti dell’oasi. Siamo ai piedi del famoso Tempio dell’Oracolo che si trova sulla sommità spianata di questa piccola collina di roccia chiara dalle pareti verticali, che si eleva dalla depressione dell’oasi come una fortezza naturale, quando la vedi da lontano è come un’Isola e sembra galleggiare sulle palme. Questo luogo è rimasto molto importante anche dopo la fine del periodo classico (faraonico e greco romano) perché che fino a quando non fu costruita Shali la collina ospitava il più importante villaggio dell’oasi, anch’esso fortificato e costruito con blocchi di sale ed argilla, ma è innegabile che il fascino che esercita sia soprattutto legato alla storia antica e alle leggende del Tempio dell’Oracolo di Amon, un santuario venerato, rispettato e temuto per svariati secoli e considerato uno dei più importanti centri di potere religioso del mondo antico. Questo è anche il luogo più visitato dell’oasi, spesso i turisti arrivano qui solo per visitare le rovine del glorioso edificio, famoso soprattutto perchè legato alla mitica storia di Alessandro Magno, ma a quest’ora il sito sta per chiudere e non ci sono turisti. Si sale da una scala scavata nella roccia attraversando il vecchio villaggio di Aghurmi che è stato restaurato pesantemente, all’interno della fortezza c’è un grande pozzo e delle cisterne, strutture indispensabili in caso di assedio e pavimentazioni in pietra risalenti al tempo del Tempio di Amon, quello che resta del vero e proprio Tempio dell’Oracolo è piuttosto mal ridotto, un edificio in pietra sul margine esterno della rocca, che conserva qualche fregio sbiadito di immagini sacre e iscrizioni in geroglifico. Il tempio risale alla XXVI dinastia al tempo del Faraone Amasis, penultimo Faraone della cosiddetta dinastia Saitica, il cui ceppo genetico era di origine Libica, Amasis per farsi benvolere dal potente Clero Tebano edificò questo tempio all’interno di un’area sacra già esistente e dedicata alla stessa divinità. Secondo gli archeologi il primo tempio fu costruito durante la XXI dinastia, intorno al mille avanti cristo, quando in realtà l’Egitto era frazionato in più regni, l’epoca dei grandi Faraoni guerrieri era ormai finita e il potere centrale aveva perso il controllo dello stato, la Nubia era tornata ad essere un regno indipendente, solo il Nord era governato dal Faraone che aveva spostato il suo centro nella citta di Tanis nel Delta Orientale, mentre l’Alto Egitto era uno stato autonomo governato dai sacerdoti di Amon di Tebe, a cui all’epoca Siwa faceva capo. C’è anche chi dice che il culto Siwano abbia un’origine ancora più antica e che il tempio inizialmente non era dedicato al dio Amon Ra di Tebe ma ad Amman il dio delle sorgenti, una divinità originaria dell’oasi risalente a tempi remoti. l’Oracolo di Siwa all’epoca del Faraone Amasis godeva di grande prestigio e la sua fama probabilmente era enfatizzata anche dal fascino di trovarsi all’interno di un’oasi così remota, ma il massimo del prestigio lo raggiunse qualche decennio più tardi a seguito della scomparsa nelle sabbie del deserto di una grande armata che intese sfidare l’Oracolo. La storia ci racconta che nel 525 a.c. il Re Persiano Cambise invade e conquista l’Egitto e lo riunisce in un unico regno proclamandosi Faraone del Basso e dell’Alto Egitto, con grande disappunto del Clero Tebano ormai abituato a non essere sottomesso a nessuno. I sacerdoti di Amon non riconoscono l’autorità del nuovo Faraone e attraverso l’oracolo di Siwa sfidano il sovrano straniero maledicendone il regno, pronosticandogli sventure e sconfitte. Cambise per mettere a tacere l’oracolo e i suoi sacerdoti, allestisce una formidabile armata di 50.000 uomini allo scopo di distruggere l’oracolo e uccidere i suoi sacerdoti, ma la spedizione si risolse in una tragedia, la storia tramandataci ci dice che la grande armata fu inghiottita nel deserto da una tempesta di sabbia e non ci fu nessun superstite. Il fatto abilmente divulgato dai preti, da sempre maestri di propaganda, destò grande clamore e fece crescere ancora di più il potere dell’Oracolo di Amon e il suo prestigio si diffuse in tutto il mondo antico. La fama e l’autorevolezza del tempio sono testimoniate dal fatto che Alessandro Magno dopo aver sconfitto i Persiani e preso possesso dell’Egitto, nel 331 a.c. prima di proclamarsi Faraone, attraversando il deserto con una marcia di 8 giorni, si recò al tempio dell’Oracolo per avere la benevolenza dei suoi temuti sacerdoti e solo dopo aver ricevuto la certificazione delle sue origini divine, indossò la corona di sovrano d’Egitto e dichiarò di voler essere sepolto a Siwa. Sembra che anche il suo successore Tolomeo e in seguito i suoi eredi abbiano fatto l’impegnativo viaggio attraverso il deserto da Alessandria a Siwa per avere il benestare dell’Oracolo. Il periodo Tolemaico fu per il Tempio e per Siwa il tempo del massimo splendore, l’oasi comunque rimase un centro di grande importanza religiosa ed agricola anche durante la dominazione Romana. Poi con il declino di Roma il tempio perse di prestigio di importanza, il culto rimase comunque attivo almeno fino al VI secolo dopo cristo, anche perché qui a quanto pare il culto cristiano non arrivò mai. All’inzio del VIII secolo Siwa subì l’invasione degli Islamici Arabi a cui resistettero a lungo combattendo dalla fortezza di Aghurmi, ma nel contempo si convertirono alla fede islamica e il culto del tempio dell’oracolo finì per sempre. Il sole sta tramontando pallido dietro le dune del deserto libico, avvolto nelle polveri alzate dal vento che faticano a depositarsi e nella luce tenue del tramonto, a oriente risalta una luna splendente che sta salendo veloce specchiandosi nel lago salato di Aghurmi, è un momento magico a cui anche i falchi rendono omaggio volteggiando eleganti sopra il millenario tempio. Lasciato l’altopiano fortificato gli facciamo un giro intorno, dal basso ricorda il castello del Volterraio e i riflettori tutt’intorno che si sono accesi con l’imbrunire, gli regalano ulteriore fascino. Mentre si rientra a bordo strada si vedono diversi gatti morti, spesso senza testa, forse vittime della magia nera, ritualità che nonostante sia vietata dall’islam, sembra ancora presente nell’oasi, chissà se è rimasta anche qualche reminiscenza degli antichi culti risalenti al Tempio dell’Oracolo, dove ufficialmente furono officiati gli ultimi riti religiosi della millenaria civiltà dell’antico Egitto. |
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L’Oasi è come un’Isola Il silenzio è il sovrano di Siwa, tutto è lento e rilassante nell’oasi, la frenesia del Cairo finalmente ha smesso di rimbombarmi nel cervello, per quanto possa sembrare assurdo sento aria di casa. Si prendono due bici scarcassate e ci si sposta verso il lago salato di Siwa, passando dal piccolo souk per la via si incontrano tanti carretti, di solito guidati da bimbi, che accompagnano le donne sempre velate di nero e ricoperte dal classico mantello color grigio azzurro, il tarfottet. La comunità di Siwa ha costumi molto rigidi e le donne non devono mai uscire di case senza essere accompagnate. Cercando uno sbocco sul lago si finisce nel fango salato, poi si raggiunge una strada sopraelevata che lo attraversa. Il tempo è fosco e il paesaggio surreale e indefinito, ci sono delle piccole isole e blocchi di sale, tutto intorno il deserto ma niente di tutto questo ha forma definita. Falchi, aironi, garzette e anche fenicotteri rosa, si specchiano nelle acque del lagho così come le anatre. Arriviamo in una zona dove il silenzio è interrotto da delle idrovore che stanno asciugando la parte esterna della laguna per creare delle zone agricole. Andando avanti troviamo una strada che torna verso Siwa camminando sul limite della laguna dove inizia il verde dell’oasi, in cui prevalgono le coltivazioni di olivo e palma da dattero. La terra è argillosa e in alcuni punti è rosso porpora, ci sono tanti ruderi di case e piccoli villaggi costruiti di blocchi di sale che ormai sciolti dall’acqua si sono deformati in sagome spettrali. Continuiamo il nostro giro pedalando nell’oasi, si incontrano soprattutto carrettini trainati dai ciuchi e qualche moto, senza volerlo mi ritrovo al Djebel Dakrur rinomato per le sue sabbie curative e per i fantasmi che a detta dei Siwani sembrano abitare la collina, subito dopo il piccolo villaggio e poi una serie di abitazioni abbandonate. Vagando nel dedalo dei viottolini all’interno dell’oasi dopo un pò arriviamo sotto la collina di Aghurmi dove si trova il mitico tempio dell’Oracolo di Amon, che Alessandro Magno visitò nel 331 a.c per chiedere conferma sulle sue origini divine, i sacerdoti dell’oasi confermarono la discendenza sovrannaturale indispensabile per diventare faraone e per par condicio unificarono il culto greco a quello romano e lo dichiararono figlio di Zeus Amon. La luce accecante e l’aria densa di polvere e foschia mi inducono a visitare il famoso sito in un’altra occasione, così come l’altro tempio di Umm Ubeyda, anch’esso decicato ad Amon, che incontriamo poco dopo. Proseguendo nel palmeto si arriva ai famosi bagni di Cleopatra considerati la massima attrattiva dell’oasi di Siwa, sono una grande delusione, una pozza d’acqua termale con un po’ di bollicine con a fianco un baretto e un po’ di poliziotti di guardia e un paio di ragazzetti che si tuffano nel pozzo, una goffa attrattiva turistica che stona con tutto il contesto e poi questo nome idiota che non c’entra niente con Siwa, sullo stile dello scoglio della Paolina nel Golfo di Procchio, è sicuramente più bello e storicamente pertinente il nome di “Sorgente del Sole” che gli dettero gli antichi viaggiatori, o quello semplice e schietto di “Sorgente del Bagno” (Ain el Hamman) che gli ha dato la gente dell’oasi. È ormai il tramonto quando si ritorna al villaggio di Siwa, è il momento in cui lungo le vie c’è più movimento, la gente ritorna a casa dai campi e tutte le micro botteghe si attivano, tutto scorre lento e armonico e sembra essere immutato da secoli. Il rientro verso casa di un contadino che spinge una carretta piena di erba medica mi fa tornare in mente Zio Mario quando rientrava la sera alla Bonalaccia dopo aver irrigato l’orto delle paglicce, con il raccolto dentro la carretta nascosto alla curiosità di turisti e vicini da una catasta di erba per i conigli con un poponcino marcio sopra da regala allo scroccone del maresciallo dei carabinieri, un tale Zollo che passava sempre dalla via all’ora del rientro. In queste stradine polverose rivedo la Bonalaccia della mia infanzia, queste biciclette che passano con le zappe legate dietro al sellino, sono scene riviste e le formazioni di ibis che volano compatte nel tramonto ricordano i gabbiani. Nonostante siano circondate dalla sabbia le oasi sono la situazione più isolana del continente e i suoi abitanti hanno un identità ben definita, sono orgogliosi della propria terra in una maniera spontanea, probabilmente genetica proprio come gli isolani. È questo un posto povero ma dignitoso, ricco di fascino e di mistero, non ci sono paesaggi eclatanti o monumenti imponenti, ma si è costantemente circondati da un alone di fascino e mistero reso assai piacevole dalla quiete e dall’indole orgogliosa ma pacifica dei siwani |
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I Libri Coranici {youtube}0v_IqgxhmmU{/youtube}
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San Bartolomeo di Bishoi del Wadi Natrun {youtube}VQnn6aLUXpQ{/youtube}
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Degrado e censura a Menfi, tramonto da Shepseskaf e il villaggio fra le palme Menfi {youtube}FJS9WPEnJVw{/youtube} {youtube}lF-9g4j_1LY{/youtube} |
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San Giorgio, La Casa di Gesù e il panorama rubato {youtube}kDNp0UZLhOc{/youtube} |
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