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Un mondo che fa mangiare i Bimbi dalle mosche Sul cantiere vicino a casa i lavori proseguono, i mattoni cotti vengono portati a spalla fino al terzo piano con un sistema efficace ma tanto faticoso, alcuni li portano sulla spalla come si è sempre fatto anche noi sul cantiere, altri li legano con una corda, in particolare c’è un ragazzo seccarone baffuto che ne porta un numero spropositato, inizia a preparare il carico mettendo tre mattoni spianati e poi prosegue incrociandoli facendo una pila alta un metro, dopodiché ci passa la corda intorno, la gira con un nodo alla muratora, poi prende un sacchetto vuoto di un ballino di cemento se lo appoggia sul groppone e tenendo il carico con la corda se lo appoggia sulla schiena e inizia a salire fino all’ultimo solaio. Lavorano sodo senza chiacchierare e si vede che c’è l’orgoglio nel costruirsi la casa nuova, anche la sabbia viene portata su a spalla riempiendo i sacchetti vuoti di cemento. Mut sta cambiando velocemente e in questo quartiere di case ancora costruite in mattone crudo tutti ambiscono ad avere una moderna casa in muratura, sicuramente a livello paesaggistico e anche culturale è una grande perdita, ma a guardare la volontà e la fatica di queste persone provo una grande ammirazione. Tutt’intorno c’è tanta miseria, ci sono tanti bimbi che trasmettono sempre allegria e vitalità però quando li vedi giocare tutti sporchi nelle discariche, con le mosche negli occhi, in bocca e nel naso, la sensazione di tristezza e ingiustizia supera tutte le altre, non si può accettare passivamente un mondo che fa mangiare i bimbi dalle mosche. |
Monthgiugno 2009
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Pane di strada La voce cadaverica del muezzin me la ritrovo anche nel sogno, per fortuna stamattina la temperatura è calata e il vento è ritornato ad essere qualcosa di piacevole. Facendo un giro fra le case in mattoni crudi della città vecchia sulla soglia della moschea incrocio un uomo anziano che sta dormicchiando, mi domando se è il muezzin canterino della notte o anche lui ne è una vittima, appena più avanti in mezzo alla strada troviamo una trentina di pani messi al sole a lievitare appoggiati su dei piatti di sasso, chissà da quanti secoli si usa questa tecnica per fare il pane? Sono immagini belle che ci regalano gli ultimi scampoli di una cultura plurimillenaria, purtroppo la città vecchia sta inesorabilmente morendo, oltre alle abitazioni anche i palmeti all’interno delle mura antiche sono tutti piuttosto malridotti e in molte zone sono ormai completamente secchi, probabilmente a causa dei tanti pozzi scavati nella campagna circostante, che hanno abbassato la falda freatica di superficie. Andiamo a mangiarci la classica fitir zuccherata da “assarya” sempre più perplesso della nostra prolungata presenza a Mut e poi dopo il classico saluto “welcome in dakhla, dakhla very good” ci prendiamo anche un the da Farath che ci chiama da lontano “oimbirtù e serena” Un’altra giornata passata a spedire materiale e a leggere le meschine notizie della politica isolana e nazionale incentrate su marescialli cementificatori e troie di regime. |
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Il piccolo Indio del Sahara È mezzanotte ma è ancora caldissimo, una squadra di ragazzi sta finendo di allestire le impalcature per la festa di matrimonio che ci sarà stasera, bucano la strada e mettono dei pali di legno che servono per sostenere l’illuminazione, i lavori si fermano all’una di notte, ora in cui scatta una specie di coprifuoco e al posto degli uomini per le vie si cominciano a vedere le volpi che si spingono fino alle case abitate spinte dal coraggio della fame. Scrivo fino al primo canto del muezzin e poi mi addormento. Quando mi sveglio il sole è già alto, la gettata di sabato è già stata disarmata, camminando per la via in cerca di un fruttivendolo incontro un gruppetto di bimbi che giocano con un ciuco e un carretto, su tutti spicca un bimbo con i capelli lisci a caschetto e la faccia da indio che per qualche evento magico è nato in questa oasi Sahariana. Il taglio degli occhi, il naso e la folta chioma lucente, lo rendono diverso dal fratello e dai suoi amici che hanno tutti i capelli riccioli e l’ovale del viso allungato, ogni tanto capita che i geni si ricordino dei “parenti lontani” ulteriore prova che noi umani siamo un’unica razza, qualcuno più scolorito, qualcuno ricciolo, secco o massiccio, ma alla fine siamo tutti parenti, il sorriso del piccolo indio africano che gioca con i suoi amici è la risposta più bella all’idiozia del razzismo. La macchina fotografica esercita sempre un grande fascino e tutti vorrebbero una “sura” (fotografia) specialmente i bimbi e i ragazzi, richiedono le foto e poi si accontentano di guardarle piccoline nel visore della camera digitale, in tanti vogliono le foto, anche una bimba che prima dice che lei non vuole la foto ammonendo anche le altre con la minaccia che alla madrassa hanno detto di non farsi fotografare, ma poi la voglia di vedersi immortalata è più forte e prima salta davanti all’obbiettivo e poi si ammira compiaciuta nel visore. La confusione attira sempre più gente, si ferma anche un macchinone nero di una famiglia benestante, probabilmente diretta ad una festa, da cui esce un bimbone obeso che mi chiede di essere fotografato con la sorella, poi con fare da boss mi stringe la mano e risale in macchina senza nemmeno guardare le foto, prima che la cosa degeneri metto la fotocamera nello zaino e mi dileguo. In serata inizia la festa del mariage, la strada è stata trasformata in un teatro, con la via platea piena di sedie occupate dalle donne e sul palco gli sposi sul trono contornati dall’immancabile cameraman e dal fotografo con un flash gigantesco che ad ogni foto scioglie un po’ di cerone bianco dal faccione pingue della sposa, ma il pezzo forte è il complesso musicale in cui spicca il cantante che dentro una giacca dorata degna di un domatore del circo Orfei lancia lamenti stonati che amplificati e distorti da un disgraziato impianto audio fanno rimpiangere il canto del muezzin. |
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Il sorriso delle fate e il broncio delle megere Lasciamo la nostra stanza sulla collina dei morti della vecchia Mut prima dell’alba per fare una camminata verso sud ovest in direzione del deserto di sabbia, dopo circa un chilometro si vedono le mura imponenti dei ruderi di un antico insediamento, il sito è recintato ma si entra da una delle tante aperture. È un sito molto esteso, ci sono delle grandi mura in mattone crudo, tracce di pavimentazioni, qualche resto di colonna, c’è anche la baracca del guardiano che però ci ignora e qualche cane che si stiracchia la schiena rivolto al primo sole. Sicuramente qui c’era un importante insediamento, probabilmente era qui la Mut del periodo Romano, l’impronta è quella di una città, non ci sono sepolture, ma i resti di una cinta di mura e all’interno numerose abitazioni, si vede bene che qui sono stati effettuati degli scavi archeologici importanti, fra i tanti edifici e i vicoli riportati alla luce, anche la struttura di un mulino e quella che sembra la bottega di un fabbro, ma la stragrande maggioranza delle urbanizzazioni sono ancora sotterrate, ovunque spuntano resti di cocci e tracce di pavimenti a lastre, si respira netto che qui in passato c’era un insediamento molto importante, del resto la città dedicata alla Dea Mut la sposa di Amon, il principale dio dell’Antico Egitto, doveva sicuramente essere un centro prestigioso, purtroppo sembra che sia stato tutto dimenticato e anche questo scavo abbandonato è ormai diventato un rifugio per cani e volpi, non sembra poterci raccontare molto di più. Lasciato l’altopiano della vecchia misteriosa città, ci incamminiamo nella campagna fra campi di cipolle, erba medica e palmeti, salendo su una collinetta rossa si scorge un piccolo lago in cui si specchiano le palme circostanti, superato il bacino camminiamo ancora un po’ fra campi di grano e campi sterili formati da rosse argille salmastre e poi si rientra avvolti nella cappa caliginosa. C’è un largo marciapiede nei pressi del centro di Mut dove si ritrovano le donne che vendono le erbe, se ne stanno sedute in terra con la loro merce davanti, in attesa dei compratori, evidentemente esiste una gerarchia e dei posti assegnati perché assisto ad una scena di sfratto, operata da un vecchio che si ferma e scaccia una giovane donna e la sua bimba berciando aggressivo con modi da cialtrone sotto lo sguardo compiaciuto delle altre venditrici, quattro brutte cinghiale grasse tutte vestite di nero che non si risparmiano vili commenti sibillini, l’aggredita cerca di difendere la sua “piazzola” di vendita ma dopo un violento sfogo, esasperata inizia a trasferire le sue erbe dall’altro lato della strada con l’aiuto della sua bimba fiera alleata della mamma. Con la classe innata dei buoni la donna trasforma lo sfratto in un gioco per la bimba che si diverte a trasferire le fascine di verdura dall’altro lato della strada saltellando e ridendo sotto lo sguardo cupo e ottuso delle megere dai veli neri che si incupisce ancora di più quando un motocarro di un baffuto pancione accosta al marciapiede ghetto e si compra quasi tutta l’erba sfrattata. |
Gettata calda Dopo una nottata a internet, si rientra. Oggi il caldo impedisce ogni azione si fa fatica anche a respirare, eppure c’è chi continua imperterrito a mietere, ci saranno almeno quarantacinque gradi ma una squadra di muratori carpentieri sta facendo una gettata, ieri hanno finito di armare le colonne e oggi gettano. Lavorano di gran lena, cappello di lana per non prende fresco e via, l’impasto: sabbia (tanta) e cemento (poco), l‘attrezzatura è rimediata e il mestiere (la tecnica) lascia perplessi, ma la volontà e l’energia di questa gente è impressionante, vorrei che qui ci fossero tutti quei sparasentenze che dicono che gli africani sono tutti vagabondi. In serata novità, andiamo da “Assaria” con pomodori e formaggio e ci facciamo fare un fitir salato e poi al chioscho dei pullman dove sono arrivati i gelati con lo stecco. Sono tempi duri anche per le volpi che di notte girano per l’abitato alla ricerca di cibo. |
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Un mattino nei campi Si lavora con internet tutta notte, poi ai primi chiarori del mattino si esce per fare un giro nei coltivi dell’oasi, ci accoglie un’alba pallida il sole è avvolto nelle nuvole informi e grigie, la temperatura però è finalmente piacevole. Ci incamminiamo a ovest del paese e salendo su una delle tante colline di terra rossa si vede che c’è già un discreto traffico di carretti in direzione dei campi, mentre si sale le volpi si allontanano, ne vedo diverse, almeno cinque, ma a giudicare dalle tracce sono sicuramente di più, anche su questo rilievo ci sono tracce di una necropoli del passato e resti di teschi e ossa varie sbucano un po’ da tutte le parti, ci sono decine di tombe comuni interrate, costruite in mattone crudo, dove fra i resti dei vecchi abitanti le volpi hanno costruito le loro tane. Scendendo dal poggiolo si passa da un cimitero più recente con le tombe sempre costruite in mattone crudo e fango, rispetto al classico Camposanto Islamico le tombe sono più elaborate e soprattutto hanno delle lapidi con inscrizioni. Le coltivazioni partono dai limiti del paese e si sviluppano fitte per un paio di chilometri a fianco del grande palmeto, finché le dune di sabbia del deserto non le stoppano bruscamente, ci sono soprattutto campi di grano ma anche cipolle e le immancabili distese verdi di erba per gli animali. Siamo nel pieno della mietitura che qui viene effettuata ancora a mano con il falciotto avanzando in ginocchio fra le basse spighe di grano, alte circa settanta centimetri; è un lavoro lento e faticoso sopratutto per la posizione e gli uomini che avanzano ad altezza spiga sono resi ancora più mimetici dai cappelli di paglia. Lungo le vie che seguono il fianco dei numerosi canali, cominciano a passare le donne che portano il convio agli uomini, portando sulla testa le tipiche borse di paglia colorate. Fra le tante coltivazioni ci sono anche dei campi di zucche allagati dove zampettano gli ibis, gli uccelli sono tanti e si concentrano intorno ai canali musicandoli con il loro canto, il terreno intorno ai canali è ricco di sale, a volte la concentrazione salina non consente di coltivare questi campi di terra rossa strisciati dal bianco del sale che si solidifica in una crosta a forma di bolle, comunque la maggior parte della campagna è fertile e coltivata a grano. Avvicinandosi al palmeto si incontrano le stalle, sono tante tutte vicine e formano come un piccolo villaggio costruito con blocchi rossastri di fango e sale, questi muri sono tutti irregolari e morbidi, si vede bene che il fango è stato modellato con le mani, ma anche qui le cose stanno cambiando, le murature tradizionali cominciano ad essere sostituite da strutture di blocchi di pietra bianca murate con il cemento. Si incontano diversi canali alimentati da numerose sorgenti quasi tutte calde e ferrigginose, la distribuzione delle acque viene effettuata con un’intricata rete idrica e quando è possibile le acque calde vengono miscelate con le preziose e rare fresche, queste stazioni di smistamento assomigliano agli scambi di una stazione dei treni e sono fatte con fango argilloso, legno e pietre, oltre a portare l’acqua a destinazione la fanno anche raffreddare evitando così danni alle colture. Il palmeto lascia il posto ai campi verdi con le mucche al pascolo e gli ibis tutti intorno che ricordano il delta del Nilo, a lavorare nei campi ci sono soprattutto gli uomini, mentre le donne vanno avanti e indietro nei viottoli portando sulla testa le borse di paglia e trasportando a forza di braccia i bidoni dell’acqua e i contenitori di latta con cui trasportano il latte appena munto, spesso sono adornate con bracciali e orecchini d’oro, hanno sempre il volto scoperto e, a differenza delle donne delle altre oasi visitate, sono sorridenti e cordiali. C’è un gran lavorare silenzioso in questa campagna, gli uomini che raccolgono l’erba medica, poi la trasportano con un cestone strapieno sulla schiena che li fa sembrare alberi con le gambe, ci sono anche tanti bimbi a lavoro, i maschi aiutano nei campi e guidano i carretti mentre le bimbe accompagnano le mamme alle sorgenti a alle stalle. Assistiamo a tante belle scene tra cui quella di una mamma con la sua bimba che si tiene alla manica del camicione multicolore, che se ne rientrano al villaggio canticchiando dopo aver portato la colazione nei campi agli uomini di casa. Con il sole ormai alto si rientra in paese, il caldo è feroce e rende impegnativo anche camminare, seguendo il ritmo dell’oasi ci rintaniamo all’ombra per poi riuscire al ponere del sole. {youtube}LjX19hP0h8s{/youtube} |
La movida di Mut La movida di Mut ha il suo picco massimo fra le dieci di sera e mezzanotte, niente di che ma l’atmosfera è piacevole, le donne passeggiano chiacchierando lungo i viali insieme ai bimbi, mentre gli uomini stanno al cafè a shishare e a guardare telenovele. Sicuramente le donne di Mut sono molto più emancipate rispetto a quelle di Siwa, Bawiti o Farafra; magari pensando all’europea, emancipate è un termine esagerato, ma qui siamo nel Sahara egiziano. |
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Contento e orgoglioso Mi risponde Beppe Tanelli, verrà a Kerkennah per “Base Elba” sono molto contento e orgoglioso della sua adesione a questo progetto. |
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I vicoli della città vecchia Scrivo un po’ di lettere per preparare il lancio di Base Elba, poi prima andare ad internet dove ho un appuntamento con Michelangelo per fare delle migliorie al sito, facciamo un giro nella città vecchia entrando dal cimitero vecchio che è interessante e inquietante, è una collina rossa dominata da un grande marabutto di mattoni crudi con all’interno le solite sepolture malridotte e intorno decine di fosse a pozzo con una copertuta in mattoni crudi che si chiude su una botola aperta, dentro ognuna di queste sepolture ci sono svariati corpi, alcuni avvolti nei sudari sembrano mummificati, è difficile capire, nessuno sa dire niente di questo luogo oltre che sono morti da tanto tempo. Dal cocuzzolo del camposanto si ha una bella panoramica sulle case della città vecchia sui cui tetti piatti in questo periodo di mietitura ci sono accumulati i fasci di grano e dall’alto sembrano nidi di smisurati uccelli. Mentre si entra nei vicoli, guardando fra la spazzatura accumulata a ridosso della ripida parete della collina funeraria, vedo che c’è un teschio che probabilmente è rotolato dall’alto e ora riposa fra la rumenta ignorato da tutti. Sono vicoli vivi i primi incontrati, con i bimbi che giocano a rincorrersi e le donne che puliscono erbe e chicchi di riso sulle soglie delle case, spostandosi verso nord si entra nella parte ormai abbandonata dell’agglomerato, le abitazioni sono in gran parte crollate, il paese è come sommerso dagli accumuli dei detriti, sembra che ci sia stato un terremoto. I portoni di legno di palma con grandi chiodi fatti a mano, così come le pitture colorate che si vedono dentro i ruderi e le tante nicchie che spuntano delle sezioni di pareti sopravissute, raccontano di un’architettura pregevole, è un continuo scoprire anfratti silenziosi che regalano sorprese, ora vecchi arredi, ora utensili; c’è silenzio assoluto e luce filtrante, sembra quasi un’esplorazione sottomarina. Camminando avvolti dentro i colori belli del tramonto che esaltano il rosso dei mattoni, ritoviamo un carrugio abitato, i bimbi giocano nella polvere dorata del vicolo, mentre gli anziani seduti a cerchio conversano sorseggiando the, accompagnando con gesti ampi e lenti le poche frasi scandite con enfasi, si respira la cultura del deserto in questi vicoli, dove le donne anziane sono vestite di blu e se ne stanno sulla via sedute sulla soglia della porta delle loro case seminiterrate controllando ogni movimento. Camminando nel dedalo di viuzze ci troviamo in un cortile dove una mamma giovanissima sta coccolando il suo neonato, è sorpresa da noi e forse anche un po’ impaurita e disturbata, ma la voglia di mostrarci il neonato è più forte di tutto il resto e il suo sorriso candido e orgoglioso è l’essenza della bellezza. Girato l’angolo mi ritrovo fra bimbi eleganti e flessuosi, hanno la pelle scura e i lineamenti tipicamente africani e in tanti inaspettatamente hanno gli occhi chiari, qui in Africa capita spesso che gli agglomerati siano divisi per etnie e probabilmente in questa zona semiabbandonata di Mut vi si è installata una piccola comunità proveniente da Sud, contrariamente a quello che tanti pensano il razzismo qui è molto forte e difficilmente ci si sposa fra etnie diverse. Il rumore di una ruspa ci fa capire che anche Mut antica ha i giorni contati, le vecchie case dalle forme morbide costruite con terra e fango vengono sostituite da cubi di cemento armato, qui non esiste niente di anche lontanamente simile ad un piano regolatore, quando uno ha un terreno e i soldi può costruire, senza nessun vincolo reale. La cittadella fortificata, per secoli il cuore di Mut, costruita dalla gente dell’oasi per proteggersi dalle incursioni dei beduini e che fu ulteriormente fortificata alla fine del IXX secolo per difendere la comunità locale dai temutissimi Mahdisti provenienti dal Sudan, sta per scomparire per sempre. Mentre cala la sera i chiaroscuri rendono ancora più impietoso il paragone fra la morbidezza delle forme sinuose e sempre diverse delle vecchie case, con i moderni cubi di cemento tristi e senza poesia, oltre che soffocanti contenitori di calore, che poi necessitano di un geometrico condizionatore per riuscire a respirarci dentro e poter guardare senza soffocare l’indispensabile cubo della televisione. Questo progresso cesso che avanza monotono e meccanico in tutti i luoghi macinando memoria, coscienza e bellezza, non può avere vita lunga, se lo osservi bene è poca cosa, è un enorme tubo digerente senza cervello che tra poco ingoierà anche se stesso, è stupido e presuntuoso prende vigore dal non pensare della gente, ma questo incantesimo come tutti i malefici prima o poi svanirà e si portera via anche il “vermocane capitale”. In serata mi ritrovo con Michelangelo su Skype, sento anche Jader e gli racconto un po’ dell’Africa. |
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Il Senusso e il Norvegese Mentre si compra la frutta ci ferma un tipo con una gran parlantina e ci invita a bere un the, è un paffuto ridaccione sulla trentina tutto entusiasta della sua esperienza di cuoco a Dubai, è tornato da pochi mesi a Dakhla, il suo paese di origine, per aprire un ristorante di pesce, ma è deluso dai suoi compaesani che mi dice vogliono mangiare sempre le solite cose “i gamberi” dice “gli fanno paura perché gli sembrano scorpioni, i calamari schifo e il pesce non lo vogliono” per vendere qualcosa deve fare i soliti panini coi fegatelli, ma di questo non si preoccupa perché a Dubai ha guadagnato tanto, 3500 euro al mese, 26000 pound che per un egiziano sono uno sproposito, qui la gente mediamente guadagna 200 o 300 pound al mese. È rimasto folgorato dal piccolo emirato arabo e dalla ricchezza dei russi e aspira ad andare in Spagna, Francia e soprattutto in Italia, per imparare i segreti della cucina italiana, il suo problema è che per ottenere i visti a quanto pare, oltre che di tanti soldi, c’è bisogno anche di forti raccomandazioni. La sua famiglia è una di quelle che si è trasferita qui con la creazione della New Valley e le sue origini sono libiche da parte di mamma e turche quelle del babbo, si chiama Youseff Senussi, a sentire Senussi mi incuriosisco, il rigore e la disciplina dei Senussi mi affascina e la storia di Omar al-Muktar ancora di più, mi dice che suo nonno era un vero Senusso, uno spirito guerriero che coltivava il mito di Omar al-Muktar e odiava gli italiani, ma lui non la pensa così, lui è Senusso solo di nome, ama l’alcool e i costumi occidentali, non mi turba tanto quello che mi dice ma come lo dice, come se ostentasse il distacco dalle sue origini per farsi benvolere da un occidentale, comunque è sempre interessante trovare qualcuno che ha voglia di raccontarsi un po’. Ritornati al nostro nuovo alloggio, mentre si mangia la macedonia nell’aveggio di latta seduti sulla murella, arriva un tipo nordico che ci guarda un po’ curioso e poi chiede “egiziani o turisti?” Si chiacchera un po’è un norvegese che risiede in svizzera e viaggia da solo con la sua moto da un anno e pensa di continuare per un altro anno, arriva da Al Fayoum ed è diretto a Farafra, ci scambiamo un po’ di informazioni sui luoghi visitati, lui è molto interessato al Deserto Bianco e a Siwa, io alla zona del Fayoum, Luxor e Assuan. In serata un altro incontro interessante, ma di tutto altro genere, fra gli alberi di un giardino vediamo un bel gruppo di pipistrelli giganti che svolazzano fra le fronde delle palme, hanno un’apertura alare di una quarantina di centimetri e sembrano tarponi volanti, probabilmete di giorno riposano in qualche rudere della città vecchia, sarebbe bello trovare il rifugio di questi pipistrelloni. |
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