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Come sempre nelle case contadine ci si alza con il sole, ho un gran sonno e vorrei dormire di più ma non posso condizionare la giornata della famiglia specialmente in un momento importante come quello della mietitura. Facciamo colazione e poi preparo le torcie per noi e per Mohammed che ci accompagnerà alla grande grotta di Kef el Ghahar che Hafif ci conferma essere lunga più di sei chilometri. Ci avviamo verso la voragine scendendo verso il torrente dove nelle anse ci sono numerosi pesciolini, poi iniziamo a risalire fino al vero e proprio ingresso. È una montagna sezionata, una grossa fetta è collassata e permette di vedere le tante grotte delle venature interne, sembra un macroscopico plastico di un termitaio, entriamo nel ventre della “pacia mama”da una grande fessura dove volteggiano custodi corvi e pipistrelli. E’ un luogo solenne, lievemente tetro, affascinante perché assolutamente selvaggio, ho come una terribile visione: questo “luogo sacro” profanato dal turismo di massa con inciso sopra la porta il nono verso del terzo canto dell’inferno dantesco “Lasciate ogni speranza voi ch‘entrate” a offesa di Dante e della Grotta e poi corde, cavi, passerelle, cartelli e bancarelle con le stalagtiti di plastica da vende’ ai turisti. Mi sveglio dall’incubo che siamo già dentro, è un ambiente enorme le nostre torcie non riescono darne la dimensione i fasci si perdono nell’oscurità, ci sono pozze di acqua ferma e trasparente che sembrano lastre di ghiaccio, tanti rigaglioli di acqua corrente e enormi concrezioni dalle forme fantastiche, non ho un attrezzatura fotografica che mi permette di documentare la grandiosità del luogo. Ci sono enormi bocche con denti di orca, teschi e teste di drago, è una sorpresa continua. Nel silenzio ovattato si sente rumori di passi nell’acqua che si avvicinano, è Abdulhal il fratello più grande che sta arrivando, cammina agile fra pozze e scogli scivolosi con le sue ciabatte di plastica. Attraversiamo una serie di gole strette adornate da cascate di stalatiti multicolori, poi attraversato un laghetto entriamo in una grande camera dai confini indefiniti, Abdulhal con un colpo di teatro illumina la grande sala dando fuoco a una fiaccola fatta con i resti di una pressa di frantoio unta d’olio, e come per miracolo appaiono decine di stalagtiti bianche, un laghetto algido e enormi colonne marroni che sostengono la grande sala. La magia della potente torcia dura poco, continuamo l’esplorazione, c’è sempre più acqua, un vero e proprio fiume sotterraneo, dopo avere attraversato un tratto stretto e sinuoso fra levigate rocce scure, ritroviamo un‘altra grande sala che viene nuovamente illuminata con l’ultima torcia oleosa in modo da regalarci un'altra spettacolare visione su stallatiti e sagome tozze velate da una tenda di goccioline che viene giù dalla volta buia. Ancora gole strette poi inizia a filtrare la luce, si risale verso la luce fino a trovare l’uscita dove svolazzano decine di pipistrelli. Si esce da una grande spaccatura nella roccia rossastra dall’altra parte della montagna e ci si trova dentro una radura coltivata a grano, poi si sale ripidamente tra i cisti fioriti e lentischi che nascondono decine di grotticelle. È la stessa macchia dell’Elba ma con due tipi di cisto (mucchio) in più, uno rosa e uno bianco. Si inizia a scendere girando verso destra, per ritornare sul lato di partenza e si sbuca alti su un affaccio panoramico che domina decine di colline tutte coltivate a grano, siamo in corrispondenza del punto di partenza ma circa quattocento metri più in alto. Intorno ancora grotte, camminiamo su un solco scavato nella parete rossa, da cui si vede l’ingresso della grotta dall’alto, mentre passa un grande falco, poi si scende da un sentiero friabile a picco sulla casa, intorno i bimbi pastori che camminano insieme alle capre su sentieri impossibili mentre più in basso altri sono impegnati nella raccolta del grano.
Solito invito a rimanere qualche giorno, e poi i saluti e la partenza, Tambone zoppica, ieri sera è scivolato ma non sembrava niente di grave, ma oggi specialmente in discesa ha un passo claudicante, per fortuna dopo un’oretta da sciancato ricomincia a marciare discretamente. All’improviso fra i campi un enorme edificio dissonante con tutto il contorno, proprio come la palestra di Pomonte ma grande almeno venti volte: è una scuola enorme, costruita, come spiega il grande cartello all’ingresso, con l’aiuto del Giappone, è dotata di tante strutture, peccato che è inutilizzata anche perché troppo grande per le esigenze della zona. Saliamo verso il paese di Kef el Ghar (Il souk), c’è un bar con un pergolato da dove ci chiamano, c’è un uomo che parla bene francese che ci saluta e ci invita a sostare, è un funzionario governativo e rappresenta l’autorità nel paese, ci aspettava ieri e la nostra sosta alle grotte lo ha spiazzato. Ci fa le solite raccomandazioni ma è molto gentile e ci disegna una minuziosa mappa ricca di particolari per proseguire lungo i viottoli evitando la strada. Segueno la preziosa mappa lasciamo la via e prendiamo un sentiero che ci porta verso un fiume, tra grano e olivi, sotto lo sguardo delle donne che si spostano da un campo all’altro cantando. Guadiamo su un bel ponte di legno e iniziamo ad attraversare il douar Oulad Bchir, un villaggio invisibile finchè non ci sei dentro, sempra un paese segreto costruito sotto gli olivi, è un luogo pacato e ombreggiato con tanti frantoi sparsi un po’ dappertutto, una delle case è un microscopico bar dove si ritrovano i ragazzi del douar, chiedo informazioni e Azzedine il più curioso ci accompagna sulla giusta pista, risaliamo l’altro lato della valle, verde e rigogliosa, c’è anche una cascatella da dove si lancia nel vuoto un serpente spaventato dal nostro passaggio. Camminando in fila indiana sotto gli olivi arriviamo alla sua abitazione, all’inizio del Douar di Bni Krama, è una casa bella curata, circondata da un cannicciato, con una grande aia e tuttintorno all’ abitazione una piazza liscia e pulititissima, è una casa speciale è marocchina ma allo stesso tempo è famigliare, ci accolgono sorridenti la sorella Hayshia e la mamma Fatima, e poco dopo arriva il babbo Ahmed che avevamo incontrato sul viottolo. È un luogo sereno e rilassante e ancora di più lo sono le persone, accogliamo volentieri l’invito a rimanere qui. Con Azzedine andiamo a fare un giro nei dintorni, ci affacciamo da una spianata di rocce bianche che dominano un grande panorama sul oued e le montagne circostanti, passiamo vicino alla tomba della nonna ai bordi del bosco, all’ombra di un grande albero e poi scendiamo verso la cascata per un ripido viottolo prima circondato da olivi e orti coltivati in stretti terrazzamenti (saltini) e poi nella macchia dominata dagli oleandri e da gigantesche piante di vite abbandonate, ricordo dei vigneti dei coloni europei che ormai fanno parte della macchia. Al rientro dalla cascata ci aspetta una ricca merenda, con tanti dolci preparati da Hayschia.
La casa è un mix perfetto di tradizione, armonia e confort, Ahmed ha lavorato tanti anni in Francia ed ha aggiunto confort europei alla sua abitazione che è un’eccezionale modello di casa ecosostenibile: il forno esterno è il cuore, serve per il pane, per cucinare e per scaldare l’acqua, che qui è corrente perché è stata allacciata una sorgente in alto. La doccia è uno spettacolo, con la stanza riscaldata dal vapore del bollitore del forno, il tubo dell’acqua fredda che arriva direttamente nella stanza dalla sorgente e un pentolino per prendere l’acqua calda da un bidone per miscelarla a gradimento, mentre l’energia elettrica è fornita da un impianto solare.
Cena in giardino, l’invito a rimanere qualche giorno per conoscere bene queste valli è duro da rifiutare, ma decido di continuare e partire domattina, anche Azzedine verrà con noi fino a Tainaste.
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© 2024 Elba e Umberto
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