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L’Arcadia di Cap Bon Partiamo presto con un petit per raggiungere El Haouria alla base di Cap Bon, da qui si cammina tre chilometri per ritrovare il mare sul lato nord del capo, dove si trovano le cosiddette grotte romane che in realtà sono antiche cave di arenaria. Il sito è chiuso in attesa di imminenti lavori per la messa in sicurezza, ma non c’è nessuno quindi si entra. Sotto la zona archeologica c’è un piccolo scalo dove sono ormeggiate un paio di barche di legno e un potente gommone, le rocce della scogliera sono giallastre e lavorate dal mare, formano tante piccole vasche profonde orlate di sinuosi pinnacoli, dove si cristallizza il sale, assomigliano tanto a quelle dei Cancherelli dietro il Cavo e anche alle scogliere gialle intorno a Capo Stella. La cave antiche si presentano con delle ampie aperture a pochi metri dal mare che conducono a dei grandi saloni che si estendono nella penombra su più livelli, collegati fra loro da scalinate scalpellate nella roccia. Questi imponenti spazi ipogei furono scavati nell’antichità, i primi a sfruttare le cave di El Haouaria furono i Punici che già nel VI secolo a.c. cominciarono a estrarre questa pregiata arenaria gialla resistente e facilmente lavorabile, la pietra estratta venne usata per la costruzione di Cartagine. I Romani, conquistate queste terre, continuarono l’attività estrattiva, anzi l’aumentarono, si resero conto che la pietra era migliore nel sottosuolo e iniziarono a costruire una serie di pozzi e gallerie per tagliare l’arenaria migliore, con il risultato di creare un suggestivo mondo di gallerie e saloni sotterranei che si estendono paralleli alla costa per oltre un chilometro. Le tonnellate di arenaria estratta vennero usate soprattutto per costruire la Cartagine Romana intorno all’anno zero e per costruire iI gigantesco anfiteatro di El Jem (Thysdrus) ma si dice che la trasportarono anche fino a Roma per costruire alcune parti del Colosseo. È sicuramente un luogo di grande suggestione con gli spazi che assumono forme e dimensioni idefinite per i giochi di luci e ombre che si disegnano sulle pareti. Visitare queste cave senza nessuno è stata una grande fortuna, speriamo che i lavori di messa in sicurezza in previsioni di futuri flussi turistici non ne snaturino il fascino. Proseguiamo lungo la scogliera in direzione del Capo, davanti a noi l’isola di Zambra, che assomiglia a Montecristo visto dal Giglio, e l’isolotto di Zambretta entrambe riserve naturali protette non accessibili. Lungo la costa ci sono una serie di cave minori, poi si incontra un piccolo porticciolo naturale incastonato fra le rocce e una piccola spiaggia dove sono ormeggiate delle barchette di legno, alcune hanno lo scafo come le nostre, altre con il fondo piatto per muoversi sopra i bassi fondali, il mare dai colori bellissimi è ricco di secche semiaffioranti. In lontananza, prima di Cap Bon, si vede la sagoma di un relitto da cui di tanto in tanto esce del fumo nero, dall’aspetto si capisce che deve essere lì da diverso tempo e che si è incendiato, ma questo fumo nero che viene e va è strano, comunque per capire di cosa si tratta basta andarci. C’è un viottolino disegnato dalle capre a picco sul mare che porta in direzione della nave, ogni tanto viene giù qualche sassolino fatto precipitare dalla capre che brucano fra i cespugli radi sopra di noi. Il relitto è un grande rimorchiatore dalle lamiere arrostite da un grande incendio, la mente va alla carcassa ancora fumante del Moby Prince, che vidi nell’aprile del 91 nel porto di Livorno. Ci tuffiamo e andiamo a vedere da vicino, il mare è bellissimo trasparente e ricco di ricci e di pesci, anche la nave è notevole, vista dal mare sembra ancora più grande, ha delle grandi eliche a prua e a poppa. A bordo c’è un gruppo di ragazzi che stanno recuperando il rame dai cavi di bordo, ecco svelato il mistero del fumo, sono sorpresi di vederci ma ci invitano a salire sulla loro nave dove passano le giornate a smantellare e sciogliere, è un modo come un altro per rimediare qualche soldo. Hammed mi mostra orgoglioso la nave, giriamo i ponti, la sala macchine allagata e i tanti disegni che hanno fatto per rendere più bella la loro “Arcadia”. Sì arcadia, perché questa nave sa di Arcadia e di Capitan Harlock, c’è anche la camera del comandante sull’ultimo ponte, con tanto di branda “qui si riposa il comandante” mi conferma Hammed. Il pirata tutto nero che per casa ha solo il ciel, quello che fu abbuiato dalla censura perché mandava un messaggio di ribellione, Capitan Harlock è un anarchico che combatte contro i governi oppressori e corrotti, lotta per degli ideali e contro i più forti e la sua ciurma è un’accozzaglia di scarti del sistema. Mentre cammino fra queste lamiere arrostite insieme a questi ragazzi orgogliosi della loro nave, mi sembra di sentire la voce fuoricampo di Harlock “ …la gente mi chiama Capitan Harlock… Io vago per i confini dello spazio, in libertà. L'Universo è la mia casa… la voce sommessa di questo mare infinito mi invoca e mi invita a vivere senza catene… la mia bandiera è un simbolo di libertà." Capitan Harlock per me è stato un amico prezioso, mi ha svelato l’indole Anarchica così come De André, sarà per il ciuffo che nasconde il volto ma io questi due li ho sempre associati, entrambi capitani di chi capitani non ha. Una nave che non esiste, un lavoro che non esiste. Che mi ricorda una tragedia che non si vuole svelare e un cartone che non si vuole far vedere, il relitto che fuma è un catalizzatore di memorie e di censura. Ma qui si sta bene, chi sa immergersi sta rimediando qualche pesce e un paio di polpini per la cena, la nave fantasma è il loro mondo dove nessuno viene a rompere i coglioni perché non ci sono strade comode per gendarmi, mi spiega Rachid un ragazzo magrissimo che parla italiano perché è stato per cinque anni in Italia da clandestino, poi sempre da clandestino se n’è tornato a casa, a El Haouaria e anche lui si è aggregato alla banda dell’Arcadia. Era partito poco più che bimbo con un gommone per la Sicilia, con l’idea di guadagnare tanti soldi e poi tornare ricco a casa e si è trovato a combattere con ricatti e malavitosi e la costante paura di finire in carcere, ma ora si gode il clima solidale del relitto e il mare bello di Cap Bon. A prua si bruciano le guaine dei cavi di rame seguendo le direttive del leader, che è un ragazzone con gli occhi celesti, silenzioso come deve essere un capitano, quando si fa fuoco si allertano le vedette e si sta sempre pronti a scomparire nelle caranchie come granci favolli, se qualche vedetta o gommone della gendarmeria arriva. Il rame recuperato si vende e poi si divide il bottino. Salutiamo e ci si rituffa per rientrare, vedo passare un branco di piccole lecce, tanti saraghi, le tane dei polpi sono vuote, già visitate dal reparto viveri dei cacciatori di rame, mentre rientro rimango incantato dal movimento ipnotico di un nudibranco che nuota leggero muovendo la sua cangiante sagoma dai contorni idefiniti. Poi ancora sentiero fino alla punta estrema dell’Africa incontrando capre curiose e falchi pellegrini. Le rocce sul capo cambiano, diventano bianche e compatte e scompaiono nel mare cobalto dove il vento teso che scende dalla montagna disegna trine bianche di schiuma. Passa veloce un grande gommone, chissà chi porta e dove, nelle rocce ci sono grandi spaccature da cui risuona la voce potente del mare e poi pareti sempre più alte fino a rivedere il faro, che ora è vicino. È il grande faro di Capo Bon, sul crinale incontriamo postazioni militari, bunker e basi di cannoni, all’improvviso una scena surreale, una nuvola di polvere sollevata da asini al galoppo che ci vengono incontro per poi scrutarci perplessi. Arrivati al faro il guardiano sorpreso ci apre il cancello e ci porta a vedere l’enorme lanterna nascosta dalle tende, ormai è il tramonto, è il momento di preparare e scoprire la gigantesca lanterna ruotante, i finestrini si aprono a trecentosessanta gradi, ma lo sguardo va verso Pantelleria nella vana speranza di vedere qualche luce. Salutiamo il guardiano e torniamo verso El Haouaria, rientriamo che è notte piena ma senza problemi grazie alla roccia chiara e le stelle. Sembra che non ci sia nessun mezzo per Kelibia fino a domani, ma poi come sempre, si risolve, troviamo un passaggio e rientriamo a Kelibia che non è ancora domani. |
© 2024 Elba e Umberto
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