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Territorio Tuareg Stamattina fa prorio freddo e si sta bene imbacuccati, c’è movimento intorno si sente rumore dei fuoristrada che si stanno preparando a partire. Alle otto arriva Yaya, la nostra guida, insieme ad Haroun il suo aiutante, mi fanno subito una buona impressione sono gentili, hanno occhi grandi e rilassati e poi il paragone con silenzio è impietoso, se fino ad oggi l’accompagnatore è stato un obbligo imposto, da qui e per i prossimi giorni dentro il deserto un mezzo e un accompagnatore esperto sono indispensabili. Carichiamo i nostri zaini nel fuoristrada, è un vecchio Land Cruiser a balestre di una ventina d’anni fa, ma è attrezzato bene e ha le gomme nuove. Si parte, la macchina è stracarica di viveri, a bordo c’è tutto un altro clima non è che si parla tanto, in relatà la maggior parte del tempo è passata in assoluto silenzio, ma non si respira nessuna ostilità e poi questo è un luogo di silenzio. Sia Yaya che Haroun sono due Tuareg e vivono a Ubari, Yaya parla un po’ di italiano, lo ha imparato accompagnando i turisti e i ricercatori nel deserto dell’Acacus di cui è un grande conoscitore, Haroun è il cuciniere originario del Niger e questo per noi è un vantaggio perché parla francese, fra di loro parlano Tamashek la lingua dei Tuareg che è molto simile al Tamazigh dell’Atlas, del resto la tribù Tuareg ha origine dall’etnia Amazigh, il suono è simile e alcune parole tipo “la bas” (com’è?) e “adrar” (montagna) sono le stesse. Si procede sulla strada asfaltata in direzione sud-ovest, dopo un primo tratto di sola aridità entriamo in una larga gola delimitata a nord dalle dune sabbiose del deserto di Ubari e a sud dalla catena montuosa dello Msak Settafet, siamo nel Wadi al-Hayat che in Tamashek significa “valle del valore della vita”, è un paesaggio arido e monotono, almeno per i nostri parametri, in realtà questa lunga valle è la zona più fertile del Fezzan grazie al sottosuolo ricco di acqua. Ogni tanto si vede l’acqua uscire dai grandi tubi dei pozzi e tutt’intorno macchie di verde intenso e palme da dattero. Nella valle ci sono tre insediamenti, Takerbiba, Germa e Ubari che è il principale insediamento dove risiede la maggior parte dei Tuareg della Libia, i Tuareg solo negli ultimi anni si sono stabiliti in fissa dimora, fino a pochi decenni fa vivevano in maniera nomade abitando nelle tende. A Ubari facciamo la prima sosta, ci fermiamo per timbrare i passaporti, questa è una regione di frontiera e i controlli sono molto rigidi anche perché i rapporti con la vicina Algeria e il Niger sono sempre delicati. Approfitto della sosta per prendere un caffè, è un ambiente pigramente rilassato mi sento un nano in mezzo a tutti questi giganti col camicione lungo e i grandi turbanti, proprio al contrario di come mi sentivo sull’Atlas dove erano tutti molto più piccoli di me. Sbrigate le pratiche burocratiche riprendiamo la via, la strada è un infinito rettilineo che sfuma nell’orizzonte, il caldo crea un riverbero cosi’ forte che il paesaggio sembra galleggiare dentro una nuvola di gas, è difficile tenere gli occhi aperti in questo panorama accecante e indefinito. Dopo un paio d’ore incrociamo qualche pianta di acacia e facciamo una sosta sfruttando la loro ombra, sono piante arcigne che hanno imparato a vivere in questo ambiente estremo e per difendersi sono dotate di grandi spine. In un ambiente totalmente diverso da dove l’abbiamo lasciato ritroviamo il rito del the, osservo Yaya mentre sotto le acacie raccoglie piccoli pezzetti di legna secca, è una figura elegante, lungo lungo con il volto e la testa avvolti in un turbante bianco lungo svariati metri che forma un groviglio di stoffa che lascia vedere solo il naso e gli occhi, come da tradizione Tuareg non mostra mai il volto quando mangia e solo dopo ci chiama per offrirci il the fatto nella piccola teiera messa a bollire su un focolare minimale alimentato da pochi stecchi secchi. La luce è sempre più accecante, la monocromia nebbiosa del paesaggio è interrotta solo dalle fiamme di alcuni pozzi di petrolio vicini alla strada. Arriviamo a Al Aweinat piccolo villaggio che è anche una delle porte per il deserto dell’Acacus, Yaya vorrebbe entrare subito ma in questo modo salteremo Ghat che è un posto che voglio vedere, quindi proseguiamo verso sud in maniera da poter essere a Ghat domattina. Finalmente si lascia la striscia asfaltata e entriamo nel deserto, prima compatto e con qualche acacia in qua e là e poi solo di sabbia, avanziamo per qualche chilometro e poi ci fermiamo sotto la grande duna di Tansen. Tutto quello che finora abbiamo chiamato con il nome di duna al confronto sembra un semplice cumulo di sabbia, secondo Yaya questa duna non è niente di che rispetto a quello che vedremo nel Murzuq e nell’Ubari. Il sole scende veloce e i colori cambiano in un attimo, saliamo sempre più in alto osservando le dune che si perdono infinite verso sud nel vicino territorio algerino, i confini hanno poco senso ovunque ma meno che mai in queste regioni di sabbia. Appena dopo il tramonto il colore delle dune diventa incredibile e indefinibile, tra l’arancio e l’ocra e il gioco dei chiaroscuri rende cangianti i colori e le forme, dall’altro lato una luna sempre più grande sta salendo dietro la catena scura dell’Acacus che ora è ben definita, rendendo tutto ancora più bello. Dopo aver montato la tenda ceniamo intorno al fuoco, la notte è illuminata dalla luna quasi piena andiamo a fare una cammina notturna avvolti in uno spettacolo che non si puo’ descrivere. L’aria è fredda ma camminando si sta benissimo anche perché c’è totale assenza di umidità, quando si trorna Yaya e Haroun stanno già dormendo sotto le coperte vicine al fuoco. |
© 2024 Elba e Umberto
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