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Acacus sinfonico
Mi alzo mentre tramonta la luna piena, continuiamo il nostro girovagare per l’Acacus, nel wadi incontriamo un gruppone di fuoristrada, sono sei sette macchine e portano un gruppo di una quindicina di giapponesi, le guide e i cucinieri sono tutti di Ubari stanno chiudendo il loro giro di tre giorni, “mangia maccaroni” Haroun li chiama coreani mangia maccaroni e dice che quando vengono c’è tanto lavoro perché mangiano sempre, maccaroni a colazione a pranzo e a cena e poi sempre merende. Continuiamo a vedere pitture bellissime e sempre più estese con scene molto complesse, battaglie, scene di caccia, dromedari che trasportano donne dentro baldacchini e animali strani come dinosauri spinosi oppure uomini dalle mani giganti e scene di battaglie con carri, archi e lance. Entriamo in un lago di sabbia dorata con grandi dune che si appoggiano alle pareti delle montagne di basalto nero, salire sulle dune è sempre bellissimo e poi basta elevarsi di qualche decina di metri e il paesaggio cambia completamente. Troviamo un altro arco gigante formato da tre massicce colonne che salgono su come tronchi di alberi secolari su cui poggia un tetto di roccia, sembra una struttura creata dall’uomo e mi ricorda la sala Ipostila del tempio di Karnak. Davanti all’arco c’è un acacia e poi dei cespugli con delle belle fioriture gialle, le pareti di queste rocce sono striate di colori che vanno dal bianco al viola passando per tutte le tonalità di colore. Ci sono dei graffiti che ci riportano nella savana sahariana, con rinoceronti e grandi elefanti incisi nelle pareti. Entriamo in un wadi di rocce nere dove fa un gran caldo, nelle fessure della montagna incontriamo pitture sempre più belle ed articolate, queste sono anche protette con una recinzione di foglie di palma per evitare che le persone tocchino queste preziosissime opere d’arte che riproducono scene che sembrano di una cerimonia con lavaggi di capelli, vestizioni e figure che danzano, ci sono anche delle complesse scene di caccia e di battaglia e di mandrie assaltate dai lupi. I dipinti si sviluppano lungo le pareti di roccia come pellicole di un film, ci sono anche delle figure misteriose, forse degli stregoni mascherati o delle divinità. Ai margini del sito più grande un cumulo di utensili in pietra e resti di ceramica e un cartello che ci ricorda gli studi fatti dal prof. Mori per conto dell’Università della Sapienza di Roma. Avanzando nel wadi incontriamo anche un pastore fasciato nel suo grande turbante bianco che lascia vedere solo gli occhi e si sta spostando avvicinandosi a un piccolo agglomerato di capanne. E poi ancora pitture rupestri, sempre diverse ci sono degli stranissimi uomini volanti con ali di drago e ancora tante scene di branchi di lupi che attaccano mufloni, ma le figure da un punto di vista estetico per me più belle sono le giraffe che sono disegnate di bianco e puntinate di rosso e danno l’impressione di muoversi dentro la roccia. Ci fermiamo sotto una parete perfettamente verticale dove le rarissime volte che piove (qui passano anche anni senza vedere una goccia d’acqua) si forma una piccola cascata. A un certo punto il terreno comincia a vibrare e si sente un rumore sordo di sottofondo, sembra un convoglio militare e Yaya me lo conferma, siamo comunque in una zona di frontiera abitata da tribù nomadi da sempre refrattarie a regole e confini stabiliti lontani da qui. All’ombra di uno sperone ritroviamo il gruppo con i giapponesi che stanno mangiando in una tavolata allestita per loro. Haroun ci presenta al gruppo dicendo che non siamo turisti ma amici, siamo invitati dalle guide a prendere il the con loro e questo ci onora tantissimo. In effetti guardando in lontananza i giapponesi schermati da pantaloni lunghi, guanti, occhiali da sole, cappelli e scarponcini, che mangiano seduti al tavolo, mi sento molto più a mio agio qui, scalzo e sdraiato sulla sabbia intorno al focolare che scalda il the. C’è anche un ragazzo che è venuto da Ghat con un paio di dromedari per far fare un giretto e qualche foto ai turisti. E fra le risate generali racconto per l’ennesima volta della grande duna di Douz in Tunisia e dei finti tuareg. Mentre scrivo mi rendo conto che è tutto un bello bellissimo che forse per chi legge risulterà anche noioso ed enfatico, ma l’Acacus è una meraviglia continua, ora siamo dentro un paesaggio primordiale è tutto drammaticamente evocativo, le montagne e i picchi vulcanici intorno a noi sembrano ancora attivi, tanto è il riverbero, e evocano scenari apocalittici, se questo deserto fosse una musica sarebbe una sinfonia di Mahler o di Wagner. Troviamo una serie di dipinti che sembrano uomini venuto dallo spazio con grandi teste e mani enormi, poi mentre ci spostiamo verso l’estremo margine sud dell’Acacus come un miraggio dal riverbero spunta un bimbo che sembra venire dal niente e andare verso il nulla, ha lasciato gli animali al pascolo e sta tornando verso casa, timido e sorridente scambia qualche frase con Yaya e poi continua il suo cammino sicuro in questa terra estrema. E mi fa tornare in mente una gita scolastica di ragazzini  poco più grandi di lui che portai a camminare nella zona di Moncione poco prima di partire, avevano paura a camminare nel viottolo e si spaventavano alla vista delle capre di Evangelista, mi risulta impietoso per i timorosi pargoli padani il confronto con il fiero bimbo Tuareg. La pista cammina in un largo wadi dove le dune si appoggiano alle pareti nere della montagna creando degli spettacolari scivoli alti centinaia di metri, rincontriamo il ragazzo dei cammelli che sta tornando verso Ghat, stanotte bivaccherà nel deserto e domani sera arriverà a casa, è un’immagine evocativa del tempo passato e anche del fatto che comunque questo turismo permette di vedere ancora uomini e dromedari  in questo scenario meraviglioso. Saliamo su una duna per ammirare uno degli spettacoli di roccia più mastodontici di Acacus, è questo il famoso grande arco, la forma armonica e il fatto che sia dentro questo enorme scenario non ne fa percepire a pieno le dimensioni, ma è una montagna forata alta quasi duecento metri, per dargli una dimensione Elbana è come se la base fosse nella piana di Campo e la sommità a Facciatoia. La meraviglia e l’imponenza di questo scenario è rovinato dalle tante ruotate dei fuoristrada, a quest’ora però non c’è nessuno e la magia del tramonto non è alterata da nessun rumore. Una ripida duna si appoggia alla parete di fianco al grande arco e ci permette di salire fino a oltre la sommità, sulla vetta piatta di una grande montagna nera che ci regala un paesaggio incomparabile e alieno in cui l’attenzione si focalizza in una depressione dal fondo bianco dove c’è un po’ di vegetazione, la discesa dalla duna è velocissima e  in fondo ritroviamo i nostri. A valle fa già freddo, giriamo intorno alla montagna nera e poi  attraversiamo il piccolo deserto bianco che si rivela di una  sottilissima polvere bianca tipo borotalco e poi andiamo a montare il campo su una duna poco distante.