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Il cacciucco del deserto
Stamani ci sono una serie di grandi impronte di cammello vicino alla tenda, sono passati da qui  prima dell’alba provenienti dalla zona del grande arco. Dopo l’immancabile rito del the si parte
risalendo l’Acacus da un altro wady verso nord, in un tratto di strada ciottolosa troviamo tanti alberi con le zucche, ancora pitture rupestri e poi ritornati sul livello superiore, un arco piccolo ma molto scenografico. Intorno ci sono i resti di un'altra foresta pietrificata con un tronco cavo così grande che ci si può passare in mezzo. Ora il deserto è nuovamente sabbioso siamo dentro una distesa gialla dalla quale sbucano come funghi decine di protuberanze rocciose delle forme più disparate, la sabbia aumenta sempre di più, le dune salgono alte e a volte si congiungono sui picchi. Salgo su una duna alta un centinaio di metri che diventa sempre più ripida tanto che saltando dal culmine sembra di volare, un ultimo tuffo e poi si riparte verso il confine orientale dell’Acacus. Ci fermiamo a un pozzo dove facciamo scorta di acqua che è portata in superficie con una pompa a scoppio dalla quale esce fresca ed è buonissima. Questo è il pozzo più grande della zona ed è controllato oltre che dal guardiano anche da un piccolo presidio militare, i pozzi sono da sempre la risorsa più importante di queste terre desertiche e spesso i contrasti che sfociavano in battaglie fra le tribù erano a causa della preziosa acqua, riempiamo tutte le bottiglie vuote che abbiamo, una rinfrescata e si riparte per Wantikeri, una grande pianura di roccia rivestita di sabbia che io chiamo la terra di mezzo, che divide l’Acacus da Wan Casa. Dopo qualche decina di chilometri ci fermiamo in una zona dove affiorano delle lastre di roccia per cercare graffiti, la cosa più bella è un’iguana incisa nella roccia di cui Yaya va particolarmente fiero e dice che nessuna guida la conosce. Ancora qualche chilometro e ci fermiamo a fianco di “un’isola” nera, intorno c’è una depressione dove quando piove si forma un lago, l’ultima volta è successo tre anni fa, il tetto  della roccia è liscio e piatto,  siamo circondati dalle ultime sabbie gialle dell’Acacus ma in lontananza si vedono già le grandi dune rosate di Wan Casa. Mentre stiamo per ripartire arriva veloce un fuoristrada militare, i soldati chiedono informazioni su di noi poi ci salutano e ripartono furtivi. Avanziamo ancora un po’ e ci si ferma in una zona dove ci dovrebbero essere punte di frecce preistoriche e dove facciamo conoscenza con la fish fash la sabbia soffice portata dal vento che ci fa insabbiare obbligandoci a usare le slitte per ripartire e ci nasconde le frecce. Poco più avanti incontriamo una serie di piccole dune dove scavando sotto la sabbia rossastra che ricopre la superficie se ne trova un’altra molto più sottile di un colore molto chiaro tra il bianco il grigio e il celestino. Yaya dice che secondo le leggende tuareg qui un tempo esisteva una grande città e secondo lui è ancora qui sommersa dalle sabbie, mentre Haroun si ferma per raccogliere un po’ di sabbia colorata per decorare la sua casa, mi diverto a disegnare l’Isola d’Elba. Le dune di Wan Casa si avvicinano e diventano sempre più grandi, è una vera e propria catena montuosa di sabbia, inizia la grande duna, ci entriamo con un cammino sinuoso, dune gialle, ocra, rosse e poi pianure a volte di sabbia soffice, alle volte di roccia nera e poi le vere e proprie montagne di sabbia. Saliamo finché la fish fash non ci blocca, questo sarà il campo di stanotte. Con Serena iniziamo a risalire verso la lama sottile delle dune più alte, è un deserto totalmente diverso da quello dell’Acacus le cui vette si vedono sullo sfondo, qui c’è solo sabbia una distesa infinita di montagne colorate che si accavallano una sull’altra. Entra vento e il cielo si colora di rosa, la sabbia si sposta velocemente, dai picchi delle dune i granelli sono sparati dal vento con violenza e la sabbia diventa compatta come la roccia, mi sento come un insetto davanti a una sabbiatrice, ma basta abbassarsi di qualche metro al ridosso della grande duna per vedere la sabbia che si deposita creando uno strato soffice. Così camminano le dune, inesorabili e invincibili cancellando ogni cosa nel loro avanzare. Ritorniamo al campo che è buio, il fuoco in lontananza ci indica la via, Yaya sta preparando il Taajeelah, il pane Tuareg, nella sabbia arroventata si mette l’impasto e poi si copre, dopo una quindicina di minuti si gira e poi alla fine si scuote dalla sabbia e si spezzetta per farci la tojila, una specie di cacciucco del deserto  che si fa intingendo il pane dentro una zuppa a base di quello che c’è. Ormai s’è creato un clima di amicizia e si passa la serata a raccontare avventure Sahariane e Elbane  riscontrando tante affinità nel nostro modo di intendere il mestiere di guida. Yaya mi fa schianta’ dalle risate quando fa il verso ai milanesi che vengono nel deserto e poi si lamentano perché c’è la sabbia e il vento “ uhuuh sabbia!!! è tutto sabbia” e poi mi dice con eccezionale parlata onomatopeica “hiiiih ma guando vengono a Elba fanno anche aggua!!! Aggua!!!! Sembre Aggua hiiih”.