Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

Tolemaide e il mito di Omar al-Mukhtar
Stamani è una bella giornata, ci lasciamo alle spalle il golfo di Bengasi con le grandi navi a rada, la strada scorre veloce lungo costa affacciata su un mare bello e dopo settanta chilometri raggiungiamo Tocra. Si attraversa un vialone sconnesso circondato da eucalipti e poi si inizia a trovare un paese semi abbandonato dove sembra che si sia appena verificato un terremoto, l’architettura è quella tipicamente italiana c’è anche una piazzetta, ma a parte un assonnato vecchietto su un carro trainato da un ciuco grigio non c’è nessuno. Il sito è proprio sul mare ma non si vede quasi niente dell’antica Tocra, una delle più importanti città greche dell’Africa che fu fondata intorno al 510 avanti cristo e che faceva parte della Pentapoli Greca. Il sito è praticamente abbandonato, su tutto spicca il piccolo fortino italiano proprio davanti al mare, entrando si trova una grossa estensione di catacombe greche e romane scavate nella tenera arenaria che ricordano quelle di Pianosa, girandoci dentro si nota che alcune sono state adibite a ricovero di capre e pecore e più avanti ce ne sono altre con chiare iscrizioni Bizantine. Camminando fra resti di colonne e capitelli si arriva al fortino dove c’è una lapide con una serie di nomi italiani (probabilmente coloro che edificarono il forte) e anche una bella meridiana nell’angolo, una scala erosa ci permette di arrivare sulla terrazza del forte da dove si vedono tra i cespugli i resti della città la cui rovina più evidente è la basilica bizantina dove ci sono ancora alcune colonne. Ci spostiamo verso il mare e scavalcando un muro si trova una scogliera e poi una bella spiaggia dove c’è il relitto arrugginito di una nave mercantile. Ritorniamo sulla strada dove ci attende silenzio e si riparte in direzione di Tolemaide, anche qui la costa è molto bella, ci sono grandi spiagge bianche deserte contornate da palme che fanno venire una gran voglia di mare, l’attuale abitato di Tolemaide ricorda quello più piccolo di Tocra e anche qui è evidente l’origine italiana delle strutture. L’area occupata dalle rovine di Tolemaide è molto estesa, sono circa tre chilometri quadrati e i ruderi emergono in un ambiente degradato fra baracche e greggi al pascolo. Ci fermiamo vicino al mare all’ombra di un bosco di eucalipti, ci siamo solo noi e un gregge di capre con le orecchie lunghe come quelle dei bassotti. In un edificio a pian terreno c’è un piccolo museo che raccoglie statue, sarcofaghi e dei mosaici molto belli fra cui uno secondo me eccezionale formato da tessere microscopiche che rappresenta una grande cernia, ci sono tantissimi reperti accumulati ancora da restaurare e cosa per noi molto interessante, pannelli e descrizioni in italiano. Passando da un ovile si entra nello scavo, più che un sito archeologico sembra l’esplorazione di una città abbandonata, in realtà Tolemaide si trova quasi tutta sotto terra e lo scavo effettuato riguarda meno del dieci per cento di tutta l’area. Nonostante l’abbandono si percepisce la grandiosità che doveva avere questo luogo costruito in una posizione favorevolissima fra il mare e la montagna del Jebel Akhdar le cui sorgenti, a cui era collegato da grandi acquedotti, fornivano acqua in grande quantità. Risalendo verso l’interno dal primo cardo troviamo i resti di una grande cattedrale bizantina costruita su strutture più antiche, mantiene un aspetto imponente con una doppia fila di grandi arcate e un’abside perfettamente conservata. Dal terreno emergono resti di grandi colonne e parte dell’antiche fortificazioni dove è ancora ben evidente ad Ovest  la porta di Tocra. La cronostoria di Tolemaide ripete il classico schema delle città costiere Nord africane, nasce come insediamento fencio punico intorno al quinto secolo avanti cristo, poi diviene città greca, quindi Romana e poi nel quinto secolo bizantina, rimanendo comunque sempre uno dei centri più importanti della costa Africana fino all’invasione araba che ne sancì il definitivo declino.  Anche qui ci sono le tartarughe, apparentemente uguali a quelle de La Galite, ogni tanto ne sbuca qualcuna tra sassi e cespugli mentre le capre con la loro voracità curano la manutenzione del sito. Il punto più spettacolare è la grande Agora successivamente trasformata in foro dai romani, è una grande piazza intorno alla quale ci sono i resti delle grandi colonne dei templi principali. Sulla pavimentazione ci sono diverse botole rettangolari da cui si vedono le capienti cisterne, considerate nell’antichità le più grandi dell’Africa. Colonne, ville e spazi pubblici si alternano, salendo troviamo altre spettacolari cisterne con delle scale che ci consentono di scendere sotto, questo era il serbatoio principale collegato alle cisterne sotto l’agora, da qui  la preziosa risorsa idrica era distribuita in tutta la città. C’è ancora acqua all’interno delle cisterne, che sono state costruite in maniera precisa e raffinata, la parte inferiore è di origine greca ed è realizzata con grandi lastre di pietra, mentre la parte superiore in laterizio è successiva ed è stata ampliata dai romani, poco più avanti ci sono ancora i resti dei grandi archi dell’acquedotto che prendeva l’acqua dalle montagne alle spalle. Qui si incrocia il secondo cardo che scendendo ci porta alla “villa delle colonne” sembra fosse la villa di un ricco romano del secondo secolo, è questa la zona di Tolemaide dove sono stati compiuti i maggiori restauri, ci sono decine di colonne parzialmente ricostruite e sono state scavate numerose stanze alcune delle quali con i pavimenti a mosaico e le vasche delle piscine. Passeggiando fra cisterne, colonnati e reperti vari ci troviamo nell’odeon, un piccolo teatro greco poi trasformato in piscina dai romani, dalle tribune guardando verso nord sotto il cielo terso si vede un mare bellissimo e agitato che si infrange su scogliere e spiaggia, c’è anche un piccolo isolotto piatto e due relitti che ormai sono una consuetudine delle coste nord africane. Si riparte, la strada risale dolcemente il Jebel Akhdar , è una zona eccezionalmente verde per essere in Libia c’è una macchia rigogliosa con prevalenza di ginepro, ma c’è anche tanto pino d’aleppo, estesi cespugli di lentisco e grandi carrubi, poi la collina diventa un altopiano coltivato, il terreno è scuro e fertile dove ci sono centinaia di olivi dai tronchi secolari. La strada attraversa scorrevole la campagna ricca di fattorie  e in mezz’ora arriviamo a Qasr Libia minuscolo villaggio conosciuto per il ritrovamento di una grande collezione di mosaici bizantini del VI secolo. Appena fuori dal centro su un colle c’è un fortino Turco Italiano e proprio di fianco il museo la cui struttura sembra una scuola italiana, i famosi cinquanta pannelli sono esposti sulle pareti e il più grande in terra, sono conservati splendidamente e sono interessanti perché mescolano il culto cristiano con le preesistenti credenze  pagane, ma non hanno niente a che vedere con la bellezza, il fascino e la vitalità di quelli degli antichi romani. Il panorama rimane agricolo e mediterraneo fino ad incontrare il grande ponte in cemento armato e metallo, sotto scorre un affluente del Wadi al-Kuf, il paesaggio che si apre è aspro e selvaggio con pendii scoscesi e ricchi di grotte che si tuffano dentro strette gole, questa zona è famosa per essere stato il rifugio dei partigiani Senussi che si ribellarono all’occupazione italiana di inizio novecento. Questa terra è nota fin dagli albori dell’epoca classica per il temperamento guerriero e indomito della sua gente che si è sempre opposta e mai assoggettata alle dominazioni straniere che nei secoli si sono alternate intorno a queste fertili montagne. L’identità berbera non fu cancellata da fenici, greci e romani e nemmeno dagli arabi, nonostante l’avvento dell’islam che già nel seicentoquarandue aveva conquistato la Cirenaica, lo spirito ribelle dei berberi Libici non si sottomise mai alla dominazione araba e le varie fazioni che si sono susseguite a capo della regione fino all’anno mille non risolsero mai questo problema, furono i Fatimidi a risolvere il “loro” problema con un grande esodo di massa dalla penisola arabica. Le tribù dei Bani Hilal e i Bani Sulaim furono costretti a spostarsi nel Magreb, i Bani Sulaim si insediarono in Cirenaica mentre i Bani Hilal, circa duecentomila famiglie, si sparsero per tutto il Nord Africa. Questo vero e proprio esodo che tra l’altro portò alla distruzione di Cirene e di Tripoli, sancì la vera conquista araba della Libia, i berberi furono cacciati dai loro coltivi che vennero trasformati in pascoli dagli arabi e si trasferirono sulle montagne. L’indole ribelle mai spenta ritrovò vigore con il movimento Senusso intorno alla metà del milleottocento, questa setta nasce con Sayyid Mohammed Ali as-Sanusi uno studioso del corano che naque nell’attuale Algeria, dichiarandosi, come tanti, discendente del profeta Maometto, studia prima nella Madrassa di Fez in Marocco e poi al Cairo nella prestigiosa università al-azhar. Predica la Ijthab, interpretazione individuale delle tradizioni e delle sacre scritture, scontrandosi con i Dogmatici Ulema del Cairo che lo considerano un eretico ciarlatano berbero del selvaggio nord ovest africano. Praticamente espulso si trasferisce alla Mecca dove le sue idee trovano consenso, influenzato dal movimento Wahhabi che predicava rigore e ritorno al primo islam fonda la prima Zaouiat, torna quindi in Nord Africa nel 1843 e si stabilisce in Cirenaica  dove trova terreno fertile tra la popolazione da sempre restia al potere centrale. Inizia a fomentare la rivolta contro gli invasori ottomani stabilendo il suo quartier generale nell’oasi di al-jaghbub e istituendo in poco tempo numerose zaouiat in tutto il nord africa e ottenendo gran favore da parte delle popolazioni beduine, guadagnando anche sempre più potere politico ottenendo una serie di vittorie senza usare quasi mai la forza. Nel 1880 il movimento con a capo il figlio Mohammed al-Mahdi trasferisce la propria capitale a al-kufra e in breve il debole governo ottomano si accordò assoggettandosi al movimento Senusso. Stimolata dall’inconsistenza del dominio ottomano l’Italia decide di partecipare alla colonizzazione dell’Africa attaccando il 3 ottobre 1911 con il pretesto di liberare la Libia dalla occupazione ottomana. Alla “liberalizzazione” seguì una violenta rivolta dei libici, anche se formalmente con il trattato di Losanna del 1912 i Turchi cedettero la Libia agli Italiani ma in realtà soprattutto qui in Cirenaica e nel Fezzan imperversavano le rivolte dei Senussi appoggiate anche se non ufficialmente da turchi e tedeschi che li rifornivano di armi. La resistenza maggiore fu soprattutto quella della Cirenaica dove a capo del movimento c’era  il mitico Omar al Mukhtar lo sceicco senusso conosciuto come  il leone del deserto. Omar al-Mokhtar nacque in Cirenaica nel 1958, la formazione delle zaouiat senusse gli dette una grande fede nell’islam e la convinzione dell’obbligo a ribellarsi con ogni mezzo alle occupazioni straniere. Combatté contro gli italiani durante la campagna del 1911-1917 e riprese a combattere nel ‘21 ottenendo una serie di insperati successi che lo trasformarono in mito e gli permisero di riunire le sempre divise tribù della Libia in un esercito di combattenti che contrastò per un decennio l’espansionismo coloniale italiano.
Nel 1921 Mussolini decide di porre fine alle rivolte annunciando la riconquista della Libia con a capo il maresciallo Pietro Badoglio che intraprese una campagna punitiva di “pacificazione”. A Badoglio seguì il maresciallo Graziani che usò il pugno di ferro andando contro anche alle restrizioni previste dalla legge italiana e internazionale. Per porre fine alla resistenza sostenuta dai rifornimenti che arrivavano dall’Egitto, Graziani creò una barriera di filo spinato lunga quasi trecento chilometri che andava dal mediterraneo alle oasi di al-jaghbub e successivamente iniziò una deportazione di massa degli abitanti del Jebel Akhdar per negare ai partigiani l’appoggio della popolazione. Furono spostate oltre centomila persone  e durante le deportazioni nei campi di concentramento morirono migliaia di persone, i documenti Libici dicono che fu sterminata circa la metà della popolazione della Cirenaica. Il colpo mortale alla resistenza fu dato dalla cattura del settantatreenne  al-Mokhtar nel 1931, fu processato il 15 settembre e impiccato il giorno successivo. Si dice che Badoglio ricevuta la notizia della cattura ordinò di istituire un processo che poteva finire solo con la condanna a morte. Al-Mokthar mantenne un comportamento fiero e orgoglioso durante il dibattimento affermando serenamente “da dio siamo venuti e a dio dobbiamo tornare” e il suo avvocato italiano fu incarcerato per aver svolto il suo ruolo con zelo eccessivo, il giorno dopo fu impiccato nel campo di concentramento di Suluq davanti a ventimila prigionieri. La rivolta senussa era spenta ma era nata una leggenda che a quasi ottantanni di distanza è più viva che mai.  
Dopo la cattura di al-Mokhtar la ribellione si esaurì e nel 1937 Mussolini si autoproclamò protettore dell’islam offrendo cariche di rilievo ai leader Senussi e tra il 38 e il 39 ripetendo la tecnica usata  un millennio prima dai Fatimidi, tentò il completamento della colonizzazione introducendo nel paese trentamila emigranti, flusso che portò a centomila il numero degli italiani presenti in Libia.
Lasciamo le suggestive gole dei partigiani mentre arriva la sera e scendiamo verso Al-Bayda che si presenta come una cittadina tranquilla, ci sono diverse grandi moschee di cui una recente molto bella, le moschee libiche sono molto più eleganti e armoniche rispetto a quelle tunisine e marocchine. Silenzio stranamente si dilegua velocemente “meglio”. Un giro nelle vie illuminate di Al-Bayda dove ci troviamo circondati da curiosità e gentilezza, qui stranieri se ne vedono quasi mai e se ci capitano, solo di giorno e in gruppetti organizzati, in una pasticceria ci regalano anche dei dolcini buonissimi, ma è il clima amichevole la cosa più bella, anche dove ci fermiamo a mangiare un pollo alla griglia sono gentilissimi è un locale che assomiglia più a un’officina che a un ristorante, un ambiente molto magrebino lontano dai “classici standar Libici” un po’ asettici, qui è tutto unto e sgarrupato ma si mangia assai bene. E poi le solite battaglie a internet con le connessioni che vanno e vengono, anche questo è un posto strano a metà strada fra uno studio veterinario, una libreria e un internet point, sbirciando fra scheletri di plastica e libri di veterinaria faccio conoscenza con il gestore, è un ragazzo gentile  mortificato per l’inefficienza di internet ma  contento che siamo qui, ci dice che siamo i primi italiani che entrano qui, Kalid è un veterinario e tra poco verrà in italia per un master di specializzazione pagato dal governo, non vede l’ora di partire per Milano dove starà tre mesi. Ci salutiamo dopo essere stati accompagnati all’alloggio, grati per quasta ennesima lezione di civiltà e tolleranza che l’Africa ci ha regalato.