|
L’oasi delle “Lampate delle sabbia” Giornata ancora più bella di ieri, andiamo in paese per la colazione che qui usa fare abbondante e da consumare con calma come piace a me, mi garbano i ritmi lenti di Siwa e anche l’eccelente qualità di quello che si mangia, la gente delle botteghe è onesta non fa distinguo fra chi è residente e chi no, lo si capisce anche dal prezzo del pane: con un pound (circa 10 centesimi di Euro) ti danno venti pani. Con il convio nello zaino ci si avvia verso il Jebel Mawta “la montagna dei morti”, che dista da qui circa tre chilometri, per arrivarci si attraversa il lato nord del villaggio dove le case tradizionali stanno cedendo il posto alle nuove abitazioni in cemento e mattoni cotti, che ormai tutti i Siwani vogliono. È difficile vedere adulti intorno alle case a quest’ora, gli uomini sono nei campi e le donne stanno in casa, però ci sono tanti bimbi che giocano nelle corti, finché non subentrano fidanzamenti (per le bimbe di solito prima dei dieci anni) maschi e femmine sono liberi di giocare insieme, poi all’improvviso tutto cambia e con l’arrivo dei veli censori si entra di botto nel rigido e bigotto mondo degli adulti. Le case si diradano e aumentano gli orti, da dietro un cespuglio di palme cresciuto a ridosso di un laghetto alimentato da una sorgente termale, compare la sagoma spoglia del Jebel Mawta. Le pendici della piccola collina sono tutte forate, ci sono decine e decine di tombe, alcune, le più elaborate, pur essendo molto più piccole e modeste, ricordano le facciate dei sepolcri di Petra la mitica città dei Nabatei. Cominciamo a gironzolare dentro le caverne, spesso queste antiche tombe hanno diverse stanze e a volte sono in comunicazione fra loro per mezzo di stretti passaggi, probabilmente scavate in epoche successive, forse durante l’ultima guerra mondiale quando la gente per la paura dei bombardamenti su Shali si trasferì qui trasformandole in abitazioni e i soffitti e le pareti annerite testimoniano i tanti focolari che vi sono stati accesi. Per più di tre anni circa quattromila Siwani hanno abitato in questa necropoli abbandonata che ormai da secoli era stata dimenticata, infatti con la conversione all’Islam e il conseguente abbandono degli antichi culti i Siwani in pochi secoli persero la memoria di queste antiche sepolture che furono riscoperte proprio a causa della guerra. Purtroppo oltre che annerite le tombe furono anche rovinate per staccare le pitture dalle pareti che poi venivano vendute ai militari inglesi tutti entusiasti per questi souvenir. Non tutte le tombe sono aperte, mi trovo davanti una porta di metallo chiusa con un lucchettone è una della quattro tombe più famose del sito quelle che conservano le pitture più belle, e per entrare bisogna fare i biglietti, l’ingresso del sito si trova sul lato opposto a noi, dalla parte della strada che arriva a Siwa da Marsa Matrouh. Man mano che si sale ci rende conto di quanto sia vasta la necropoli, secondo gli archeologi che hanno studiato il sito le prime sepolture risalgono alla XXVI dinastia e le tombe più ricche risalgono al periodo Tolemaico e Romano. Fatti i biglietti i guardiani gentili ma rispettosi delle consegne ci accompagnano chiedendomi di non fare foto, nell’aprire le tombe si sente la voglia di mostrare qualcosa di cui sono fieri, è lontano il mondo dei guardiani bashishari della zona delle Piramidi, qui si respira l’orgoglio e il senso di appartenenza al territorio, questi Amazigh delle sabbie somigliano tanto alle “lampate di scoglio” (Elbani Doc per i continentali) nella consapevolezza compiaciuta di essere nati in un luogo eccezionale. La tomba con i dipinti più belli è quella di un ricco greco del II secolo a.c. un certo Si Amun, ma anche quella di Mesu-Isis più o meno dello stesso periodo ha colori vivi, in particolare un cobra blu che sembra appena dipinto, peggio conservate sono quelle di Niperpathot un sacerdote della XXVI dinastia e la tomba detta del Coccodrillo risalente al periodo Tolemaico Romano, comunque per quanto affascinanti niente di paragonabile alla grandiosità e perfezione dei dipinti delle grandi Mastaba dell’Antico Regno viste nella zona di Saqqara. Salutati i guardiani, si continua a visitare la necropoli fino a salire sulla vetta del Mawta dove, complice la bella giornata, il panorama è superbo: spicca il Tempio dell’Oracolo che galleggia come un’astronave sopra le palme della grande oasi Siwana delimitata a Est dal lago di Aghurmi che si perde fra riflessi di sale e miraggi in direzione del villaggio abbandonato di Zeitun e ad ovest dal lago di Siwa dalle cui acque si erge massiccio l’Adrar Amellal, più vicini a noi a meridione le forme indefinibili di Shali e poco più ad est i quattro picchi spogli del Jebel Dakrur, il tutto incorniciato dalle dune dorate del grande Mare di Sabbia che si perdono nell’orizzonte in direzione della Libia. A Nord della collina c’è una piccola base dell’esercito Egiziano che da qui si vede bene, più che un insediamento militare ha l’aspetto di un museo, specialmente per i cannoni riverniciati che sembrano quelli lasciati qui alla fine della guerra dai militari europei. Per i Siwani che consideravano stranieri anche gli Egiziani deve essere stato uno shock trovarsi all’improvviso invasi da popoli di cui ignoravano anche l’esistenza, i primi ad arrivare furono gli Italiani che a quanto ci hanno detto e da quello che ho letto nel libro di Fathi Malim, hanno però lasciato un buon ricordo se si esclude qualche episodio, così non si può dire degli inglesi che, sempre stando ai racconti Siwani, si dimostrarono assai poco gentili con la gente dell’oasi e soprattutto furono artefici di un episodio che fece arrabbiare molto la gente del posto, che si verificò quando i britannici preso il posto degli italiani, incendiarono e distrussero tutti i mezzi e le attrezzature che le truppe italiche avevano lasciato e da cui i Siwani avrebbero potuto trarre tanto beneficio. Mentre si scende da questa collina-necropoli che vista dall’alto sembra un grande termitaio, ripenso ai soldati italiani spediti qui durante la guerra d’Africa, a quali emozioni e scoperte andavano incontro questi ragazzi che spesso non avevano nemmeno vent’anni quando si trovavano di fronte a culture e paesaggi così diversi da quelli di provenienza e a come le guerre per quanto prima sciagura del mondo, siano state comunque anche mezzo di scoperta, conoscenza e confronto proprio per quella parte di viaggio insita nella natura di ogni conflitto. Prima di entrare nell’oasi assito a una scena cruda e impietosa: un ciuco morente con un vecchio che bastona l’animale ormai agonizzante come a voler bastonare la morte che anche per se sente vicina, nel suo sguardo luciferino e nel ghigno severo l’illusione vana di voler finire lui la Nera Signora, quella stronza e immortale che prima o poi viene a prendere tutti, un’immagine metafora spietata e illuminante di quanto sia stupida, vana e bugiarda la violenza. Si entra dentro l’oasi che è un labirinto di vie per carretti che girano intorno ai canali e di viottolini che li attraversano grazie a ponticelli fatti di tronco di palma, ci sono tante vasche che vengono usate per irrigare e per lavarsi, ne spuntano da tutte le parti, spesso sono piene di acqua calda e le bollicine che salgono dal fondo fanno capire che si tratta di sorgenti termali, le tante proprietà che dividono il palmeto sono delimitate da fitte staccionate a cui si accede da massicci portoni fatti con tavoloni dello stesso materiale, è almeno dal tempo dei Faraoni che le palme da dattero rappresentano la risorsa più importante di Siwa e nonostante lo sviluppo del turismo e l’installazione nell’oasi di impianti per l’imbottigliamento dell’acqua, è ancora così. Un grande canale per drenare il terreno scavato con uno scavatore, ci fa ritornare indietro per un tratto, si prosegue per i viottolini ombreggiati fino a sbucare ai margini del villaggio Aghurmi e poi arrivare sul grande lago orientale dell’oasi, che è preceduto da pozze salmastre e canali dove ci sono tanti pesciolini. L’acqua è così salata che i giunchi dentro i fossi hanno fini steli rivestiti di cristallizazioni bianche, mentre si cammina sui grandi piastroni di fango e sale il terreno scricchiola sotto i piedi riportandomi alla mente il letto secco del lago Mandara nel deserto di Ubari in Libia. I Siwani non danno nessuna importanza al lago, lo considerano sterile e inutile e lo usano come cimitero per gli animali come confermano le tante carcasse di animali in salamoia, fra cui uno spettrale asino che sembra mummificato. Si cammina fra i campi salmastri stando attenti a non sfondare nel fango, tutt’intorno la vegetazione è fitta e vigorosa, come una piccola giungla, fa caldo oggi il sole Africano fa sentire la sua potenza e la sua luce accecante è amplificata dal brillare del sale e ovunque risplendono giochi di luce, è un paesaggio psichedelico dominato dal vicino Tempio dell’Oracolo che dall’alto sembra osservare sempre tutto come un entità superiore. Ritrovato il terreno stabile ci si avvicina un carretto colmo di vestiti colorati trainato da un ciuco stanco, il venditore di cenci che lo guida ha un aspetto truce, è un essere cupo dai modi fintamente gentili, in lui vedo l’orco delle storie paurose che vengono raccontate ai bimbi Siwani, quello che vive ai margini dell’oasi negli angoli ombrosi e silenziosi, il suo sguardo torbido è iniettato di sangue e si ingigantisce malvagio nell’obbiettivo della macchina fotografica, il modo in cui si tocca mentre scompare nel palmeto mi conferma che di orco si tratta. La via si apre verso il lago fiancheggiata da un largo canale dove ci sono tanti pesci che due uomini con un pezzetto di tramaglio e due canne stanno cercando di pescare, non disdegnano i pesci di piccola taglia ma il loro obbiettivo è un grosso pesce gatto intrufolato nel fondo melmoso. Stendono il tramaglio tra le due sponde del canale e poi con le canne cercano di spingere il nero pesce baffuto nella rete, che per un po’ si prende gioco dei pescatori scavando nella melma, ma l’ostinazione dei due ha la meglio e dopo una lunga battaglia il viscido pesce gatto viene catturato. Ancora qualche decina di metri nel terreno acquitrinoso e poi si arriva alla strada rialzata che risale il lago verso Est in direzione della depressione di Qattara, il lago è grande e la calura ne rende indefiniti i confini, nelle sue acque basse e limpide pedulano alla ricerca di cibo i fenicotteri e le garzette, probabilmente Alessandro Magno quando arrivò a Siwa trovò una situazione ambientale simile a questa e indubbiamente anche per un personaggio abituato a luoghi suggestivi come doveva essere il condottiero Macedone, la vista di un lago salato circondato da palme e dominato da un tempio che sembra galleggiare magicamente sull’oasi, deve essere stata di grande effetto, specialmente dopo una traversata nel deserto di otto giorni. Le corse dei carretti trainati dagli asini mi riportano nella Siwa del presente dove convivono immagini antiche e moderne qui rappresentate dalle solite idrovore che combattono con le acque salmastre della laguna e dalla grande strada asfaltata che attraversa il lago in direzione Nord e poi prosegue in direzione di Ain Safi. L’immagine di questa strada che divide il lago è surreale, per effetto di un miraggio diventa uno specchio luminoso e poi scompare dentro l’altopiano roccioso che si estende a Settentrione di Siwa. Sulla superficie del lago ci sono tanti piccoli iceberg di sale che galleggiano nell’immobilità vitrea dell’acqua intaccata solo dal beccare furtivo delle rondini a caccia di insetti, il braccio del lago che si estende verso Sud Est in direzione di Zaytun è il più grande dell’Oasi e con il suo azzurro intenso regala dei paesaggi che sanno di mare. Si rientra nell’Oasi camminando in direzione Sud, ai margini del lago con i camion stanno portando sabbia da spargere sui terreni salmastri, la salinità del terreno è il problema principale per i contadini Siwani ed è causato dal loro modo di irrigare, allagando i coltivi, che favorisce lo scioglimento del sale presente nella terra, sale che poi confluisce nel lago e rende sterili i terreni che confinano con il bacino idrico. Un fenomeno che si è molto amplificato negli ultimi anni con l’escavazione di nuovi pozzi che hanno fatto aumentare la disponibilità di acqua, un’ulteriore testimonianza di come siano delicati gli equilibri in natura. Ma spingendosi nell’interno dell’oasi nulla sembra cambiato dai tempi antichi, vita lenta e serena, i contadini cantano mentre potano le palme salendo sui tronchi con grande maestria, mentre i ciuchi dormicchiano all’ombra in attesa del rientro. Si cammina fino a raggiungere una sorgente di acqua calda che sale vigorosa dal sottosuolo, la risorgiva è incanalata in un grande deposito a cielo aperto per farla raffreddare, dal vascone poi esce a pressione da un grande tubo ossidato che finisce in una piccola piscina formando una piccola cascata di acqua che comunque rimane ancora molto calda, con questa temperatura non viene voglia, ma la sera e ancora di più d’inverno deve essere favoloso per lavarsi sotto questo getto. Sulla via del ritorno per Siwa passiamo sotto il Jebel Dakrur, la montagna dei fantasmi, dove nel villaggio omonimo stanno costruendo una piccola nuova moschea, il villaggio è piccolo e in gran parte sembra abbandonato, ma in realtà si tratta della strutture che i Siwani usano durante la festa di Siyaha, la festa più importante dell’Oasi che si svolge ad ottobre nei giorni di luna piena, durante il periodo della raccolta dei datteri e delle olive. La festa ha origini relativamente recenti, fu istituita circa centocinquanta anni fa da un Sufi Siwano allo scopo di sanare le dispute fra la gente dell’oasi e vi partecipano tutti i Siwani maschi che in massa si trasferiscono qui per tre giorni e tre notti, mangiando e festeggiando tutti insieme allo scopo di spianare tutti i disaccordi. Alla festa non possono partecipare le donne, solo le bimbe fino all’età di dodici anni durante il giorno possono venire alla festa di Siyaha, per noi è inconcepibile questa mentalità ma per i Siwani è una grande occasione di festa anche per le donne che nei villaggi senza uomini possono a loro volta muoversi e festeggiare e possono perfino suonare il tamburo. La luce radente del tardo pomeriggio illumina la polvere alzata dal passaggio di carri e animali, c’è traffico a quest’ora sulla via che riporta a Siwa, passano i carretti guidati dai bimbi che con fare da omo di casa riportano a casa il loro carico di mamme e sorelle velate, prima che gli uomini rientrino dalla campagna, passa anche un convoglio di turisti sui carrettini trainati dai ciuchi, ci filmano, li trovo asettici ormai anche noi li chiamiamo i turisti, sono così puliti da sembrare finti, in un attimo sfilano e di loro rimane solo una nuvola di polvere da cui sbuca un contadino ciclista con bici carica di erba medica. C’è tanta gente lungo la via e anche le botteghe-baracche a quest’ora sono tutte aperte, ma il silenzio rimane sovrano, per i Siwani il silenzio è un grande valore, parlano poco e mai a voce alta, solo quando passa qualche motocarro il silenzio si interrompe, ma poi ritorna sovrano. Mi fermo a fotografare una classica piccionaia in muratura, hanno la forma dei nostri pagliai, quelli che ormai non ci sono più e che vorrei ricostruire quando alla fine del viaggio tornerò all’Elba. Entriamo dentro la fortezza di Shali avvolti da una luce magica, le ombre lunghe disegnano forme cangianti sulle pareti di fango e sale, arriviamo sul cocuzzolo che domina i ruderi mentre si sta preparando un tramonto infuocato sulla laguna e da Oriente una luna gigante sorge maestosa e veloce si innalza sopra l’Oracolo e lo illumina di luce riflessa. Il Tempio astronave galleggia pallido al centro della scena fra la montagna dei Morti e quella dei Fantasmi, mentre a occidente il sole incendia la laguna e arroventa il cielo, poi tramonta dietro le dune mentre il cielo si pennella di fuoco. Entra la brezza e il crepuscolo diventa notte, ora la luna risplende padrona con il suo cerchio perfetto su una Shali magnifica e spettrale mentre il canto dei tanti muezzin armonicamente musica un infinito istante di poesia.
{youtube}h-nOf7ssfYw{/youtube}
|
Lascia una risposta
Devi essere connesso per pubblicare un commento.