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L’isolotto delle palme secche Dormo come un ghiro, mi rilasso, leggo e scrivo, sono particolarmente soddisfatto di questa fase morbida, godereccia e contemplativa, credo di avere sempre fatto una bella vita facendo quello che mi pareva e mi piaceva di più e la cosa mi è sempre riuscita abbastanza bene, ma ultimamente mi viene anche meglio e di questo me ne compiaccio. I visitatori di Siwa nel pomeriggio vanno tutti a l’Isolotto di Fatnas a vedere il tramonto e tutti lì ci vogliono mandare, da Mohammed dell’ostello, alle altre persone che incontriamo per la strada che pensano che ho sbagliato via. Stiamo andando verso il lago di Siwa, dove ci sono le due strade che lo attraversano parallele, il tempo sta cambiando il cielo è stranamente grigio e l’aria trasmette un sentore di pioggia, cosa assai strana per Siwa, anche le garzette che passano si confondono nel grigio biancastro che impasta il cielo al lago. Gli uccelli sentono il mutare del tempo, i piccoli trampolieri sono irrequieti e gli uccellini bianchi e gialli saltellano nevrotici fra la via e il bordo salato della laguna, l’unico che si dimostra indifferente è un fenicottero sbiadito che solitario avanza lento raschiando il fondo con il becco. Anche qui ci sono carcasse di animali nel lago, un teschio di mucca sotto un velo d’acqua vetrificato dal sale mi guarda serio, le mucche anche da morte hanno sempre la stessa espressione severa. Per i Siwani il lago corrisponde al cimitero degli animali, è un luogo sterile e senza valore destinato ai cadaveri delle bestie, per loro l’acqua importante è solo quella delle sorgenti. In questa quiete assoluta e sbiadita c’è sentore di morte ma non fa paura, la respiri come inevitabile e naturale, come l’alba, il sonno e il sogno. Fra la strada esterna e l’oasi c’è un isoletta completamente brulla con un piccolo villaggio di case di kershef ormai abbandonate e quasi completamente sciolte, oltre i margini del palmeto i camici bianchi dei contadini riflettono nell’acqua come fantasmi, ci vorrebbe un kayak per gironzolare in questi bassi fondali salmastri e sbirciare fra le tante isolette. All’interno della strada ce n’è una che si raggiunge con un sentierino a pelo d’acqua, è un isolotto ricoperto da palme secche, spettrale, angosciante e pieno di zanzare, il terreno in alcuni tratti già sommerso era preparato per l’agricoltura, ma ormai reso sterile dal sale è stato abbandonato. Però al centro dell’isolotto piatto c’è ancora un po’ di verde, giunchi e qualche palma che sopravvivono grazie a una vasca di acqua dolce alimentata da una risorgiva che si trova nel mezzo di questa zattera brulla, da questa piscina partivano i canali di irrigazione che permettevano la coltivazione. Questo isolotto dalla flora agonizzante spiega benissimo quello che sta succedendo nell’oasi: il lago sta salendo di livello e aumentando di salinità, di conseguenza i terreni dentro e ai margini della laguna diventano inutilizzabili per le coltivazioni, la causa di questo effetto sono i tanti nuovi pozzi scavati nell’oasi per estendere le zone coltivabili e il modo di irrigare dei Siwani, che usano allagare i campi. Il risultato è che la grande quantità d’acqua riversata nel terreno scioglie il sale presente nel suolo che filtra nel lago (il punto più basso) aumentandone il livello e la salinità. La conclusione amara e già vista e rivista è che si è destabilizzato un equilibrio per logiche di profitto, distruggendo una cultura agricola che andava avanti da secoli, basata sullo sfruttamento delle acque dolci che salivano in superficie naturalmente, permettendo agli abitanti dell’oasi di vivere, poi come sono arrivati i profeti del profitto, hanno cominciato ciucciare l’acqua della falda per irrigare il deserto, con il risultato di rendere improduttivi i terreni naturalmente fertili. Ma come sempre la natura è invincibile e con le sue infinite risorse risponde alla scellerata e sciatta ottusità umana, placidi e a loro agio gli alberelli che vivono nel salmastro con i rami ricoperti di sale, osservano con distacco il susseguirsi degli eventi specchiandosi nei riflessi grigi di questa laguna algida. Sulla via del ritorno veniamo raggiunti e superati dagli stormi delle garzette bianche che rientrano nel palmeto sul calare di un invisibile tramonto. Al crepuscolo entriamo nell’abitato dalle vie sabbiose ai piedi di Shali, sono vicoli stretti dove i carretti non passano e a quest’ora con gli uomini che si ritrovano nei cafè o nel ritrovo davanti alla Moschea e con l’oscurità che le rende ancora più anonime, si possono vedere passare le donne che si spostano fra le case trasportando pentoloni e ceste di pane. In paese ci aspettavano, ci stanno cercando per andare a Baharyya, prima un ragazzo inglese, poi una coppia di attempati tedeschi e anche “Gandalf” il lungo capellone grigio dai modi gentili e le rughe profonde, lo scopo è fare un equipaggio per dividere le spese del trasferimento, tutti hanno scadenze e tempi limitati e trovo anche un certo imbarazzo a dire che non so quando me ne andrò da Siwa, sicuramente non nei prossimi due o tre giorni, ci sono ancora tante cose da vedere e da capire e poi ho voglia di concretizzare un contatto per “Base Elba”. Destabilizza questo modo di muoversi, anche i frequentatori di questo ostello che si considerano molto alternativi e spartani ci vedono strani. Mi rendo sempre più conto di quanto sia gratificante questa dimensione di tempo dilatato, il privilegio di essere senza scadenze è un valore immenso soprattutto nel viaggiare. |
© 2024 Elba e Umberto
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