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La preghiera postale Oggi pausa tecnica, c’è da spedire un po’ di roba a casa, guide, libri e dvd per alleggerire il bagaglio. Si va alla posta centrale, è tutto più semplice del previsto e anche divertente con il funzionario censore che fa finta di leggere i libri da spedire, si riempie la scatola e si nastra, poi si passa al nastratore scheggia che chiude e supervisiona tutti i pacchi prima della pesa, a questo punto l’addetto alla riscossione va via per fare le abluzioni, dopo qualche minuto torna poi stende il tappeto e inizia a pregare insieme ad altre pesone, dopo una quindicina di minuti riprende il lavoro mentre altre persone si alternano sul tappeto della preghiera. C’è gente di tante nazioni in questo ufficio, fra cui uno studente del Mali della famosa scuola coranica di Al-Azhar, come sta scritto in inglese sul foglio prestampato applicato al grande scatolone di libri religiosi che sta mandando ad una scuola in Mali; e una minuta ragazza giapponese che sta spedendo un pacco con l’indirizzo in caratteri arabi e ideogrammi giapponesi. Si ritorna al Cafè Kunst Gallery per lavorare con la wi-fi, è un posto bello, ritrovo di artisti e studiosi, con tanti quadri alle pareti e sottofondo di musica classica. In serata mi mangio un fitir un dolce egiziano, in pratica una sfoglia sottile piena di burro che scatena una reazione devastante. |
AuthorUmberto
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Il treno per la città dei morti {youtube}L2TaHfj6I1k&eurl{/youtube} |
C'è chi lo chiama terrorista, chi lo vorrebbe martire, Yasser è solo un bimbo che vuole diventare grande. |
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Le meravigliose Piramidi di Giza e la metro per sole donne
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Cheope: minima statua, massima piramide In mattinata si va a vedere il Museo Egizio, ci sono tanti giapponesi, europei e americani, non ci sono più abituato a vedere le donne in canottiera e gli uomini in pantaloni corti e mi fa strano. All’ingresso nonostante le decine di adetti alla sicurezza i controlli sono inesistenti, il museo è strapieno di reperti, c’è una quantità impressionante di statue, più che un museo sembra un grande deposito, specialmente nelle sale laterali è tutto avvolto nella polvere e le teche di legno con i lucchetti impiombati e le didascalie scritte a penna su fogli di quaderno riportano alle romanzesche storie dell’epoca archeologica dello scorso secolo. Non è un museo moderno ma è sicuramente un luogo di grande fascino, sembra che ci siano esposti più di 120.000 pezzi, provo a immaginarmi i famosi depositi del museo dove si dice siano ammassati senza essere catalogati milioni di reperti, deve essere un posto incredibile. |
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Il deserto che incontra il mare Le notizie che arrivano da Gaza non sono buone, c’è stato un altro raid, a un certo punto sembra che ci sia una possibilità per entrare ma poi non si concretizza, quindi si va alla stazione dei bus e si parte in direzione Cairo. La strada scorre dritta lungo costa a rincorrere il sole in un paesaggio di sogno con le dune del deserto che incontrano il Mediterraneo, a volte il mare si incunea fra le sabbie creando delle insenature surreali e di tanto in tanto fra le dune spuntano dei piccoli laghi salati. Ci sono ancora tanti pastori beduini nomadi che vivono qui, abitano in piccole capanne di canne e sono molto più numerose di quello che pensavo, sono immagini che sembrano uscite dai racconti della bibbia e dei vangeli, con i bimbi che giocano mentre controllano i greggi delle capre e le donne che rientrano verso le capanne sul dorso dei piccoli asini, dopo essere state a recuperare un po’ di legna. Man mano che pone il sole il paesaggio diventa sempre più bello ed evoca storie leggendarie e lontane come quella della fuga in Egitto di Giuseppe, Maria e Gesù un paio di millenni fa, ma ci sono anche tanti reticoli di filo spinato che segnalano i campi minati che rammentano storie di guerre molto più recenti. E’ già notte fonda quando ripassiamo dal ponte sul canale di Suez, siamo nuovamente in Africa fra i coltivi e i canali del Nilo. Poi inizia il traffico del Cairo, che di notte sembra ancora più infernale, dopo un paio d’ore arriviamo alla stazione centrale, camminare con gli zainoni nel caos del traffico del Cairo non è un’esperienza rilassante, comunque nel giro di un’oretta ci piazziamo e poi si va a cercare qualcosa da mangiare in questa metropoli devastata da fast food e spazzatura. |
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Rispediti al mittente Partiamo con un collettivo per Rafah con l’intenzione di entrare nella striscia di Gaza per capire meglio quello che sta succedendo e per dare una mano. Siamo in contatto telefonico con Vittorio Arrigoni, l’attivista pacifista di guerrillaradio unica voce italiana da Gaza nei giorni dell’operazione piombo fuso. Conoscere Vittorio è un ulteriore motivo per entrare nella striscia, mi farebbe tanto piacere parlarci. Al posto di blocco prima di Rafah svanisce il sogno di entrare, i militari egiziani ci fanno scendere e ci rispescono indietro, attraversiamo il breve tratto di deserto che divide le due carreggiate da e per Rafah accompagnati da tre militari, il capoccia non è che sia molto simpatico, quando vede che mi diverto ad osservare le grandi formiche che camminano sull’asfalto si avvicina con fare da bullo e le schiaccia calpestandole. Aspettiamo qualche decina di minuti poi ci fanno salire su un collettivo e si ritorna a Al-Arisch dove si apprende che nonostante la tregua concordata fra Hamas e Israele gli scontri continuano, se prima era complicato entrare nei prossimi giorni lo sarà ancora di più, domani si torna al Cairo. Nella piazza del paese ci sono ancora un po’ di scalpellini, se ne stanno seduti sul marciapiedi in attesa di richieste di lavoro con il loro corredo, una mazza, un mazzolo e qualche scalpello tenuti insieme da due fasce elastiche fatte con i resti di camere d’aria dei pneumatici. In serata mentre si sta mangiando il rumore di un aereo militare inghiotte tutti i suoni, per un attimo tutto sembra fermarsi, anche il respiro, poi tutto ricomincia fra sorrisi e voglia di allegria che si propaga veloce come per esorcizzare la paura. |
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Il Sinai Doppia discussione prima di partire per Al-Arish, con il tassista che ci ha accompagnato alla stazione dei bus e con il bigliettaio per caricare i bagagli sul pullman, comunque si parte senza problemi su un pullman mezzo vuoto. C’è una coppia accanto a noi che mi ricorda San Giuseppe e la Madonna, lui avrà almeno cinquant’anni camicione e giacchetto di jeans, lei è tutta velata di nero ma dagli occhi si vede che è giovanissima avrà diciott’anni e poi ci sono le due bimbe, la grande che avrà un anno e poco più e la piccolina di pochi mesi fasciata completamente in una coperta. La campagna a ovest del canale di Suez è rigogliosa e i campi hanno un aspetto inusuale per noi, con delle strisce di terra accumulata su cui vengono seminati i coltivi sopraelevati rispetto al piano del campo che di tanto in tanto viene allagato, un sistema inverso a quello dei nostri solchi, che è tipico del delta del Nilo. Dopo una trentina di chilometri fiancheggiando il canale di Suez dove si vedono scorrere le grandi navi saliamo sul grande ponte Mubarak Peace, costruito da tecnici giapponesi, che attraversa il canale, ha una forma triangolare che ricorda vagamente una piramide e al centro un’ampia e alta campata per far passare i grandi convogli galleggianti. Siamo nel Sinai settentrionale, il panorama cambia di botto su questo lato del canale è subito deserto, tutto è arido e chiaro, dopo un po’ iniziano anche le dune di sabbia che sono più grandi di quello che immaginavo. È una zona comunque densamente popolata con una serie quasi ininterrotta di abitazioni. E’ un luogo difficile da vivere il deserto, rimango sempre stupefatto dai greggi di pecore, capre e dromedari portati a pascolare nel nulla, ma di gran lunga più impressionante è il numero così elevato di persone che vivono in questo deserto fra il nulla e il mare. Un paio d’ore e siamo a Al-Arish, l’ultimo tratto di strada costeggia il mare ormai siamo quasi sul margine orientale del Mediterraneo e Cipro e la Turchia sono vicini. Al-Arish è una cittadina in grande espansione come tutti gli insediamenti visti in Egitto ed è anche un importante centro balneare per il turismo interno. Arrivati al capolinea ci spostiamo nel centro dove troviamo un’ottima sistemazione in un fonduk economico ma confortevole. La vita scorre tranquilla sembra impossibile che fino a pochi giorni fa, a pochi chilometri da qui si svolgesse una sanguinosa guerra, le vie cittadine brulicano di attività e tante vetrine sono pacchianamente addobbate per la prossima ricorrenza di San Valentine, più tranquillo è il tratto costiero con un’infinita spiaggia piena di conchiglie rovinata dal cemento. In serata una piacevole sorpresa con un cavo volante riusciamo ad avere internet in camera. |
Port Said Arriviamo alla stazione precisi per prendere il bus, sbaglio la fila mi metto in coda con le donne, mi brontolano e mi devo spostare. La strada è un veloce rettilineo che fiancheggia il canale circondata da un terreno nero di limo, da qualche laghetto salmastro e da campi verdi e frutteti rigogliosi. In un’ora siamo alla dogana per entrare sull’isola che è stata creata con i detriti dello scavo del canale depositati nel lago Manzala, su cui si estende Port Said, è una formalità necessaria perché la città è porto franco, ma è solo una formalità. Port Said è una grande città con palazzi e strade piene di traffico e nessuna traccia evidente dei bombardameni subiti durante la guerra con Israele, è ricca di banche e sedi di compagnie marittime. L’ingresso del canale dal Mediterraneo è delimitato da due strutture in muratura, in questo momento è chiuso in direzione Suez, i bastimenti man mano che arrivano vengono parcheggiati dalle pilotine a delle grosse boe lungo l’ingresso del canale e formano delle carovane di navi, in questo momento ce ne sono quattro in fila. Solo la prima zona del canale è visitabile poi inizia la zona militare e la zona dei cantieri che è interdetta. Dall’altro lato del canale si sviluppa il quartiere di Port Fuad che è praticamente il proseguo di Port Said collegato da dei piccoli traghetti gratuiti che fanno continuamente la spola, ne prendiamo uno anche perché è il posto migliore per fare le foto alle navi. Tornati a Port Said si fa un giro tra il porto e le strette vie di impostazione coloniale e poi passando dal porto peschereccio si arriva sulla costa mediterranea che si sviluppa con una lunga spiaggia piena di grandi conchiglie con l’orizzonte punteggiato di navi a rada. Ritorniamo alla blindatissima stazione dei pullman per rientrare a Ismailia, dalla corriera si vedono i convogli provenienti da Suez che stanno risalendo il canale, è un’immagine suggestiva con le grandi navi che scorrono da dietro l’argine che sembrano arare il terreno passando davanti a palme, granai e alle mucche al pascolo che ignorano il passaggio continuo delle gigantesche porta container. In serata ci fermiamo a vedere due pescatori che dalle rive del lago Timsah, con grande fatica stanno salpando una grande sciapica, è una rete molto grande e fanno una fatica disumana e alla fine non raccolgono praticamente niente. Sotto una grande stellata rientriamo alla base, domani inshallah si entra nella penisola del Sinai. |
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La tempesta di sabbia Da Ismalia in bus ci spostiamo verso Suez, città costruita sul vertice meridionale del canale. Già al tempo dei Faraoni l’uomo aveva pensato di collegare il Mar Rosso con il Mediterraneo, ci sono dei documenti risalenti al 610 avanti cristo che ne parlano e per primi ci riuscirono i persiani sotto Dario il secolo dopo. Anche i romani migliorarono questo primordiale canale di Suez che collegava il Mar Rosso con Bubastise e da lì, attraverso i canali del delta, al Mare Nostrum. Ma il canale vero e proprio come lo conosciamo noi fu inagurato nel 1869 al termine di dieci anni di lavori stravolgendo le rotte marittine e i commerci dell’intero pianeta. Il canale rimase in mano ai francesi e agli inglesi fino al 1956 fornendo alle due potenze coloniali ingenti guadagni, loro malgrado dovettero subire la nazionalizzazione del canale da parte di Nasser che, con i dazi di transito finalmente in tasca all’Egitto, finanziò la costruzione della famosa diga che porta il suo nome e che ha stravolto la vita dell’Egitto e forse anche il clima del mondo tutto. La strada corre dritta nel deserto dove ci sono tante basi militari con cannoni e carri armati, tante di queste basi sembrano bombardate di recente con mura e hangar semidistrutti e le garritte annerite, evidentemente sono i segni della guerra contro Israle del 73, o addirittura di quella del 67. Arriviamo a Suez dentro una tempesta di sabbia, il cielo è giallo e la visibilità assai scarsa, attraversiamo il ponte che collega il centro principale con Port Taufiq il vero ingresso del canale che qui è veramente scavato nel deserto, in questo momento non stanno transitando navi, c’è il blocco in entrata, ma a rada ce ne sono tante che attendono l’apertura che avverrà dopo il transito dei convogli che devono arrivare dal Mediterraneo. Qui rispetto a Ismailia è tutto più trasandato, solo un piccolo tratto di passeggiata di Port Taufiq consente di vedere il canale il resto è tutto militarizzato e interdetto e le vie interne sono ricche di banche e uffici di compagnie di navigazione chiuse. Suez città, è piccola e malridotta con i segni della guerra ancora visibili se si esce dalla zona centrale. Dopo una colazione ritardata con frullato di banana, ci andiamo a mangiare un pesce a metà strada fra il parago e il dentice da un grigliarolo sulla via del centro, sopra la “cucina” c’è un ristorantino dove si può consumare il pesce, è un posto ganzissimo una specie di capanna gestita da tre allegre gioiose velate ma alquanto disinibite. Ritorniamo a Port Tauiq passando da un elegante e decadente quartiere coloniale e finalmente vediamo le navi nel canale che stanno arrivando da nord, è un flusso costante come una processione, le sagome delle navi si materializzano nelle polvere del deserto e poi ci passano a fianco prima di entrare nuovamente nel mare, le più impressionanti sono le gigantesche portacontainer, la più strana una nave con quattro gigantesche bolle bianche sulla coperta che sembra una base spaziale. Per rientrare il pullman non c’è, ma non è un problema perché c’è un Peugeot 504 collettivo che sta per partire per Ismailia e il tassista beduino che lo guida è un vero driver, va sempre a chiodo e sorpassa facendo peli millimetrici a camion e vetture, in un’oretta siamo nuovamente a Ismailia. Ismalia è la città delle donne, perlomeno rispetto alle altre città del nord Africa ci sono molte più donne in giro rispetto ai maschi, anche perché molti uomini vanno a lavorare nei vicini stati della penisola arabica dove rispetto all’Egitto guadagnano molto di più e di conseguenza lasciano più libertà di movimento alla donne, ci vorrebbe più tempo per approfondire la cosa ma per esempio rispetto a una città come Marsa Matrhouh la differenza di atmosfera è macroscopica. |
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