Giapponesi Ad Alessandria ci sono tanti giapponesi, ogni giorno di più, ce n’è un gruppetto anche nel “nostro” palazzo, sono tutti molto giovani e sembrano di porcellana, distaccati, riservati e sempre con il sorriso stampato, sembrano schermati da tutto quello che gli gira intorno. La città di Alessandro e Cleopatra deve esercitare un grosso fascino in oriente, per numero gli asiatici sovrastano americani e europei, si vede anche qualche italiano in giro, ma è soprattutto gente qui per lavoro. |
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AuthorUmberto
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Treno dolore e sgomento Stamani si mette a frutto l’eperienza di ieri, eludento la sorveglianza che non è mai troppo scaltra, faccio due biglietti da europeo e poi si va verso il treno popolare, quello che ufficialmente non esiste e che per non farlo vedere ai turisti sta anche ai margini della stazione. È un relitto ferroviario a cui mancano anche gran parte dei finestrini, dentro c’è gente che dorme un po’ dappertutto, man mano che arriva la luce le sagome scure sparse fra sedili e vani bagagli si rivelano persone che hanno rimediato un riparo per la notte, è un deposito di lezzo e dove ci sono i vetri sono così incrostati che non si vede niente. Il treno dolore e sgomento comunque viaggia e in tre ore e mezzo siamo nella capitale, la locomotiva per motivi di immagine si fema lontano dalla stazione centrale e i suoi occupanti vengono vomitati nelle infernali vie del Cairo da passaggi laterali. Stavolta si va a botta sicura e con un paio di indicazioni volanti siamo al centro riparazioni Canon, sempre a Heliopolis ma nel distretto di Almza, fra vialetti ordinati in una palazzina tutta precisa. Ci accoglie un baffuto pancione avvolto in una nuvola di profumo, che la mattina si deve dare con la pompa del verde rame, è buffo e altezzoso ma sa il fatto suo, mi pulisce la macchina che torna a funzionare, il grandangolo invece è morto e ne compro un altro, per il 300, anche lui ko, mi promette di cercarmene uno usato. Ci spostiamo verso il centro raggiungendo Zamalek, esclusivo quartiere residenziale di banche e albergoni costruito su un isolotto in mezzo al Nilo, qui c’è la sede egiziana del Monte dei Paschi di Siena dove devo ritirare la nuova carta di credito per sostituire la vecchia che a fine mese scade. Passando davanti al Marriot uno dei più famosi alberghi da ricchi del Cairo, veniamo assaltati dai tassisti che ci vogliono a tutti i costi portare in giro, per 50 euro, che sono quasi due mesi di stipendio di un operaio, ci propongono la visita di ogni dove e mi inseguono famelici insistendo fino allo sfinimento. Non c’è nessuna indicazione di banca, ma l’indirizzo è preciso e si trova facile, ci aspettavano e il responsabile si dimostra gentilissimo, si chiacchiera un po’ e ci da qualche dritta fra cui una preziosissima di un negozio di fotografia dove si potrebbe trovare degli obbiettivi usati, che si trova di fronte alla Madrassa Ahram, indicazione indispensabile per farsi capire dal taxista. Fortuna vuole che trovo un trecento usato, è un po’ vecchiotto ma funziona e costa cinque volte meno di uno nuovo. La fame ci induce a festeggiare mangiando, è giovedì pomeriggio che corrisponde al nostro sabato sera, i negozi chiudono presto e i cairoti si riversano nelle vie e nei ristoranti. Capitiamo in un gigantesco ristorante popolare dove famiglie e gruppi di amici vanno a mangiare, in tanti prendono spaghetti al ragù e piccioni al forno, agli egiziani piace mangiare, i ciccioni sono tanti e di tutte le età. È un posto di grande varietà umana penso che per un egiziano del Cairo un ristorante italiano debba sembrare un tristissimo luogo popolato di zombi. Si ritorna alla Ramses station, naturalmente sul treno non c’è posto, ma ormai s’è imparato e si sale alla zitta, stavolta però è pieno davvero e si viaggia alla clandestina insieme a tanti altri, soprattutto studenti che rientrano verso casa. Sul treno oltre al controllore e ai venditori di cibo ci sono anche i facchini, uno viaggia insieme a noi. Più che un lavoro è cercare di sopravvivere, non so nemmeno se lo pagano, ma anche se fosse è poco più di niente, è vestito come un detenuto, grasso e sporco con una faccia così rassegnata che non c’è posto nemmeno per la disperazione, cerca di tirare avanti cercando di rimediare bascish puntando sulla commiserazione dei viaggiatori. Sono le piccole cose che ti fanno capire come funziona: passa il venditore di panini e bevande, con fare da mendicante il facchino gli chiede qualcosa da mangiare e lo segue, questo gli allunga qualche bustina di the e di zucchero facendo illuminare gli occhi a questo pover’omo che poco dopo cede un paio di buste della preziosa merce a un collega. Dopo un paio di quarti d’ora, dopo preso il the, con espressione appagata prende un pezzo di cartone e si mette a dormire incastrandosi fra la parete e lo scalino. |
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Heliopolis Stamattina sveglia prima dell’alba per andare al Cairo, con l’intento di risolvere i problemi delle macchine fotografiche. Alessandria a quest’ora è silenziosa e buia, lungo le vie ci sono solo guardie che dormono dentro le garitte e sciagurati che dormono sui marciapiedi. Intorno alla stazione di Mahattat Misr il movimento aumenta, alla biglietteria di terza e quarta classe non ci fanno i biglietti e gli inservienti interni non ci fanno nemmeno avvicinare al binario, solo seconda o prima classe e bisogna aspettare fino alle otto. Quindi giro nella zona circostante, dove di prima mattina nei pentoloni allagati di olio color petrolio si friggono fegatelli e peperoni, i cafè sono già pieni di gente che fuma e ci sono dei banchetti che fanno le frittelle con lo zucchero e farcite di latte cagliato, facciamo colazione con le frittelle dolci e il the e poi si ritorna alla stazione e si parte. La periferia di Alessandria è fatta di casermoni e spazzatura, poi iniziano i canali e il verde del Delta dove risalta il bianco degli ibis prima che la nebbia fitta avvolga tutto. Dopo tre ore siamo nel centro del Cairo, Ramses station: il traffico e il rumore di Alessandria era niente a confronto, l’aria è così inquinata che sembra di avere un respiratore collegato a una pompa della benzina, vibra tutto di traffico e l’aria è unta. Dall’altro lato della stazione parte il tram (qui chiamato metro) per Heliopolis, il quartiere del Cairo dove dovremmo trovare il centro Canon. Una mezz’ora e ci siamo, un ragazzo si autoelegge nostra guida e insieme ci perdiamo fra le villette di questo quartiere “bene”. La fortuna vuole che dopo un po’ si incontra una donna con gli occhi larghi e curiosi che inquadra subito il nostro vagare insulso e ci viene in aiuto, è libanese, veste all’occidentale e ricorda vagamente Maria Callas. Parla bene inglese e francese a sa anche qualche parola di italiano, arriva anche la sua mamma una donna alta e slanciata con gli occhi celesti e poi il figlio di cui mi decanta orgogliosa le origini greco-italiane del padre e la professione di dentista. Siamo completamente fuori zona e questo s’era capito, mi dice che secondo lei sarà difficile trovare quello che cerco perché qui la gente queste cose se la va a prendere direttamente a Dubai o in Europa, comunque Karim il dentistino ci accompagna in macchina al più grande negozio Canon di Heliopolis. Gran negozio luccicante rivestito di marmo e negoziante imbrillantinato vestito da matrimonio di cosa nostra, ci sono telefonini, palmari, macchine fotografiche compatte, esposti come fossero i tesori di Tuthmosi III ma niente reflex e tantomeno obbiettivi di reflex, ha solo tre scatole che fanno parte della coreografia, di assistenza tecnica nemmeno a parlarne. Andiamo verso Korba il centro di Heliopolis, è pieno di grandi palazzi fatti dagli inglesi nel ventesimo secolo che hanno al piano terra negozi di lusso, dopo un paio d’ore di giri a vuoto, ci indirizzano verso il palazzo dell’elettronica, che in realtà sono più edifici dove ci sono decine, anzi centinaia di botteghe di elettronica in cui si riparano e si riciclano sorprattutto computer, però finalmente trovo un negozio che ha due reflex e che soprattutto ci da l’indirizzo giusto del centro assistenza, ormai è tardi, ma domani si dovrebbe risolvere. Il treno ci dicono che è completo, ma si salta a bordo senza biglietto, il posto c’è e il pagamento si risolve col bigliettaio. |
La bimba con il catetere Va bene la miseria, ma la dignità viene prima di tutto, non si può tenere una bimba malata e sofferente in mezzo a un incrocio pieno di traffico e con il catetere ben in vista sulle gambe per elemosinare, nemmeno per non morire di fame. Fare l’elemosima è gesto nobile e chiederla per alcuni può essere l’unica soluzione, ma usare la sventura di questa bimba non ha giustificazione, non do colpa alla mamma o a chi per essa, ma alla società che lo permette. Sull’Atlas fra la gente Amazigh questo non si sarebbe mai visto e lì la miseria è di quella vera, ma ancora più forti sono la dignità, l’orgoglio e la fierezza. |
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Segugi di mance I camerieri sono segugi di mance peggio delle guide turistiche, avidi si contendono i clienti e gli sviolinano ogni cosa nella ricerca smodata del “baschish” la mancia. Come europeo ti pensano ricco e ti scodinzolano intorno falsi e servili col dollarone negli occhi, è la prassi ma è un sistema che non mi piace. Per gli egiziani ricchi è normale avere schiere di leccapiedi e per la gente comune è normale farli, non che da noi ci sia poi tanta diversità di sistema, ma qui è veramente esagerato. |
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Il Faro che non c’è più Il paesaggio della baia di Alessandria è dominato dal castello, un possente edificio bianco che si erge sul margine occidentale dove un tempo si innalzava il leggendario Faro. Nella baia il mare è calmo ma oltre la diga foranea ci sono dei grandi cavalloni e le barche dei pescatori sono tutte in porto. Lungo la spiaggia ci sono arenati tanti guzzi slanciati verniciati con colori vivaci, per arrivare al castello si cammina lungo una passeggiata che fiancheggia la diga dove la gente si diverte ad osservare gli spruzzi dei frangenti che si rompono sui blocchi di cemento. Del faro, oltre al ricordo, oggi non rimane niente, fu costruito per volere di Tolomeo I per indicare il porto di Alessandria ai navigatori dell’antichità, il monumento venne inaugurato nel 283 a.c. ma diventò un vero e proprio faro un paio di secoli più tardi quando sulla sommità venne posta una fiaccola alimentata ad olio la cui luce veniva riflessa in lontananza da lucide lastre di bronzo. Il faro rimase in piedi per ben diciassette secoli diventando una leggenda e la sua forma slanciata, secondo illustri studiosi, ispirò la costruzione dei primi minareti. Il simbolo di Alessandria restò al suo posto sopravvivendo a ogni evento, fino a quando un violento terremoto nel 1303 lo distrusse per sempre riducendolo a un cumulo di rovine. Nel 1480 il sultano mamelucco Qaitbey costruì qui la sua roccaforte sfruttando i resti dell’antico monumento. Oggi il castello perfettamente restaurato e adornato da una gigantesca bandiera egiziana, fa bella mostra di se davanti a noi. È una fortezza grande e molto ben tenuta, all’interno c’è un ampio giardino e un numero impressionante di uffici pieni di impiegati e inservienti dove, almeno apparentemente, nessuno lavora. Dai camminamenti sulle mura esterne della fortificazione si ha una bella vista panoramica, in ogni angolo della fortezza ci sono soldati che si propongono insistentemente come guide improvvisate per arrotondare con qualche pound di mancia. Dalle possenti murature fuoriescono delle grandi colonne di granito grigio che probabilmente facevano parte dell’antico faro, l’interno del castello è imponente ma assai austero, con grandi stanze spoglie illuminate da piccole feritoie per tutti e quattro i piani. Lasciata la fortezza ci spostiamo nella zona dei mercati del pesce dove ormai sono rimasti soltanto pochi pesci per niente invitanti con i quali i venditori stanno preparando delle specie di cacciucchi. La strada va avanti qualche centinaio di metri fino ad affacciarsi sull’altra baia, dove c’è una lunga fila di ristorantini di pesce, però quasi tutti chiusi. Sulla spiaggia ci sono tanti piccoli cantieri navali dove costruiscono grandi barche di legno dalla forma slanciata ed elegante di grandi panfili. Ritorniamo verso il centro passando dal quartiere Anfushi, il vecchio quartiere turco caratterizzato da palazzi fatiscenti che sembrano crollare da un momento all’altro da cui sbucano antenne paraboliche dappertutto, attraversiamo una zona di mercati di frutta e poi si ritorna verso il centro. |
Faccine che ridono e facce di … gobbi Il vento ha spazzato la nebbia e oggi il cielo è sereno, il traffico è allucinante e pericoloso, facciamo un giro nel parco della grande biblioteca che nei prossimi gironi voglio visitare con calma. In serata mi diverto su skype a mandarmi le faccine con Nicol e mi arrabbio per la partita che i gobbi malefici ci rubano a Torino. |
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Pompino velato Nebbia e cappa di smog, visibilità di poche decine di metri, il classico stereotipo della giornata autunnale Londinese, però siamo in Africa. Cosa assai gradevole di questa città è il caffè, ci sono le caffetterie, una in paticolare, dove fanno un espresso che sarebbe decente anche in Italia e poi è al banco, veloce ed economico. La cosa spettacolare è che lo tostano e lo macinano di fianco al banco di vendita con un marchingegno che sembra uscito da un libro di Giulio Verne, con tanto di quadro elettrico abbrustolito, cinghie e caldaia fiammeggiante. Qui oltre all’arabo parlano inglese, che per me è quasi peggio, però “sciort coffi in big taz” lo so di’. Ci ritroviamo a mangiare a fianco a una coppia sui venticinque anni, lei è completamente velata di nero, si vedono solo gli occhi, in rispetto all’osservanza più rigida dei dettami coranici porta anche i quanti neri. Arriva uno sfilatino farcito, per mangiarlo sta disgraziata deve fare delle operazioni da contorsionista, infila il panino sotto il velo con la mano destra mentre con la sinistra allarga leggermente il velo che struscia sulla bocca e poi si ingobbisce, da un morso, sfila il panino, lo appoggia nel piatto e mastica spostandosi il velo, alla fine tutto questo celare crea un effetto contrario e l’idea è quella di un pompino velato. Una cosa per me eccezionale dell’Africa è quella di creare attività da niente: in un locale minino, un corridoio lungo quattro o cinque metri e largo meno di uno, c’è un internet point, si sviluppa tutto in verticale c’è una mensolina dove appoggia il monitor, uno sgabello e in alto appeso alla parete il cervello del computer, ci sono cinque postazioni e il gestore dall’internet cafè c’ha anche un termos di acqua calda e ti propone the e caffè, ma la chicca è lo spremi agrumi per i succhi di frutta freschi, è un posto che mette di buonumore, se funzionasse sarebbe perfetto. |
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Wi-fi e torta al cioccolato C’è ancora da lavorare, la logistica è di quelle di lusso, cafè pasticceria con torte al cioccolato di livello eccelso e wi-fi. Facciamo amicizia con un ragazzo che tanto per cambiare si chiama Mohamed, però è nubiano e ci tiene a precisare che fra nubiani e arabi c’è tanta differenza. Ad Alessandria ci sono tante moschee e anche diverse chiese, c’è anche una Sinagoga che è piantonata dai militari con i fucili mitragliatori con la baionetta inserita. Qui i bar e gli internet chiudono presto, ci spostiamo nella zona interna dove è segnalato un locale con la wi-fi che invece non c’è, è un posto dove si ritrovano i giovani ricchi e, come in Tunisia, elemento distintivo dei figli di papa è il capello da beseball sempre in testa, mentre per le ragazze fumare in pubblico. |
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Alessandria, fra nostalgie di Belle Epoque, fast food e fronti livide Stiamo a internet fino alle cinque poi saluti e a casa dove ci facciamo una pastasciutta con tonno e poi zaino in spalla e si parte. Arriviamo alla stazione dei pullman che comincia a fare giorno, stavolta troviamo posto sul bus, intorno a questo grande piazzale c’è una bella miscela di facce e situazioni interessanti, un vecchio rinseccolito come una mummia attraversa il parcheggio delle corriere con il carretto carico di bombole del gas trainato da un vecchio ciuco che l’artrosi fa sembrare meccanico. Nell’attesa gli uomini fanno capannello intorno ai piccoli falò, fra narghilè e bicchieri fumanti di shay, in una grande varietà di tonaconi, turbanti e kafià, mentre le donne stanno in disparte, tutte piuttosto statiche meno una, apparsa all’improvviso come una pantera del deserto si muove rapida fra corriere e chioschi alla ricerca del giusto mezzo, è avvolta in un coltrone nero e un lungo velo bianco le copre il viso e scende fino all’altezza delle ginocchia, si muove agile nonostante un grande sacco in testa e una borsa di iuta in mano, poi carica il sacco nella stiva del pullman per Alessandria e sale a bordo. Dopo poco si parte e mi addormento facile con l’aiuto del soporifero umore di sudore e lezzo che aleggia nella corriera. Quando mi sveglio è già Alessandria con la sua grande periferia che si estende fra lagune salmastre e petrolchimici che regalano inalazioni killer, fiancheggiamo un inquietante matrouh colorato di rosso e poi si arriva al capolinea, prendiamo il taxi, un fiat 125 che avrà la mia età, dove c’è già una donna anziana tutta vestita di nero che sta portando due ceste di vimini piene di cibo da regalare ai parenti cittadini. La nonna è allegra, sembra divertirsi tanto nel traffico allucinante e sempre più congestionante, “yallahahh!! yallaahahh!!” ride e sprona il tassista a infilarsi deciso in ogni varco. Una mezz’ora e siamo in Midan Saad Zaghloul (la piazza centrale) qui vicino faremo base per qualche giorno, in una camera dentro un vecchio palazzo dal nobile passato ma oggi un po’ sgarrupato, la posizione è ottima ed è comunque un posto assai affascinante e poi è molto economico. Alessandria è una metropoli con più di cinque milioni di abitanti allungata sul mare, nella forma assomiglia un po’ a Genova, sa molto di vecchia Europa è decadente e sgarrupata, con tanti grandi palazzi della Belle Epoque eleganti e pomposi ma ormai tutti scrostrati e fuligginosi. Anche i cafè lungo la corniche con i camerieri incravattati hanno il calendario fermo al periodo coloniale e sembrano scrutare verso il mare nell’attesa del fumo nero delle caldaie di improbabili panfili a vapore anglosassoni. Nell’attesa del fumo nero si ingrigiscono di piombo e ferodo e si alienano nel suono ossessivo dei clacson che sono la colonna sonora perpetua di questo viale. Alessandria è affacciata sul mare e come tutta le città di mare lì guarda, in cerca di novelle e sirene, per altro qui già atterrate in passato. Il fascino nostalgico si perde nelle vie interne fra le vistose insegne dei fast food e le vetrine di telefonini, nei tanti Chador delle donne e nell’osservare gli uomini con le fronti callose e tumefatte dal tanto pregrare. |
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