AuthorUmberto

Venerd?¨ 21 novembre 2008 Tripoli ‚Äì Libia

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Il Libro Verde e la Medina Africana
Il venerdì è giorno di festa perché dedicato ad Allah, sabato le sedi diplomatiche sono chiuse, quindi per andare al consolato Egizio per i ivisti bisogna attendere domenica, oggi siamo liberi di muoverci senza “scorta” per Tripoli. Ci spostiamo verso la Piazza Verde che dovrebbe essere il cuore della Tripoli rivoluzionaria, ma si rivela anonima e deludente, un gran parcheggio con una larga via che gli gira intorno. Guardando il mare sul lato sinistro c’è il castello, il monumento più bello e imponente della città, fino agli anni settanta il castello e la piazza davano sul mare ma poi sono stati bonificati cinquecento metri di mare e ora prima di vedere le acque del mediterraneo bisogna attraversare uno stradone a quattro corsie e una serie di giardini. Sicuramente il castello con i bastioni affacciati sul mare doveva fare tutto un altro impatto, come del resto anche Portoferraio Medicea avrebbe tutt’altro fascino se fosse ancora separata dal resto dell’Isola dal fossato.
Nella fortezza che in realtà è una cittadella fortificata si trova il famoso Museo della Jamahiriya, considerato uno dei più belli del mondo, entro per assicurarmi che anche domani sia aperto e mi compro la ventiquattresima ristampa del Libro Verde in Italiano, un libricino con la costola rigida  dove è racchiuso il Gheddafi pensiero. Moammar El Gheddafi ha concepito il suo capolavoro una trentina di anni fa a seguito di un meditativo soggiorno nel deserto durato più mesi. Nel Libro Verde, che in pratica è la costituzione della Libia, è enunciata “la terza teoria universale” “la soluzione definitiva allo strumento di Governo per il mondo intero”. Per quanto grottesco secondo me ha degli spunti geniali e comunque la sua applicazione, vista da dentro la qualità della vita della gente nella dittatura socialista di Gheddafi, a me sembra decisamente migliore rispetto alle dittature filo Americane viste in Marocco e Tunisia, bisogna anche ammettere che governare una nazione con sette miloni di abitanti distribuiti sopra una steminata cisterna di petrolio agevola la gestione dei problemi. Dopo la “rivoluzionaria” lettura, andiamo a fare un giro nella medina, che non ha niente a che vedere con il fascino delle medine marocchine di Fes o Rabat, ma è comunque la parte più interessante di Tripoli. Le mura delle case e delle moschee sono le classiche di fango ma rivestite da uno spesso strato di calce bianca che le danno un’impronta tipicamente mediterranea, ogni tanto dai vicoli sbuca qualche terrazzino che insieme alle persiane ci ricordano il periodo italiano di Tripoli.
Le Mura della Medina si basano sulle antiche fondamenta di Oea la grande città Romana che insieme a Sabratha e Leptis Magna formava la Tripolis, da cui ha origine il nome attuale, la posizione strategica di porto di collegamento fra l’Africa e l’Europa ne ha disegnato una storia tumultuosa e le sue mura hanno visto Bizantini, Normanni, Arabi, Spagnoli succedersi al suo controllo fino all’invasione turca del millecinquecentocinquantuno che in pratica mantennero il controllo fino all’arrivo delle truppe coloniali italiane nel millenovecentoundici. Camminare dentro la medina è come fare un viaggio nell’Africa interna, i Libici ormai non ci vivono più si sono trasferiti nella città nuova e qui ci vive e ci lavora solo gente proveniente dall’Africa nera, soprattutto dal Ciad, dal Niger e dal Mali, rendendo il clima gioioso per il modo più colorato di vestire e soprattutto per la musica vitale che si propaga nei vicoli, molto più ritmata ed energica rispetto alle alienanti litanie arabe. I vicoli brulicano di attività, ci sono tantissimi barbieri e tanti sarti che Serena dice usano anche delle buone macchine per cucire.
Tornati verso la città nuova camminiamo lungo il mare fra fontane, giardini e bar di lusso super recintati, frequentati da gente stile milano da bere che mai mi sarei immaginato di trovare a Tripoli.
In poche centinaia di metri si è passati dalla medina di fango al bar con le guardie del corpo, questo però nel Libro Verde non c’era scritto.
   

Gioved?¨ 20 novembre 2008 da Ubari a Tripoli ‚Äì Libia

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Il Grande Fiume dell’Uomo
Facciamo colazione all’alba e poi ci salutiamo con Haroun, oggi si rientra a Tripoli e siamo sotto la responsabilità degli autisti. Ci viene a prendere un taxi immacolato, un lindo vito mercedes con al volante un autista tutto precisino che parla un inglese da Lord, ci fermiamo in paese per fare le fotocopie dei documenti da consegnare alla polizia nei vari posti di blocco e poi si parte alla volta di Sebha, dieci giorni di deserto mi avevano fatto dimenticare il rigido sistema Libico e il lusso dei loro mezzi rispetto al resto dell’Africa visto fino ad ora. Al campeggio di Sebha si cambia mezzo e si sale su un Mitsubishi Lancer guidato da un tipo silenzioso con un testone enorme a forma di cocomero. La strada è tutta dritta e risale verso nord fiancheggiando il deserto, la monotonia è interrotta solo da qualche cammello che attraversa la via e dai posti di blocco della polizia che sono dei baracchini in mezzo al nulla, poi è solo strada dritta fino a Shafren dove facciamo sosta come all’andata, nella grande area riservata ai distributori di benzina e alla ristorazione, ci mangiamo il classico sandwich kebab che sembra la specialità preferità dei Libici. Oltre ai soliti camionisti ci sono tanti militari e un gruppo di austriaci in fuoristrada che sembrano usciti dall’Afrika Korp, le donne e i bimbi non si vedono perché vengono fatti accomadare nei ristoranti interni a loro riservati  dove gli uomini soli non devono accedere. Si riparte nel deserto di pietra, dopo poco incontriamo le tracce del grande fiume dell’uomo, il gigantesco acquedotto voluto da Gheddafi per portare le acque fossili del deserto fino alla costa. Questo progetto megalomane è ancora in fase di realizzazione ma alcune parti sono state già ultimate e stanno portando nella zona di Tripoli e di Sirte svariati milioni di metri cubi d’acqua  al giorno. Il gigantesco acquedotto sotterraneo è formato da grandi tubi di cemento che vengono interrati a cinque sei metri di profondità e una volta ultimato si estenderà per oltre cinquemila chilometri formando anche un enorme deposito di stoccaggio di acqua. Il sogno di Gheddafi è quello di rendere verde tutta la fascia costiera Libica, il rischio è che in poche decine di anni si esauriscano tutte le riserve idriche del sottosuolo con conseguenze catastrofiche per il territorio e per la popolazione con il rischio di far fare alla Libia la stessa fine del Regno dei Garamanti.
La strada prosegue nell’Hammada il deserto di roccia, ogni tanto nel nulla appaiono dei paesi in costruzione, grandi cantieri che sfornano paesi di impostazione moderna con palazzine a schiera, piazze e parcheggi e poi ancora il niente dove ogni tanto si incontrano delle  piccole greggi di pecore che non si capisce cosa bruchino. In questo infinito rettilineo sotto il sole il rischio di addormentarsi alla guida è altissimo e poi cocomero ascolta da ore la stessa litania coranica che fa veni’ la voglia di ascoltare radio maria, si sta anche delle mezz’ore senza veder passare un mazzo, ma quando passano i convogli dei camion che portano i giganteschi tubi (larghi più dei cassoni) per il “Fiume dell’Uomo” ti svegliano di colpo dallo spostamento d’aria.
Nel tardo pomeriggio finalmente il paesaggio comincia a cambiare, una larga discesa a tornanti ci fa scendere dall’Hammada e sull’orrizzonte qualche nuvola bianca da un’illusione di mare, testone abituato ai drizzoni del deserto sbocca tutte le curve, impugna il volante dal basso con i palmi rivolti verso l’alto stringendo con tutte e due le mani e ogni volta rimane incastrato nello sterzo, grazie a allah arriviamo vivi nel piano e si sbuca in un paese senza nome con chiesa italiana, il paesaggio è cambiato ci sono delle lenze di terreno fertile e tanti olivi.
Siamo vicini a Tripoli ne attraversiamo l’infinita periferia rischiando continuamente di fare incidenti e finalmente a buio arriviamo nel centro. Qui veniamo presi in consegna da Tarek, il tipo che avevo contattato dalla Tunisia per ottenere il visto di ingresso in Libia, che ci accompagna in quella che dice essere la soluzione più economica di alloggio. Abbiamo un camerone che si affaccia su una delle vie principali dove troneggia una gigantografia del colonnello.
“Hola! como estas” ci accolgono festose e curiose  delle ragazzine che parlano spagnolo, sono una quindicina e  alloggiano qui ospiti del governo Libico, sono qui per studiare sono esuli del polisario Marocchino e Algerino e le loro famiglie sono sparse fra Africa e Europa, soprattutto in Spagna, una di loro che ha la mamma che lavora a Roma parla italiano, mi dice che è di Layounne nell’ex Sahara Spagnolo dove sono stato quasi un anno fa. Ci sono problemi perché il Marocco non vuole riconoscere al polisario l’autonomia concordata e che la Libia, che appoggia il movimento, ha dato loro aiuto ospitandole e facendole studiare.
Tripoli è una città con tanti grattacieli in costruzione e un gran traffico, ci sono tanti macchinoni e un gran gusto nel suonare il clacson, ci mangiamo una pizza e poi andiamo a dormire con gli occhi ancora pieni di deserto.
   

Mercoled?¨ 19 novembre 2008 Deserto di Ubari ‚Äì Libia

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Mavo

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Gebraoun

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La Tomba di Aoun

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Umm al-Maa

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Mandara

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Gebraoun il villaggio dei Dawada, i mangiatori di vermi
L’umidità dei laghi s’è fatta sentire e stamani la tenda è tutta bagnata, anche la sabbia è umida e porta impresse tante impronte di animali tra cui quelle di uno sciacallo. Qui è più facile incontrarli perché è una zona meno estrema rispetto ai giorni precedenti, siamo infatti nei pressi del Wadi Al-Hayat intorno al quale non si concentra solo la presenza umana, ma anche quella delle possibili prede di questi canidi. Ci incamminiamo sulle dune più alte della zona da cui si vede molto bene l’oasi e l’abitato di Germa e in lontananza il Msak Settafet. Ieri sera Yaya è tornato verso Ubari per sistemare la frizione della macchina che negli ultimi giorni dava problemi e stamani ha mandato  Sallah, un suo amico, a sostituirlo. Saliamo sul suo Land Cruiser bianco e partiamo alla volta dei laghi Ubari. La pista cammina nel fondo valle fiancheggiato sui due lati da alte pareti di dune, ci fermiamo in un punto panoramico, seguendo delle impronte trovo la tana del fenec, la piccola volpe del deserto dovrebbe essere dentro, però come mi conferma Sallah, quando si sente minacciato il fenec rimane dentro la tana immobile e quindi è impossibile da vedere. Scavando davanti alla tana per cercare di fotografare l’interno, fortunosamente mi imbatto in un pezzo di uovo di struzzo pietrificato risalente al periodo predesertico, quando anche qui c’era la savana. Il percorso si snoda fra piccole dune dove ci sono anche dei cespugli, man mano che si va avanti il verde diventa sempre più frequente e si iniziano a vedere anche piccoli gruppi di palme. Fino a pochi anni fa questa zona era molto più ricca d’acqua e i laghi erano undici, ma oggi ne sono rimasti solo tre per l’abbassamento della falda freatica causato dall’agricoltura intensiva nella valle del Wadi Al-Hayat. Lo scenario è molto bello con le palme sempre più numerose che addolciscono il paesaggio che però è rovinato dalle tante ruotate di fuoristrada. Ancora qualche chilometro e arriviamo al primo lago, il Mavo, è un laghetto circondato da canne e qualche palma e tutt’intorno le dune, è bello e suggestivo però mi aspettavo qualcosa di più. Dopo soli tre chilometri incontriamo il lago Gebraoun, il più grande, che la guida (stampata nel duemiladue) dice essere settantacinquemila metri quadri. Gebraoun è stata un’oasi abitata da tempi remoti e il villaggio davanti a noi è stato occupato fino al 1995 quando gli abitanti furono costretti dai militari a trasferirsi a Nuova Gebraoun un agglomerato di cemento nel Wadi Al-Hayat, nell’ambito del progetto di modernizzazione del paese voluto da Gheddafi. Qui vivevano i Dawada, storicamente riconosciuti come una tribù che si giovava dell’isolamento della sua ubicazione per conservare la propria indipendenza di cui andavano fieri, la comunità traeva la propria sussistenza dal commercio del sale e dai prodotti dell’oasi e chiaramente non volevano rinunciare neanche alle loro proprietà. Il piccolo villaggio ha un’aria spettrale, l’edificio più affascinante è la piccola moschea con il minareto la cui mezzaluna sul vertice assomiglia a un parco di corna, Sallah non capisce perché mi voglia fermare in questo villaggio abbandonato, però anche se perplesso ci lascia qui e si sposta sull’altro lato del lago dove è allestita una zona turistica e ci diamo appuntamento tra un paio d’ore. Sia la moschea che le abitazioni sono tutte abbandonate e il vento ha portato la sabbia dappertutto, era sicuramente un ambiente molto bello per vivere, all’ombra dell’oasi e davanti a questo splendido lago circondato da canne ed è comprensibile che gli abitanti abbiano lottato per non essere tresferiti nei brutti cubi di cemento della Nuova Gebraoun. Questo aspetto della modernizzazione è uno dei meno edificanti della Libia di Gheddafi e ha anche come disegno quello di disperdere le sacche autonomiste delle tribù più isolate da sempre refrattarie al potere centrale, come i Dawada che vivevano qui e ancora di più come i Toubou che vivono nella zona dei Tibesti al confine col Ciad e che sono ancora oggi perseguitati dall’esercito libico per l’ostinazione con cui respingono la volontà di farli diventare popolazione stanziale. Purtroppo per motivi burocratici e economici non siamo potuti arrivare nella zona dei Tibesti, avrei voluto tanto incontrare la gente di questa tribù che l’inglese Hugh Clapperton, il primo viaggiatore europeo ad entrarci in contatto, definì come “indomita comunità nomade il cui principio di libertà è elevato a livello di anarchia” definizione resa ancora più interessante dal fatto che anche i Tuareg li definiscono duri e solitari.
Il lago pullula di vita, ci sono numerose libellule e anche tante zanzare, ma le creature più affascinanti di questo specchio d’acqua sono degli strani animaletti rossi, sono lunghi pochi millimetri a hanno una forma stranissima, mi viene da definirli come dei vermi alati che nuotano velocemente muovendo le loro appendici come dei mantelli. I Dawada erano consciuti anche come mangiatori di vermi proprio perché si nutrivano di queste piccole creature che venivano pescati e cucinati dalle donne del villaggio.
L’ambiente è molto bello con la grande duna che si specchia insieme al cielo nelle acque del lago, spostandosi dall’altro lato si trova un campeggio dove si concentrano diversi gruppi di turisti, in totale sono almeno una cinquantina di persone, fa un effetto strano vedere questa gente pallida tuffarsi nelle acque salate del lago. È sicuramente particolare fare il bagno in un lago che sembra uscito per miracolo in questo mondo di dune, ma a me l’idea di tuffarmi in quest’acqua calda e piena di larve non mi attira. Dal lato opposto del lago sotto la duna si trova la tomba di un prestigioso Dawata del passato di nome Aoun da cui l’oasi prende il nome.
All’ombra di una tettoia ritroviamo Haroun e Sallah, poco più avanti c’è un gruppo di motociclisti italiani che ha organizzato una specie di gara finalizzata al raggiungimento della vetta della duna più alta. Ci guardiamo un po’ di evoluzioni dei cenauri e poi ci rimettiamo in marcia alla volta del terzo lago l’Umm al-Maa. Lasciato alle spalle Gebraoun iniziamo a risalire una grande dorsale sabbiosa, avanziamo veloci sulle sabbie ripide, lo stile di Sallah è completamente diverso da quello di Yaya, se Yaya è un silenzioso filosofo delle sabbie, lui è soprattutto un pilota di fuoristrada che si diverte a far sfoggio della sua notevole abilità fra salite e discese vertiginose. Fra grandi panorami e sobbalzi arriviamo al terzo lago, lungo e stretto si presenta bellissimo e affascinante, il più bello di quelli visti finora, circondato da una stretta striscia di palme che si specchiano nelle sue acque immobili. Il fascino è enormemente accresciuto dal fatto che non c’è nessun altro, i tour del deserto ripetono tutti lo stesso schema e a quest’ora del pomeriggio si fermano tutti al Gebraoun per passare la notte, qui verrano domattina per poi rientrare a Germa. Anche fotograficamente è un posto favoloso, è proprio la classica oasi che uno si immagina di trovare nel deserto. Ancora un breve tratto per raggiungere il quarto e ultimo lago, il Mandara, anche qui c’è un villaggio abbandonato che ha avuto la stessa sorte di Gebraoun. Qui l’abbassamento della falda freatica ha avuto conseguenze drastiche prosciugando completamente il bacino che ora si presenta come una grande crosta di sale. La risorsa principale del villaggio di Mandara era proprio il commercio del sale che veniva raccolto grazie a un accorto lavoro di regimazione e manutenzione delle acque. L’aspetto del lago è quello di una grande pozza di fango prosciugata ma camminandoci sopra ci si rende conto che si tratta di grandi lastre di sale che si muovono e scricchiolano proprio come un ghiacciaio in movimento. Sotto le lastre c’è ancora acqua ma il destino di questo lago è ormai inesorabilmente segnato, le grandi dune circostanti stanno avanzando sempre di più e probabilmente fra qualche decina di anni sarà soltanto un ricordo.
L’ombra della grande duna sta scendendo sul lago e dalle sponde ci chiamano per ripartire. Ancora un’ora fra le dune e poi ritorniamo nella grande valle già percorsa stamani che ci riporta a Germa, sosta per aumentare la pressione delle gomme e poi imbocchiamo la strada asfaltata in direzione di Ubari dove all’officina meccanica ritroviamo Yaya che ha sostituito lo spingi disco della frizione, ci diamo appuntamento per stasera e poi andiamo al campeggio dove passeremo la notte.

   

Marted?¨ 18 novembre 2008 da Murzuq a Ubari ‚Äì Libia

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La Città dei Garamanti
Durante la notte ha fatto tanto freddo, la più fredda da quando siamo nel deserto e stamattina la sabbia è gelida, intorno alla tenda ci sono tante impronte, quelle conosciute dei topi e del fenek e altre più grandi che Haroun mi conferma essere dello sciacallo. È una giornata bellissima e in lontananza le dune più alte iniziano a colorarsi con i primi raggi del sole, saliamo verso l’alto per dare l’ultimo saluto al Murzuq. Nella notte il vento ha disegnato nuove trame di sabbia le nostre impronte di ieri sera sono ancora perfette sottovento mentre sul lato esposto sono scomparse e al loro posto ci sono tante piccole ondulazioni, con il primo sole il Murzuq si colora di rosso mostrandosi in tutta la sua imponenza, purtroppo il trecento è definitivamente ko l’obbiettivo non funziona più probabilmente a causa della polvere. Appena tornati al campo si smonta la tenda e si parte, perdiamo quota avanzando verso nord attraversando gole di sabbia dalla forma indefinita, incontriamo una grande duna rossa e poi un mare giallo e liscio, poi ancora dune, se ne risale una piccola catena per poi scendere verso quella che viene chiamata la duna bianca che in realtà è un grande accumulo di gesso ricordo di un antico lago da tempo scomparso. È una distesa di gesso secco e fratturato, somiglia a una gigantesca pulitura di paiola dove è stato impastato il cemento bianco, anche la sabbia qui intorno è ricca di gesso, è un po’ bianca e un po’ grigia ed è molto pesante. Ci spostiamo sul margine esterno delle dune e usciamo dal Murzuq tornando nel mare di pietra nera ogni tanto interrotto da zone terrose dove, oltre ai “cocomerini”, si sviluppa una piccola savana di acacie. Avanziamo su questa terra piatta e polverosa con la sagoma infinita del Murzuq sempre sullo sfondo e poi ritroviamo l’oceano di pietra la cui monotonia è interrotta solo ogni tanto dai segnali messi dai ricercatori di petrolio, in realtà questa grande pianura è la montagna nera del Msak Settafet. Improvvisa davanti a noi si presenta un’apertura nella montagna e dall’alto si domina la striscia verde dell’oasi di Germa e il suo abitato con sullo sfondo il maestoso deserto di Ubari. Siamo tornati nel Wadi Al-Hayat che avevamo già attraversato arrivando da Sebha e da qui l’infinita distesa di roccia ritorna ad essere una montagna nera. Passiamo un controllo di polizia ed entriamo a Germa, è forte la sensazione di essere in un villaggio di confine, non tanto come nazione ma proprio come territorio abitato dall’uomo. Ci fermiamo a fare un po’ di spesa, come sempre in Libia i prodotti d’importazione abbondano, ci sono le banane dell’Ecuador, le mele della Val Venosta e la Nutella. Tutto è molto tranquillo e silenzioso, la maggior parte degli uomini veste alla maniera tradizionale Tuareg con il turbante che copre tutto il volto, donne in giro non ce ne sono ed è ci sono i bimbi che guidano le auto. L’oasi che da lontano sembrava grande, in relatà è piuttosto strimizzita e al suo interno c’è tanto secco. Attraversata l’oasi ci fermiamo ai margini del deserto di Ubari, una pianura arida con qualche acacia e tanti cumuli di terra che con l’effetto miraggio assomilgliano a tante piccole isole e poi ci spostiamo verso le rovine di Germa Antica. Dell’antico insediamento non rimane quasi nulla, solo qualche perimetro di mura, i resti di una grande villa di un ricco mercante romano, le tracce di un tempio dedicato a una divinità egizia e un po’ di rovine di architetture risalenti al periodo romano. Ma la parte più affascinante è quella della successiva fortezza berbera edificata con mura di fango, che il tempo ha sgretolato e reso spettrale, ci sono i resti di diversi torrioni di avvistamento e di diverse abitazioni più recenti alcune delle quali sono state restaurate e altre tracce relativamente recenti perché comunque l’insediamento è stato abitato fino a pochi decenni fa.
Germa era la capitale del regno dei Garamanti i mitici condottieri delle quadrighe del deserto che abbiamo visto raffigurate nell’Acacus, popolazione che il tempo ha disperso ma di cui i Tuareg si riconoscono eredi. I Garamanti sono una delle civiltà antiche più misteriose ed affascinanti, su di loro non sono mai stati fatti studi approfonditi e gli scritti lasciatici dagli storici dell’antichità sono pochi, si sa che erano di pelle chiara probabilmente di origine mediorientale e si presume che vivessero già in insediamenti stabili da prima del mille avanti cristo. Il primo a parlarne è Erodoto nel 500 a.c. che ci racconta che coltivavano con l’aratro cospargendo di terra fertile il terreno salato, che allevavano bovini con le corna così grandi che erano costretti a pascolare a ritroso e che a bordo di carri trainati da quattro cavalli cacciavano i veloci “Etiopi trogloditi” del deserto per renderli schiavi. I Garamanti erano rinomati nell’antichità come eccellenti allevatori di cavalli e abili carovanieri specializzati nel commerciare su lunghe distanze , come predoni e venditori di schiavi, ma la loro prosperità era legata soprattutto alla grande abilità nel raccogliere e convogliare le acque fossili del sottosuolo che permise loro di sviluppare una fiorente agricoltura, con grande maestria costruirono centinaia di canali sotterranei chiamati in arabo “Foggara” per portare  l'acqua nei campi, alcuni dei quali vengono usati ancora oggi. Questa grande capacità di ingegneria idrica decretò il loro dominio sul territorio ma fu anche causa del loro declino perché le riserve di acque fossili piano piano andarono esaurendosi e la falda si abbassò progressivamente fino a prosciugarsi. Agricoltori e predoni i Garamanti però non conoscevano l’uso della metallurgia, mancanza a cui supplivano commerciando con gli empori della costa mediterranea, chissà se nell’antica Garama è mai arrivata una spada forgiata con l’Oligisto Elbano e se all’Elba sia mai arivato un gioiello adornato con l’amazzonite, una preziosa pietra dura conosciuta anche come smeraldo garamantico, che i Garamanti estraevano nei monti Tibesti. I Garamanti grazie al loro isolamento geografico non subirono mai aggressioni da punici e greci, mantenendo integre le loro usanze che pare fossero assai originali, le donne che erano le padrone delle abitazioni erano un bene della comunità e il loro prestigio aumentava con il numero degli amanti; i bimbi erano proprietà della madre fino all’adolescenza, quando l'assemblea di saggi ne stabiliva la paternità in base alla somiglianza fisica, la donna godeva di elevato prestigio e vigeva il matriarcato, come oggi fra i  Tuareg. Una ferrea regola impediva che gli anziani gravassero sulla collettività e arrivati a sessanta anni i Garamanti si dovevano uccidere strangolandosi con un budello di bue.
Il loro dominio su Garama e i suoi territori finì intorno al settanta dopo cristo per mano dei Romani che stufi delle loro azioni di razzia sulla costa e a seguito di alleanze militari con gruppi berberi nemici, attaccarono e sottomisero Germa. La città e la sua gente si romanizzarono ma rimasero comunque sempre legate alle loro tradizioni culturali e religiose e mantennero il proprio re. I Garamanti avevano culti religiosi simili a quelli egizi e i loro re venivano sepolti in piccole piramidi (ne abbiamo viste alcune restaurate, che in realtà non hanno un gran fascino, più che restaurate sono ricostruite, poco prima di entrare a Germa).
Garama diventa una città Romana anche architettonicamente ma il regno dei Garamanti continua per un paio di secoli a governare un territorio assai ampio, poi come abbiamo detto la civiltà urbana fu sconfitta della mancanza di acqua e la maggior parte dei Garamanti tornaronono alla vita nomade abbandonando l’agricoltura e specializzandosi nella pastorizia e nel saccheggio.
Il regno e Garama comunque rimasero e nel 569 il re dei Garamanti firmò un trattato di pace con i Bizantini accettando anche il culto cristiano. Storicamente il regno dei Garamanti si chiude con l’avvento dell’islam nel 668, documenti arabi ci dicono che il re dei Garamanti venne portato via in catene dai maomettani e tutta la regione abbracciò l’Islam. L’attività carovaniera rimase comunque prerogativa della gente del deserto che presero il nome di Tuareg, che ancora oggi sono quello che ci rimane di questi indomiti guerrieri e abili idraulici del passato.
Dopo un paio d’ore ci ritroviamo con Yaya e ripartiamo alla volta del deserto di Ubari, anche questo è un mare infinito di sabbia che si estende per centinaia di chilometri verso nord ovest ricollegandosi al Grande Erg algerino. Nel primo tratto ci sono tante tracce di fuoristrada anche perché questo è un deserto molto più battuto rispetto al Murzuq e qui vicino ci sono i famosi laghi Ubari che andremo a visitare domani, ma poi spostandosi lateralmente si ritrova una zona più incontaminata dove montiamo il campo e andiamo a fare una camminata. Qui le dune non sono enormi come quelle del Murzuq, ma hanno forme più morbide e rotondeggianti e i colori sono meno rosati, fra due campi di dune si incontra una grande radura con qualche cespuglio dove il vento ha modellato tante minuscole dune disegnando un’icredibile trama di disegni geometrici che acquistano profondità e magia nel gioco di luce e ombre del tardo pomeriggio. Dopo il tramonto rientriamo al campo portando un po’ di legna per il fuoco, qui il freddo si sente ancora di più per via dell’umidità dovuta  alla presenza dei laghi. 
   

La Mamma di Gaza (Egitto domenica 11 gennaio 2009)

 

Niente è più tremendo
di un grido afono,
quando il dolore
è così grande che
si inghiotte tutto
anche il suono

è un male assordante
che ti urla da dentro
e non te ne puoi liberare
un soffrire indicibile
che ti stritola lo stomaco
e ti asciuga da dentro
anche l’ultima lacrima 

   

Luned?¨ 17 novembre 2008 Murzuq e Wadi Methkandoush ‚Äì Libia

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La duna più alta
Le prime ore della mattina le passiamo vagando fra le dune del Murzuq, a un certo punto ritrovo un paesaggio familiare, il vento ha plasmato le sabbie disegnando il lato nord dell’Elba. Col medesimo orientamento ovest-est mi ritrovo al Ferrale, sotto di me la collina del Poggio, poi il Viticcio, l’Enfola e in lontananza Capo Vita, al posto del mare un lago di sabbia e dietro di me una duna più alta a mo’ di Capanne. Il deserto richiede il silenzio anche il rumore dello scatto della macchina fotografica disturba, sempre di più mi ricorda il mare, smisurato, potente, ti concede di stendere liberamente i pensieri e ti quieta i tormenti. È ammaliante nella sua immensità ma anche nel dettaglio delle piccole sfere policrome di quarzo che insieme alle loro ombre ruzzolano sospinte dal vento, perché come il mare anche il deserto non si ferma mai. 
Partenza a tuffo e subito la sorpresa di una duna bianca e poi si ritorna nella pianura rossa della terra bruciata con zucche e sterpaglie per poi rientrare nello sterile deserto di pietra nera del Msak Settafet per raggiungere lo Wadi Methkandoush. Il percorso è sempre più impegnativo per via delle pietre taglienti, è una zona senza piste e priva di riferimenti. Un altro pozzo di petrolio e poco più avanti, in una zona meno impervia, una pista di atterraggio delimitata da grossi pneumatici di ruspa, è l’aviosuperficie del campo petrolifero e poco più avanti il container dove alloggiano i ricercatori asiatici, il paesaggio alieno e le antenne paraboliche intorno fanno molto “base luna”. Ancora deserto nero, si avanza lenti e singhiozzanti nell’apocalittico lastriticato sconnesso dell’oceano di pietra dove tutto sembra evaporare, nei pressi del Wadi Methkandoush troviamo alcune tombe che Yaya dice risalire a tempi remoti, sui cumuli ci sono dei “sassi ritti” tre per la sepoltura della donna e due per quella dell’uomo. E poi il grande fiume secco, il famoso Wadi Methkandoush, dove si trova la più grande “collezione” di arte rupestre del mondo. L’arrivo è un po’spoetizzante ci sono alcune bancarelle con l’artigianato tuareg e qualche fuoristrada parcheggiato, con le dovute proporzioni un po’ come all’Isola dopo una giornata selvatica quando sbuchi dalla macchia e ti trovi davanti alla villa di Napoleone. “Arabi sempre di più” Yaya e Haroun non ne possono più di queste guide tripolitane che sempre in maggior numero accompagnano turisti, io li capisco bene anche a me si torcevano le budelle a senti’ parla’ le guide continentali de l’Isola e degli Elbani, i pallidi turisti anglofoni spariscono velocemente spaventati dalle mosche e dal caldo e noi scendiamo a piedi nel grande Wadi. Il letto del fiume è sabbioso e camminando si alza la polvere, ma quando piove si riempie velocemente come testimoniano le sterpaglie incastrate nei rami delle acacie a un’altezza di più di tre metri dal fondo del Wadi. I graffiti che si trovano incisi nella scura arenaria sono tra i più antichi del pianeta, dovrebbero risalire a più di dodicimila anni fa, sono tantissimi e molto belli, e ci raccontano di un Sahara abitato da bufali, giraffe, elefanti, struzzi e rinoceronti, e ancora ippopotami, asini, antilopi, iene e sciacalli. Sono molto grandi e perfetti sembra impossibile che siano risalenti a un’epoca così arcaica, ce ne sono centinaia e si sviluppano su un fronte alto una cinquantina di metri per diversi chilometri, ci sono anche delle incisioni di cerchi decorati, uno scorpione gigante, un uomo dalla testa spropositata e due uomini gatto che forse erano antiche divinità. È un luogo favoloso ma bisogna fare attenzione ci sono continue tracce di topi e sicuramente ci sono tanti serpenti. Dopo un paio d’ore torniamo al punto d’ingresso del Wadi  Methkandoush, andiamo a vedere altri grafitti al Wadi Ingalgan “dove arabi no sa” Yaya mi dice che di incisioni rupestri ce ne sono migliaia, decine di chilometri per ogni Wadi e me ne elenca una serie lunghissima “uhihhh !! Wadi TatakanehtWady ….” e che quelli del Methkandoush sono i più famosi solo perché facili da raggiungere dalla pista di Germa. La valle dell’Ingalgan sembra il clone della precedente, anche qui i graffiti sono bellissimi, ci sono tantissimi elefanti e giraffe, e anche un camaleonte che lancia la lingua. Mentre si mangia sotto un acacia ci fa visita il solito serpente velenoso, questo è più grande e aggressivo rispetto a quello di ieri e ci lascia malvolentieri la “piazzola” ombreggiata.
Torniamo verso il Murzuq, mentre si attraversa la terra bruciata si vedono le scie polverose di altre macchine e Yaya e Haroun si interrogano su chi sono e che fanno, come in mare quando navighi a largo e vedi le navi in lontananza e cerchi di capire chi è e che rotta fa. Il tempo comincia a incupirsi mentre ritroviamo il Murzuq e il sole filtrato dalle nuvole glassa con una patina di grigio lucido le prime dune. Entriamo nel campo di dune, il riflesso rende tutto ovattato e si perde la percezione dei rilievi, come sulla neve quando c’è nebbia. Ancora fish fash che inesorabile ci respinge e ci fa cercare un altro varco, ci addentriamo ancora in profondità, ma ci blocchiamo in un lago di fish fash. Con Serena vado a fare un giro di un paio d’ore in questo universo rosato, un paesaggio infinito e indefinito, colori cangianti ammorbiditi e incipriati dalla velatura del cielo.
ultimo tratto in macchina entrando ancora più all’interno e poi la sosta definitiva al cospetto di  dune ciclopiche, le più grandi di quelle viste fino ad ora. Fa freddo e il vento spazza la sabbia, saliamo verso al duna più alta, non so dire quanto ma è una montagna, il lato esposto al vento è duro e compatto e i cristalli sferici di quarzo ci camminano sopra veloci, poi raggiunto il culmine si tuffano a ridosso e lì si fermano gli uni su gli altri formando uno strato di sabbia morbida che osservata in dettaglio sembra un accumulo di perle colorate. La salita è esaltante con il Murzuq che piano piano si svela in tutta la sua immensità, non se ne vede la fine ma si estende per oltre quattrocento chilometri. All’inbrunire siamo sulla la duna più alta, la notte a est è già scesa mentre a ponente dal tavoliere nero del Msak Settafet si stagliano nel cielo plumbeo le fiamme dei pozzi petroliferi dei sauros coreani. Il vento gelido leviga le dune e spinge i detriti nei crateri di sabbia formatisi sottovento, arriviamo al campo che è notte fonda, è la prima notte nel deserto veramente buia, Ayor e Itran (la luna e le stelle) sono coperte dalle nuvole, è una serata gelida e nonostante il fuoco acceso ogni tanto viene da fare una corsetta. Il Murzuq è uno di quei luoghi speciali in cui fra qualche anno vorrei tornare, sono rimasto stregato da questo universo di sabbia e mentre monto la tenda benedico il giorno in cui ho deciso di partire per questo viaggio
 

   

Domenica 16 novembre 2008 Wan Casa e Murzuq – Libia

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Smisurato Murzuq

Mi sveglio nel freddo asciutto della duna, nel cielo pallido di Ponente la luna galleggia come una medusa di ghiaccio. Stamani la potenza vermiglia dell’alba è smorzata da un tendaggio di nuvole bigotte e irradia insolitamente pallida la smisurata distesa di sinuosità accavallate.
Nella luce ovattata di questa mattina il maremoto statico di Wan Casa ha un aspetto gassoso e onirico, ma il sudore che mi scalda mentre risalgo la sabbia gelida e compatta delle dune, mi conferma che è tutto vero.
La macchina fatica un po’ a mettersi in moto, ma poi si decide e si va in direzione dell’Idhean Murzuq, mitico deserto dove ci sono le dune più alte del mondo.
Come predetto da Yaya le nuvole si diradano e il sole torna padrone di tutto, la macchina fotografica è un po’ di giorni che fa le bizze e la devo usare anche con parsimonia perché mi è rimasta solo mezza batteria carica. Si avanza nella pianura di sabbia rossastra a cui piano piano si sta sostituendo un deserto di roccia nera, dopo un paio d’ore ci fermiamo nei pressi di un panettone di roccia scura che esce dalla pianura su cui si può salire facilmente. E’ un paesaggio familiare ricorda le miniere del Riese in particolare quella del Calendozio, i colori e le forme sono simili solo che è tutto enormemente più vasto. Mentre si osserva in lontananza le sagome del Msak Settafet, arriva un fuoristrada militare per il solito controllo. Riprendiamo il percorso in un paesaggio monotono dove niente pare muoversi, solo la fiamma di un pozzo di petrolio in lontananza, anche questa zona della Libia è ricca di gas e giacimenti petroliferi e i ricercatori di petrolio si stanno spingendo sempre più verso queste terre di confine, in questa zona ci dicono che stanno perforando delle compagnie coreane. Gradualmente il deserto sta diventando una sterminata distesa di arroventate lastre nere che si interrompe soltanto con i ciottoli chiari del letto seccho degli wadi, questo è il wadi Ina Ramas. In passato questi erano fiumi nei pressi dei quali viveva l’uomo e qui gli antichi abitanti hanno lasciato delle importanti tracce, infatti salendo sulla grande roccia spianata sopra lo wadi troviamo delle sepolture e dei graffiti che riproducono gazzelle, antilopi, sciacalli, giraffe e grandi bovini, che risalgono a novemila anni fa. Questi blocchi rocciosi, che a me viene di chiamare isole, sono gli unici approdi in questa desolazione piatta che ti concedono un po’ d’ombra e dove si concentra la vita, poca cosa rispetto ai nostri parametri, un po’ di sterpaglia e qualche acacia strimizzita, le immancabili mosche e un po’ di topi e serpenti. Ci fermiamo all’ombra di un cespuglio dove fra i rami fa capolino un serpente perfettamente mimetizzato, è uno di quelli che se ti morde non ti da scampo, ma appena avverte il pericolo velocemente si nasconde fra la sabbia e i rami. È una convivenza scomoda ma inevitabile, il serpente e l’uomo si temono, si eviterebbero volentieri a vicenda ma sono obbligati a condividere lo stesso spazio, entrambi senza panico ma sempre un po’ guardinghi. Ripartiamo in direzione del Murzuq, si avanza lentamente nella distesa sempre più calda di sassi neri, non ci sono punti di riferimento solo ogni tanto qualche lastra messa per ritto e le dune giganti del Murzuq all’orizzonte, è un posto estremo in cui la vita sembra totalmente assente, qui prima dell’avvento dei fuoristrada nessuno ci si addentrava, troppo caldo e sterile per essere attraversato a piedi o con i cammelli. Avvicinandosi alle dune il grande lastricato scuro lascia il posto a una pianura di terra rossastra dove ci sono centinaia di piante di zucca i cui frutti che assomigliano a dei piccoli cocomeri, sono prelibatezze per le gazzelle ma velenosi per l’uomo. Il Murzuq è una striscia lunghissima di dune rosse, la roccia è diventata terra bruciata e ora possiamo andare più veloci, fra il riverbero e i miraggi le dune si avvicinano diventando policrome con cumuli bianchi e grigi davanti alle gigantesche dune gialle e rosate. I tanti colori sono un’illusione ottica, man mano che si avanza tra le tante piccole dune il colore diventa uniforme e poi finalmente ci troviamo davanti il muro delle grandi dune che immense sembrano avanzare e inghiottire tutto. Risalendo tra i cordoni di sabbia si prende rapidamente quota, il panorama sotto di noi prende forma e si ha la percezione della strada che abbiamo percorso, ma davanti le dune sono sempre più grandi e sempre di più, ci fermiamo sotto un muro di sabbia, ancora una volta devo resettare i parametri, le gigantesche dune di Wan Casa non reggono il confronto. Inizio a salire, questa è veramente una catena di montagne di sabbia, la macchina di Yaya e Haroun diventa un puntolino e poi scompare. Per arrivare sopra a quella che sembra la duna più alta ci vuole più di un’ora e il paesaggio che mi si apre davanti non ha aggettivi. All’interno di questo primo cordone si apre una depressione, come un grande mare su cui convergono gigantesche lingue di sabbia, è come essere affacciato su un ghiacciaio senza ghiaccio o su un arcipelago senza mare eppure tutta questa immensità e complessità è formata da minuscoli granellini di sabbia. È molto difficile descrivere il deserto, questa è una dimensione aliena ai parametri umani, uno smisurato vuoto di forme complesse avvolto nel silenzio, dove i pensieri sembrano distendersi su spartiti sconosciuti e ogni cosa che aggiungi sembra allo stesso tempo troppo e poco. Sotto di me la duna si tuffa quasi verticale dentro un cratere, scendo dalle pareti compatte scivolando dentro l’imbuto che sembra convogliare al suo interno tutto quello che passa, una trappola di inaudita bellezza, la sabbia è così compatta che risalendo sembra di camminare sul ghiaccio. È un paesaggio che fa perdere la cognizione del tempo, le ombre si stanno allungando in gigantesche frecce scure fra le infinite valli e il cielo diventato blu rende tutto definito e perfetto. Inizia una discesa fantastica, nella sabbia compatta sembra di volare, c’è come un effetto volano e le gambe sembrano fuggire, la sabbia è così dura che i piedi fanno male, poi improvviso un filone di sabbia morbida che mi inghiotte e ammortizza un gran rufolone. È talmente divertente che rido da solo come un ebete, mentre riprendo la corsa penso a quanto si divertirebbero i bimbi in queste infinite discese. Si riparte, ritorniamo nelle terre bruciate risalendo ancora per qualche decina di chilometri in direzione nord, una sosta per far prendere ad Haroun un po’ di ocra rossa e poi attraversiamo una distesa chilometrica di zucche cocomero che riempiono il letto del wadi Ina Hammam. Ormai prossimi al tramonto ripieghiamo verso il Murzuq, ancora una volta entriamo veloci nel campo di piccole dune e poi iniziamo a risalire “la cordigliera” di sabbia, si sale spediti nella sabbia compatta ma poi “uhuhuh fish fash” cominciamo un’avanzata sinuosa nella sabbia soffice scendendo e risalendo un paio di volte e la corsa finisce poco dopo. Sgonfiamo le gomme e si sale ancora un po’ e poi dopo un discesone ci fermiamo per la notte dentro una scenografica duna a semicerchio aperta verso est. C’è ancora il tempo di salire sulla lama rosata di una duna piramide per ammirare il Murzuq sempre più inghiottito dalle ombre, il sole tramonta dietro il Msak Settafet e la temperatura cala di botto. E ritorna preziosa la legna secca raccolta nel wadi per passare un’altra bella serata a parlare intorno al fuoco.

   

Sabato 15 novembre 2008 Acacus e Wan Casa – Libia

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Il cacciucco del deserto
Stamani ci sono una serie di grandi impronte di cammello vicino alla tenda, sono passati da qui  prima dell’alba provenienti dalla zona del grande arco. Dopo l’immancabile rito del the si parte
risalendo l’Acacus da un altro wady verso nord, in un tratto di strada ciottolosa troviamo tanti alberi con le zucche, ancora pitture rupestri e poi ritornati sul livello superiore, un arco piccolo ma molto scenografico. Intorno ci sono i resti di un'altra foresta pietrificata con un tronco cavo così grande che ci si può passare in mezzo. Ora il deserto è nuovamente sabbioso siamo dentro una distesa gialla dalla quale sbucano come funghi decine di protuberanze rocciose delle forme più disparate, la sabbia aumenta sempre di più, le dune salgono alte e a volte si congiungono sui picchi. Salgo su una duna alta un centinaio di metri che diventa sempre più ripida tanto che saltando dal culmine sembra di volare, un ultimo tuffo e poi si riparte verso il confine orientale dell’Acacus. Ci fermiamo a un pozzo dove facciamo scorta di acqua che è portata in superficie con una pompa a scoppio dalla quale esce fresca ed è buonissima. Questo è il pozzo più grande della zona ed è controllato oltre che dal guardiano anche da un piccolo presidio militare, i pozzi sono da sempre la risorsa più importante di queste terre desertiche e spesso i contrasti che sfociavano in battaglie fra le tribù erano a causa della preziosa acqua, riempiamo tutte le bottiglie vuote che abbiamo, una rinfrescata e si riparte per Wantikeri, una grande pianura di roccia rivestita di sabbia che io chiamo la terra di mezzo, che divide l’Acacus da Wan Casa. Dopo qualche decina di chilometri ci fermiamo in una zona dove affiorano delle lastre di roccia per cercare graffiti, la cosa più bella è un’iguana incisa nella roccia di cui Yaya va particolarmente fiero e dice che nessuna guida la conosce. Ancora qualche chilometro e ci fermiamo a fianco di “un’isola” nera, intorno c’è una depressione dove quando piove si forma un lago, l’ultima volta è successo tre anni fa, il tetto  della roccia è liscio e piatto,  siamo circondati dalle ultime sabbie gialle dell’Acacus ma in lontananza si vedono già le grandi dune rosate di Wan Casa. Mentre stiamo per ripartire arriva veloce un fuoristrada militare, i soldati chiedono informazioni su di noi poi ci salutano e ripartono furtivi. Avanziamo ancora un po’ e ci si ferma in una zona dove ci dovrebbero essere punte di frecce preistoriche e dove facciamo conoscenza con la fish fash la sabbia soffice portata dal vento che ci fa insabbiare obbligandoci a usare le slitte per ripartire e ci nasconde le frecce. Poco più avanti incontriamo una serie di piccole dune dove scavando sotto la sabbia rossastra che ricopre la superficie se ne trova un’altra molto più sottile di un colore molto chiaro tra il bianco il grigio e il celestino. Yaya dice che secondo le leggende tuareg qui un tempo esisteva una grande città e secondo lui è ancora qui sommersa dalle sabbie, mentre Haroun si ferma per raccogliere un po’ di sabbia colorata per decorare la sua casa, mi diverto a disegnare l’Isola d’Elba. Le dune di Wan Casa si avvicinano e diventano sempre più grandi, è una vera e propria catena montuosa di sabbia, inizia la grande duna, ci entriamo con un cammino sinuoso, dune gialle, ocra, rosse e poi pianure a volte di sabbia soffice, alle volte di roccia nera e poi le vere e proprie montagne di sabbia. Saliamo finché la fish fash non ci blocca, questo sarà il campo di stanotte. Con Serena iniziamo a risalire verso la lama sottile delle dune più alte, è un deserto totalmente diverso da quello dell’Acacus le cui vette si vedono sullo sfondo, qui c’è solo sabbia una distesa infinita di montagne colorate che si accavallano una sull’altra. Entra vento e il cielo si colora di rosa, la sabbia si sposta velocemente, dai picchi delle dune i granelli sono sparati dal vento con violenza e la sabbia diventa compatta come la roccia, mi sento come un insetto davanti a una sabbiatrice, ma basta abbassarsi di qualche metro al ridosso della grande duna per vedere la sabbia che si deposita creando uno strato soffice. Così camminano le dune, inesorabili e invincibili cancellando ogni cosa nel loro avanzare. Ritorniamo al campo che è buio, il fuoco in lontananza ci indica la via, Yaya sta preparando il Taajeelah, il pane Tuareg, nella sabbia arroventata si mette l’impasto e poi si copre, dopo una quindicina di minuti si gira e poi alla fine si scuote dalla sabbia e si spezzetta per farci la tojila, una specie di cacciucco del deserto  che si fa intingendo il pane dentro una zuppa a base di quello che c’è. Ormai s’è creato un clima di amicizia e si passa la serata a raccontare avventure Sahariane e Elbane  riscontrando tante affinità nel nostro modo di intendere il mestiere di guida. Yaya mi fa schianta’ dalle risate quando fa il verso ai milanesi che vengono nel deserto e poi si lamentano perché c’è la sabbia e il vento “ uhuuh sabbia!!! è tutto sabbia” e poi mi dice con eccezionale parlata onomatopeica “hiiiih ma guando vengono a Elba fanno anche aggua!!! Aggua!!!! Sembre Aggua hiiih”. 

   

Venerd?¨ 14 novembre 2008 Acacus ‚Äì Libia

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Acacus sinfonico
Mi alzo mentre tramonta la luna piena, continuiamo il nostro girovagare per l’Acacus, nel wadi incontriamo un gruppone di fuoristrada, sono sei sette macchine e portano un gruppo di una quindicina di giapponesi, le guide e i cucinieri sono tutti di Ubari stanno chiudendo il loro giro di tre giorni, “mangia maccaroni” Haroun li chiama coreani mangia maccaroni e dice che quando vengono c’è tanto lavoro perché mangiano sempre, maccaroni a colazione a pranzo e a cena e poi sempre merende. Continuiamo a vedere pitture bellissime e sempre più estese con scene molto complesse, battaglie, scene di caccia, dromedari che trasportano donne dentro baldacchini e animali strani come dinosauri spinosi oppure uomini dalle mani giganti e scene di battaglie con carri, archi e lance. Entriamo in un lago di sabbia dorata con grandi dune che si appoggiano alle pareti delle montagne di basalto nero, salire sulle dune è sempre bellissimo e poi basta elevarsi di qualche decina di metri e il paesaggio cambia completamente. Troviamo un altro arco gigante formato da tre massicce colonne che salgono su come tronchi di alberi secolari su cui poggia un tetto di roccia, sembra una struttura creata dall’uomo e mi ricorda la sala Ipostila del tempio di Karnak. Davanti all’arco c’è un acacia e poi dei cespugli con delle belle fioriture gialle, le pareti di queste rocce sono striate di colori che vanno dal bianco al viola passando per tutte le tonalità di colore. Ci sono dei graffiti che ci riportano nella savana sahariana, con rinoceronti e grandi elefanti incisi nelle pareti. Entriamo in un wadi di rocce nere dove fa un gran caldo, nelle fessure della montagna incontriamo pitture sempre più belle ed articolate, queste sono anche protette con una recinzione di foglie di palma per evitare che le persone tocchino queste preziosissime opere d’arte che riproducono scene che sembrano di una cerimonia con lavaggi di capelli, vestizioni e figure che danzano, ci sono anche delle complesse scene di caccia e di battaglia e di mandrie assaltate dai lupi. I dipinti si sviluppano lungo le pareti di roccia come pellicole di un film, ci sono anche delle figure misteriose, forse degli stregoni mascherati o delle divinità. Ai margini del sito più grande un cumulo di utensili in pietra e resti di ceramica e un cartello che ci ricorda gli studi fatti dal prof. Mori per conto dell’Università della Sapienza di Roma. Avanzando nel wadi incontriamo anche un pastore fasciato nel suo grande turbante bianco che lascia vedere solo gli occhi e si sta spostando avvicinandosi a un piccolo agglomerato di capanne. E poi ancora pitture rupestri, sempre diverse ci sono degli stranissimi uomini volanti con ali di drago e ancora tante scene di branchi di lupi che attaccano mufloni, ma le figure da un punto di vista estetico per me più belle sono le giraffe che sono disegnate di bianco e puntinate di rosso e danno l’impressione di muoversi dentro la roccia. Ci fermiamo sotto una parete perfettamente verticale dove le rarissime volte che piove (qui passano anche anni senza vedere una goccia d’acqua) si forma una piccola cascata. A un certo punto il terreno comincia a vibrare e si sente un rumore sordo di sottofondo, sembra un convoglio militare e Yaya me lo conferma, siamo comunque in una zona di frontiera abitata da tribù nomadi da sempre refrattarie a regole e confini stabiliti lontani da qui. All’ombra di uno sperone ritroviamo il gruppo con i giapponesi che stanno mangiando in una tavolata allestita per loro. Haroun ci presenta al gruppo dicendo che non siamo turisti ma amici, siamo invitati dalle guide a prendere il the con loro e questo ci onora tantissimo. In effetti guardando in lontananza i giapponesi schermati da pantaloni lunghi, guanti, occhiali da sole, cappelli e scarponcini, che mangiano seduti al tavolo, mi sento molto più a mio agio qui, scalzo e sdraiato sulla sabbia intorno al focolare che scalda il the. C’è anche un ragazzo che è venuto da Ghat con un paio di dromedari per far fare un giretto e qualche foto ai turisti. E fra le risate generali racconto per l’ennesima volta della grande duna di Douz in Tunisia e dei finti tuareg. Mentre scrivo mi rendo conto che è tutto un bello bellissimo che forse per chi legge risulterà anche noioso ed enfatico, ma l’Acacus è una meraviglia continua, ora siamo dentro un paesaggio primordiale è tutto drammaticamente evocativo, le montagne e i picchi vulcanici intorno a noi sembrano ancora attivi, tanto è il riverbero, e evocano scenari apocalittici, se questo deserto fosse una musica sarebbe una sinfonia di Mahler o di Wagner. Troviamo una serie di dipinti che sembrano uomini venuto dallo spazio con grandi teste e mani enormi, poi mentre ci spostiamo verso l’estremo margine sud dell’Acacus come un miraggio dal riverbero spunta un bimbo che sembra venire dal niente e andare verso il nulla, ha lasciato gli animali al pascolo e sta tornando verso casa, timido e sorridente scambia qualche frase con Yaya e poi continua il suo cammino sicuro in questa terra estrema. E mi fa tornare in mente una gita scolastica di ragazzini  poco più grandi di lui che portai a camminare nella zona di Moncione poco prima di partire, avevano paura a camminare nel viottolo e si spaventavano alla vista delle capre di Evangelista, mi risulta impietoso per i timorosi pargoli padani il confronto con il fiero bimbo Tuareg. La pista cammina in un largo wadi dove le dune si appoggiano alle pareti nere della montagna creando degli spettacolari scivoli alti centinaia di metri, rincontriamo il ragazzo dei cammelli che sta tornando verso Ghat, stanotte bivaccherà nel deserto e domani sera arriverà a casa, è un’immagine evocativa del tempo passato e anche del fatto che comunque questo turismo permette di vedere ancora uomini e dromedari  in questo scenario meraviglioso. Saliamo su una duna per ammirare uno degli spettacoli di roccia più mastodontici di Acacus, è questo il famoso grande arco, la forma armonica e il fatto che sia dentro questo enorme scenario non ne fa percepire a pieno le dimensioni, ma è una montagna forata alta quasi duecento metri, per dargli una dimensione Elbana è come se la base fosse nella piana di Campo e la sommità a Facciatoia. La meraviglia e l’imponenza di questo scenario è rovinato dalle tante ruotate dei fuoristrada, a quest’ora però non c’è nessuno e la magia del tramonto non è alterata da nessun rumore. Una ripida duna si appoggia alla parete di fianco al grande arco e ci permette di salire fino a oltre la sommità, sulla vetta piatta di una grande montagna nera che ci regala un paesaggio incomparabile e alieno in cui l’attenzione si focalizza in una depressione dal fondo bianco dove c’è un po’ di vegetazione, la discesa dalla duna è velocissima e  in fondo ritroviamo i nostri. A valle fa già freddo, giriamo intorno alla montagna nera e poi  attraversiamo il piccolo deserto bianco che si rivela di una  sottilissima polvere bianca tipo borotalco e poi andiamo a montare il campo su una duna poco distante.

 

   

Gioved?¨ 13 novembre 2008 Acacus ‚Äì Libia

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Il piccolo grande arco, il serpente e i Priapo del deserto
Alba sulle dune dalle curve perfette di Wan casa, il sole scalda e si parte riattraversando la terra di mezzo per tornare nell’Acacus, fra i picchi neri, la sabbia dorata e le grandi guglie. Entriamo dentro un wadi diverso, dove c’è un po’ di vegetazione e dei cespugli con dei fiori gialli tipo margherite, ci sono anche degli uccelli grandi come merli che pedalano vicino a noi e poi un gregge di capre che pascola voracemente fra i cespugli, è il gregge di uno dei pochi pastori che vive ancora dentro Acacus. La nostra esplorazione prosegue, ieri sera abbiamo deciso di rimanere ancora qualche giorno dentro l’Acacus per conoscerlo più a fondo, è un posto eccezionale e vale la pena di vederlo nella migliore maniera possibile. Improvviso in un lago di sabbia con alle spalle una catena nera compare un grande arco, come un gigantesco altare, a noi sembra gigantesco ma è conosciuto col nome di piccolo arco. Da qui si procede attraversando un tratto più roccioso, si avanza lentamente tra la sabbia siamo in una zona che rimane fuori dai percorsi battuti, ci fermiamo vicino a una grotta dove saltuariamente si fermano i pastori che vivono qui, dentro ci sono un paio di bidoni per conservare l’acqua, una piccola scorta di legna, qualche contenitore di plastica e un po’ di pentole e vestiti, la roba è legata dentro i sacchi e attaccata ai legni. Osservo Yaya e Haroun che sono sempre lenti e guardinghi nei loro movimenti, in questi posti è molto facile trovare serpenti e scorpioni, infatti salendo su una roccia per andare a fotografare uno dei tanti archi, trovo un serpentello scuro che si sta godendo il sole, è molto mimetico e c’è mancato poco che ci passassi sopra. Torno indietro e chiamo Haroun per farglielo vedere, viene Haroun e anche Yaya e mi confermano che “se ti morde due minuti e bye bye”. Tra grotte e anfratti che si incontrano ci sono tantissime impronte di animali, soprattutto roditori, ma anche serpenti quelli che spesso si nascondono sotto la sabbia aspettando le prede e dall’esterno si vede solo una piccola depressione. Anche oggi, anzi più di ieri si incontrano pitture meravigliose, ci sono delle scene con carri, persone e animali al pascolo che contengono decine e decine di personaggi, sono molto belli, le figure sono rosse e bianche e questi colori sono stati dosati con grande maestria dagli artisti di questo tempo lontano, tanto che gli animali rappresentati sembrano dotati di movimento. Stiamo attraversando un tratto dell’Acacus che si sviluppa su più livelli, in basso lo wadi prevalentemente ricoperto di sabbia e una ventina di metri più in alto un grande altopiano di rocce scure e arroventate e poi tutt’intorno i picchi alti anche loro scanalti in più livelli. Arriviamo dentro una foresta pietrificata anche questa è una sorpresa per la forma e le dimensioni di questi alberi del passato, è pietra ma le forme sono perfettamente leggibili, alcuni tronchi sdraiati sono lunghi una trentina di metri e si osserva ancora perfettamente il disegno della corteccia, in altri si vede tutto lo sviluppo dell’albero dal tronco principale ai rami più piccoli. Un paesaggio irreale che certifica più di tanti scritti uno degli aspetti più affascinanti della geologia. Ancora graffiti uno spettacolare di un grande predatore, forse una pantera e poi poco lontano una grande parete dove sono incise scene di sesso dove un gruppo di Priapo del deserto col volto nascosto da una maschera di sciacallo, o forse uomini sciacallo, si accoppiano con donne dai lunghi capelli. Siamo dentro un wadi ricchissimo di pitture, ce ne sono alcune molto raffinate con delle grandi mucche e i personaggi abbigliati e poi tante figure complesse, cavalli con guerrieri, gazzelle palme, cani e cammelli che sta a significare che sono pitture dell’ultimo periodo, il Camelino che ha inizio intorno al duecento avanti cristo con l’introduzione del cammello da parte dell’uomo. Ci fermiamo a raccogliere un po’ di legna e poi si monta il campo su una duna ai margini del grande wadi. Nella notte la luna illumina il grande wadi che sembra avere un sole dentro.