AuthorUmberto

Venerdi’ 24 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

  Movimento rotatorio occidentale
Il computer mi fa bestemmiare, si inceppa di continuo e non riesco a scrivere niente, ho un sacco di cose da inviare e il sito da aggiornare, il trekking costiero mi sa che toccherà abortirlo, vorrei essere più inschallah ma invece mi girano i coglioni.
   

Giovedi’ 23 ottobre 2008 Tunisi

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Walid, google analytic, il ranking, i soldi, la libertà, la religione e il senso della vita
Partenza di buon’ora per Tunisi per cercare una soluzione per gli obbiettivi e la macchina fotografica. Il centro è grande e attrezzato, il più fornito di Tunisi, pero’ ha una sola reflex che costa molto più che in Italia. Ci si capisce bene perché qui lavora un ragazzo che parla benissimo italiano, ha vissuto a Termoli un paio d’anni e mi dice anche di andare assolutamente in Senegal perché secondo lui è il posto più bello del mondo. Alla fine dopo varie prove la macchina sembra funzionare, mentre il grandangolo è morto, compriamo un nuovo obbiettivo e una digitale piccola. Il bancomat mi mangia la carta di credito e devo improvvisare una sceneggiata araba per riaverla perché me la vogliono spedire in Italia, alla fine dello show di un paio d’ore riesco a recuperare la carta e a prendere i soldi per pagare. Faccio un po’ di foto di prova a un traghetto che è entrato nel lago di Bizerte e poi ancora internet per avere notizie dalla Libia. Faccio amicizia con Walid il ragazzo dell’internet point con cui da un paio di giorni facciamo mattina nel diabolico spippolatoio telematico, si è incuriosito della strana coppia italiana che passa le nottate a inserire foto e spedire testi. Walid è un appassionato di internet, lui le notti le passa a studiare sistemi per aumentare la visibiltà al suo sito commerciale, mi fa i complimenti per elbaeumberto e per il viaggio e mi sorprende  perché ha letto un sacco di cose.
E’ rimasto colpito da questa scelta di viaggio senza percorso fisso e tempi prestabiliti che considera folle e fuori dal sistema del mondo che corre sempre più veloce.
Mi dice “I racconti e le foto dell’Atlas sono incredibili, quello è un mondo che ormai non esiste più, nelle città ormai non esiste più niente, sul tuo sito siamo stati tutto il pomeriggio con i miei amici a vedere le foto” Gli mostro con orgoglio le statistiche con i tanti visitatori del sito, rimane sorpreso per lui sono pochi ,” io” mi spiega “sul mio sito commerciale senza contenuti ho più visite di te, perché questo di inernet è un mondo di trucchi e io li conosco” Gli spiego che a me tutti questi visitatori mi sembrano tanti e il fatto che gente da tutti i continenti passa decine di minuti ogni giorno su elbaeumberto mi emoziona. Con occhio esperto spippola dentro google analytics e mi dice “è un sito speciale perché la gente sta tanti minuti dentro”. Poi i discorsi si fanno più interessanti, “mi piace quando parli della tua Isola e dici che le Isole sono posti speciali, anch’io penso quello, la mia famiglia è originaria di Jerba, ci dovete andare perché li’ c’è gente speciale come cerchi te, basta che esci dalla zona turistica e vedrai che li troverai” e ci mettiamo a parlare dei Mediterranei, la razza bastarda che si affacciata sul Mare Nostrum di cui noi Isolani siamo la sintesi storica e genetica. Walid è lanciato nel mondo del lavoro che lo sta gratificando pero’ soffre il sentirsi dentro l’ingranaggio “ormai non posso più tornare indietro, il negozio, i siti e tanti progetti. Ho scelto la vita della città pero’ ci penso spesso se è una buona scelta, la gente di città non ha mai niente da raccontare mentre le avventure che racconta la gente delle campagne sono incredibili, loro vivono veramente noi si cerca solo di avere più cose. Cosa è giusto, cosa bisogna seguire, Il lavoro? La religione? Tornare a vivere come nel passato? Secondo te quale è il senso della vita?”
Domanda che mi sono fatto e che mi sono sentito fare tante volte, ma quasi sempre in luoghi di silenzio, avvolto nella meraviglia selvaggia della natura, questa volta siamo dentro un internet point con sottofondo di musica tecno.
Io ho solo due certezze: Il tempo passa e la morte arriva e credo che il senso della vita sia cercare di fare di questo tempo il migliore uso possibile, capire cosa si vuole e farlo. 
Alla fine si fa mattina e quando usciamo albeggia, non ho combinato granché ma mi sento bene.
 
   

Mercoledi’ 22 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image  Le regole del Colonello
Le notizie che arrivano dalla Libia non sono quelle sperate, per entrare bisogna obbligatoriamente avere un accompagnatore autorizzato e/o un poliziotto, altrimenti niente visto, al massimo si puo’ stare trenta giorni e il programma va stabilito in anticipo giorno per giorno, non è il massimo ma sembra che non ci sia alternativa, il nostro budget sarà stravolto rispetto al solito, ma alla Libia non ci rinuncio.
   

Martedi’ 21 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image La legge di “El Borso” e la Ponentata sulla pelata
Più che altro dormo e poi vado a internet. Godo nel leggere del crollo della borsa, del fallimento del sistema dell’apparenza, dell’ostentazione della forma e del chi è di più.
I piccoli allievi borseggiatori sono stati borseggiati dal loro professore, il signor Ismo Capitale detto “El  Borso” che se la ride furbo nell’attesa di infinocchialli ancora con qualche arguto correttivo. Questo mondo mi sembra un calvo col riporto lungo che urla a tutti che lui i capelli ce l’ha! Pero’ è entrato Ponente e il ciuffo laterale se ne vola via lasciando impietosamente scoperta la pelata. La ponentata quella vera è arrivata, perché i trucchi durano poco, ma la morale è un'altra: è che si vive bene anche senza capelli, come si mangia anche senza forchetta, anzi si mangia meglio con le mani. Quando cominci a mettere a fuoco che si puo’ vivere anche senza le tante cose che ti raccontano importanti e quando l’hai capito ti senti più forte e padrone di te stesso, pronto a consumarti la vita giocandotela con le tue regole, quelle che ti dettano la coscienza e l’esperienza.
Non ne posso più di questo mondo dove tutto è confezionato, che ti dà tutto digerito e ti racconta che pensa e agisce per te.
   

Lunedi’ 20 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image Ritorno in rete
Fra una decina di giorni lasceremo la Tunisia alla volta della Libia, ci sono ancora tante cose da definire per entrare nel paese di Gheddafi e prima di partire vorrei vedere  bene il tratto costiero da Bizerte a Tabarka. Visto che non c’è verso di trovare un kayak o un barchino, l’idea è di farlo a piedi lungo costa con gli zaini leggeri e la tenda, arrivare a Tabarka e poi cominciare l’avvicinamento alla Libia. Prima pero’ c’è da sistemare il tanto materiale nelle memorie, aggiornare il sito e poi controllare l’attrezzatura fotografica che sta dando preoccupanti segni di cedimento.
Ritroviamo il ristorante di Ciccio e poi vado a internet e ci faccio mattina.
   

Domenica 19 ottobre 2008 Remel Plage – Tunisia

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I Relitti, storie di armatori e assicuratori
Bizerte è sonnecchiante come sempre al mattino, per andare alla Remel Plage bisogna passare sul ponte levatoio e poi proseguire fino alla fine del porto dei pecheur, dove inizia la spiaggia. E’ un grande arenile bianco di cinque o sei chilometri che termina sul promontorio di roccia che chiude a Est il golfo di Bizerte, quasi alla fine sullo sfondo si vedono i relitti lontani delle due grandi navi. La spiaggia è larga e bella, sulla riva c’è un grande bunker di cemento risalente all’ultima guerra che ora è in parte dentro il mare, strategicamente durante la guerra Bizerte era molto importante per il porto naturale e per la vicinanza alla Sicilia. E’ una bella giornata ma c’è pocchissima gente, qualche marinaio sceso a terra dai mercantili e alcuni pescatori che provano a prendere un po’ di frugaglie con il razzaglio. I fondali bianchi esaltano le trasparenze e il mare celeste ricorda quello di Cala Giovanna a Pianosa. Ci sono tante piccole barche di legno sulla spiaggia, da qui partono per calare i tramagli sulle secche vicine e intorno ai relitti che sono tanti, infatti non ci sono solo i due giganti ma tanti resti di imbarcazione vittime di questi fondali sabbiosi e delle secche rocciose, che ora con la bassa marea sfiorano il pelo dell’acqua. La linea della battigia è disegnata da migliaia di conchiglie policrome e dalle tante forme che disegnano una lunga linea sinuosa che da lontano sembra una corda rosa e arancio, è un posto bello e mi rammarico di non esserci mai venuto in tutto questo tempo passato a Bizerte. E’ interessante anche il retro, con le dune alte dove crescono i ginepri e le paglie marine e anche dietro al tombolo, dove c’è una macchia fitta che poi senza soluzione di continuità si trasforma in una grande distesa di pini d’Aleppo.
Le navi ora si distinguono bene, per un piccolo tratto la spiaggia è interrotta da una grande secca di rocce spugnose come ai Cancherelli, nella parte interna ci sono tanti formicai grandi e colorati uno diverso dall’altro che sembrano progettati da estrosi architetti. Da qui la vista del relitto più lontano è surreale, la prospettiva gli toglie l’acqua da sotto e la carcassa sembra avanzare nel terreno. Queste due navi sono naufragate una ventina di anni fa, trasportate in secca da una mareggiata e poi  distrutte dal fuoco, a Bizerte si dice che è stata tutta una messa in scena dell’armatore (le navi erano della stessa compagnia) perché stava per scadere l’assicurazione su entrambe le imbarcazioni, una storia molto somigliante a quella dell’Adel Scott la piccola nave affondata sullo scoglio dell’Ogliera a Pomonte nei primi anni settanta, anche li’ si dice che il vero motivo del naufragio fosse legato alle assicurazioni. Chissà perché mai le navi quando diventano relitti perdono la loro natura inanimata e diventano simulacri di creature viventi gigantesche ormai scomparse dal creato. La più grande è stata abbondantemente smantellata, gli manca tutta la parte centrale, la poppa ha lo scafo tagliato di netto all’altezza del ponte di comando e la grande cabina è ancora verniciata di bianco anche se  sfregiata diagonalmente da stigmate di ruggine, mentre il trocone di prua che affiora un po’ più avanti è stato deformato dal calore dell’incendio e fuoriesce in parte con un’espressione da grande squalo martorizzato ma sorridente. Accanto all’altro relitto c’è un barchino a remi che sembra cercare protezione dalla grande carcassa. Anche qui come a Capo Bon c’è chi lavora sui relitti per recuperare qualche soldo da avvolgimenti e pezzi vari, il relitto più vicino a riva è un cantiere, c’è una squadra che lavora dentro e un paio di vedette che fanno la guardia, ora è bassa marea ed è possibile entrare direttamente dentro la stiva con un carretto trainato da un asino per caricare il materiale recuperato. Sono attrezzati con carrucole e una rudimentale gru ancorata sulle placche di ruggine con cui stanno spostando una tubazione, avrei voglia di entrare ma la tensione che traspare dalle vedette mi fa capire che non è cosa gradita, anche perché il tempo sta cambiando, è entrato grecale e il mare si sta increspando velocemente, anche la marea sta salendo e fra poco dovranno abbandonare il cantiere. Tornando indietro passiamo dalle dune più alte e si vede il mare che a largo si sta gonfiando velocemente, peccato c’è mancato veramente poco, si poteva rimanere isolati per un po’ di giorni a La Galite e magari godersi lo spettacolo di una mareggiata dal faro di Galitone, ma hamdullah, ora siamo a Bizerte e prima che si scateni la buriana conviene cercare riparo. Un fronte nuvoloso compatto e basso si avvicina velocemente è un muro nero anticipato da vento freddo, che la marea è salita lo si vede bene quando si ripassa di fianco al bunker che ora è quasi tutto in mare. Il vento è rinforzato ancora e i pescherecci stanno rientrando velocemente nel ridosso della marina, mentre il mare comincia a frangere violentemente sui frangiflutti del porto. Prima di rientrare alla base faccio un giro nel cantiere alle spalle della marina, qui ci sono tante barche sequestrate e abbondanate, se potessero parlare chissà quali storie verrebbero fuori, invece parla, anzi urla, solo il guardiano che minaccia di fugarmi dietro i cani sbavanti, incatenati a ridosso del suo casotto.
   

Sabato 18 ottobre 2008 dall’Isola de La Galite a Bizerte – Tunisia

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Scortati dalle Berte
Si smonta la tenda che è ancora buio e si scende al porto, l’equipaggio si sveglia, sull’isola tutto è quieto ma in mare c’è grande agitazione, è in corso una battaglia: nuvole di piccoli pesci si spostano veloci increspando l’acqua come folate di vento, mentre i loro predatori li rincorrono all’impazzata saltando continuamente fuori dall’acqua, poi improvviso arriva un tonno che elegante e potente gli salta in mezzo rubando la scena e catalizzando l’attenzione di tutti, è la legge del mare, pesce gosso mangia pesce piccolo, ci regala le sue evoluzioni e poi come era arrivato il tonno sparisce. Si parte, il mare è calmo e la prua del Bichi taglia il mare color petrolio, il paese si allontana velocemente, le abitazioni sono già macchioline indefinite quando si doppia punta Bizerte, poi la sagoma si allunga e mentre il sole le da colore la vista sul piccolo Arcipelago si completa con il Galitone e “Galitino” che compaiono ad est e i Cani a ovest, mentre sulla costa si spenge la lanterna del faro di Cap Serrat. La Galite è ormai diventa una piccola sagoma che appare e scompare dietro il gommone che zigzagando saltella sulla scia della barca.
Da quando abbiamo preso il largo si naviga in compagnia delle berte, ce ne sono tante, il loro volo elegante mi ipnotizza, volano basse sfiorando l’acqua con la punta delle ali, hanno grandi ali ma sono creature del mare e del mare ne hanno il colore e il movimento perpetuo, se le osservi bene vedi che non volano ma navigano nell’aria e la loro direzione è prevedibile come le rotte delle navi che ci incrociano a dritta e a prora. Un volo che è in antitesi con quello dei falchi di Eleonora, gli istrionici protagonisti del cielo de La Galite, che disegnano migliaia di traiettorie imprevedibili, facendoti impazzire quando cerchi di fotografarli. In realtà anche le berte sono difficili da fotografare ma dipende dal movimento della barca e dalla mia attrezzatura che fa sempre più i capricci. A poppa Fathi e Kamel calano le canne da pesca, il risultato delle loro battute è stato deludente, non hanno pescato granche’ “La Galite non è più il regno del sarago” mi dice Kamel  “tutti ci vengono a pescare ormai”  Kaled ha individuato la penuria di pesci nei bracconieri che arrivano dall’Italia “ la rovina” mi dice “sono i gommoni che arrivano dalla Sardegna, sono attrezzati meglio dei militari, arrivano la notte pescano con bombole torce e fucili e poi caricano a bordo e tornano in Sardegna dove vendono il pesce a prezzi molto elevati, devono guadagnare bene perché sono sempre di più”. Sono sempre le solite storie, è  la morale del quattrino, quella dei ristoratori che comprano il pesce dai bracconieri, militari e guardiamarine che si prendono l’obolo, e quella dei pescatori per diletto che diventano professionisti e poi assassinano il mare per la solita bramosia di quattrini, quelli che non bastano mai, specialmente se poi ti attrezzi da X° Mas. Kaled  mi parla di gommoni con motori fuoribordo da centinaia di cavalli, gruppi elettrogeni a bordo e attrezzature ultramoderne, del corallo pero’ non vuole parlare, si vede che li’ c’ha le mani in pasta.
Fa rabbia vedere e sentire questi racconti, ma non è niente di nuovo, la storia delle riserve naturali di Montecristo e Pianosa sono piene di queste episodi. Il sole è alto e fa caldo, ormai la costa Africana ci accompagna sul lato di tramontana, il dolce dormiveglia del navigare viene scosso  dall’urlo di Kamel che ha visto vibrare la canna, Fathi si mette la cintura e comincia a lavorare il pesce, un Marlin, almeno cosi’ dice Kamel. Attaccato allo sfotunato pesce spada c’è anche una piccola remora che pero’ viene riconsegnata al mare, chissà se se si accaserà nuovamente su qualche pescione. Contenti come i cinghialai mi chiedono di fotografarli con la preda per immortalarli in pose marziali. Ormai ci siamo, doppiamo le grandi dune, poi Cap Blanc e poi di nuovo Bizerte. Oltre lo sport nautique c’è il grande pontile del porto industriale dove è attraccata una grande gassiera, mentre altre navi mercantili stazionano, dall’altra parte della baia oltre il canale c’è  la Remel Plage alla fine della quale giaciono le carcasse di due grandi relitti che domani vorrei andare a vedere. Dopo sei giorni rientriamo a Bizerte, a terra c’è la classica aria da porto turistico, un misto naviganti e diportisti, le novità in porto sono due catamarani provenienti da Gibilterra dall’aspetto molto tecnologico e una vecchia barca in ferro malridotta grezza e tozza che assomiglia alla nave pirata dei playmobil impietosamente vicina ai filanti multi carena.
Saluti, zaini in spalla e via, c’è una luce più bella oggi pomeriggio a Bizerte, per il resto tutto uguale comprese le ritrovate litanie dei muezzin, non avrei mai pensato di passare cosi’ tanto tempo qui, ma visto la tanta bellezza trovata a La Galite ne è valsa sicuramente la pena.
   

Venerdi’ 17 ottobre 2008 Isola de La Galite – Tunisia

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Le necessità dettate dalle regole e le regole dettate dalla necessità
Nella notte mi sveglia il vento forte, mi affaccio e a largo dell’Isola vedo un temporale massiccio che è in arrivo, fra noi e l’Africa grandi saette che escono da nuvole che pulsano di luce viola. Il temporale si avvicina velocemente e i toni cominciano a farsi sentire sempre più forti, le saette ora sono vicine e illuminano la baia, ne arrivano un paio giganti dritte e larghe che si schiantano a poche centinaia di metri, la luce è accecante e il tuono che arriva subito dopo fa vibrare il terreno, sembra l’inizio di una tragenda, ma per fortuna rimane il momento più intenso, i toni e fulmini continuano per tutta la notte ma non succede niente di grave. All’alba esco e faccio un giro fino al poggio panoramico vicino al cimitero, vedo che siamo circondati da nuvole nere cariche di elettricità, sembra di essere nell’occhio del ciclone ma praticamente non succede niente e a parte qualche goccia non piove nemmeno. Come capita spesso quando  l’aria è piena di elettricità gli animali si radunano e vicino alla tenda ritrovo i due cavalli isolani, tre corvi e una tartaruga. Verso le otto arriva una motovedetta che si ormeggia alla boa a centro golfo e poi sbarca i militari con il gommone, sono le nuove reclute il cui compito principale è ripulire l’isola dalla plastica che raccolgono in grandi sacchi e poi accumulano dentro i casotti sul porto in attesa di portarli fuori dall’isola. Le notizie stamattina sono più grigie, un po’ come la giornata, su Galitone non si puo’ andare perchè c’è troppo mare e anche il cambio del turno è rinviato, proviamo domani mi dice il responsabile del trasbordo, che non riesce a mettersi in contatto con il faro  perché il temporale deve aver fulminato qualcosa. Scendo al porto per avere la conferma che possiamo rimanere un’altra settimana qui, Kaled vuole partire nonostante il tempo brutto ma non ci vuole lasciare qui, discutiamo un po’, con Kaled non ci si piace ma ci si sopporta, io senza di lui non potevo venire qui e lui senza la mia richiesta non poteva portare il suo amico a pescare, vuole una dichiarazione scritta dal comando di Bizerte che noi possiamo rimanere qui, si mette male. Torno alla guardia nazionale e mi dicano che si puo’ rimanere, nel frattempo sull’orrizzonte passano delle trombe marine, si resta in attesa di una risposta, forse si resta fino al 25 forse no, una serie di chiamate poi verso le due arriva la risposta negativa: Bizerte non risponde, almeno cosi’ mi dicono e quindi si deve partire con il Bichi, nel frattempo passa una grossa tromba marina, decisione finale si parte domattina all’alba. Non rimane che sfruttare il più possibile il poco tempo restante, scendiamo verso il mare per vedere la parte bassa del paese, quella più estesa, vicino alla caserma della marina c’è una motopala abbandonata (una scingscaul’ come si diceva e forse si dice sempre a Ponza). La parte bassa dell’insediamento Ponzo Galitese ricorda veramente la principale isola Pontina in particolare la zona delle Forna, scendendo verso il mare si incontra la casa detta delle aragoste al cui interno ci sono ancora le vasche dove venivano tenute le aragoste vive nell’attesa di essere portate in continente, proseguendo ci sono una ventina di abitazioni ormai tutte malridotte, i  muri si stanno sgretolando sotto l’azione della salsedine e della vegetazione, come sempre sono le piante di fico le più devastanti. La scala che scende verso il mare ricorda tantissimo quella che da Le Forna scende verso le piscine naturali a Cala Feola, intorno ci sono agavi, lentischi e cisti, questa è veramente la piccola Ponza: le scale imbiancate con la calce, grotte casa e altre grotte che fungevano da stalle scavate nella roccia più friabile, la più bella sembra la casa dei Flinstones. Il viottolo si ferma sul mare, poco più in alto c’è la casa più grande de La Galite, quella che ospitava Bourghiba, è diversa da tutte le altre ha il tetto a capanna ricoperto con i marsigliesi ed è una tipica casa francese, a pianterreno oggi qui ci vive una famiglia, una delle tre famiglie dell’Isola e fuori casa ci sono due donne e tre bimbi, peccato che si va via domattina perché sarebbe stato bello poterci parlare, chissà che storie interessanti venivano fuori e poi specialmente ora che si cominciava ad entrare in confidenza anche con gli uomini della marina, comunque rimane il grande privilegio di essere qui e questo pensiero mi fa sentire molto fortunato.
Saliamo verso il monte senza nome che abbiamo battezzato Calanche per la somiglianza con la vetta Elbana, si cammina in mezzo a una prateria d’erba alta e robusta, sembra la Pampa, anche questo scorcio di isola è molto bello, una piramide di rocce scure piena di fratture da cui fuoriesce acqua dolce, ci sono delle fratture che diventano vere e proprie grotte e vengono prese a dimora dalle capre selvatiche. Fra grotte e rocce scure e nuvole cupe il tramonto acquista una connotazione drammatica. La  notte arriva in un attimo, fra poche ore lasceremo La Galite, passiamo l’ultima sera chiacchierando con i ragazzi della guardia nazionale che sono stati molto gentili con noi, sono giovani tra i venti e i venticinque anni e sono arrivati qui spinti da motivazioni economiche. Habib è il responsabile del comando, è qui da cinque anni e ci resterà ancora un anno, poi spera di essere trasferito a Tabarka sua città natale dove con i soldi guadagnati qui si è già costruito una casa, cosa che “per un venticinquenne non è poco” mi dice orgoglioso. Anche Mohamed, che è più giovane, ha chiesto di venire a La Galite ma solo per un anno, perché quando torna si vuole sposare, La Galite gli piace ma soffre l’isolamento, le loro donne qui non verrebbero e nemmeno loro le vorrebbero qui. E’ strano questo mondo delle regole che porta uomini a vivere senza donne in un posto non desiderato per avere più soldi, regole che impediscono la normalità e portano a stare dove non si vuole essere. La Galite come tutte le micro comunità in luoghi isolati, estremizza le situazioni rendendole più evidenti ma alla fine la dinamiche sono le stesse in tutti i luoghi: ci si sposta e si vive seguendo le necessità dettate dalle regole e non seguendo le regole dettate dalle necessità, come avevano fatto i coloni ponzesi qualche decina di anni fa su questo magico scoglio.
Quelle stesse regole cha hanno mandato via le persone che avevano scelto di vivere qui, sostituendole con altre che qui mai sarebbero venute.
   

Giovedi’ 16 ottobre 2008 Isola de La Galite – Tunisia

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Natura dolce e selvaggia
La luna piena tramonta dietro la sagoma del monte Guardia, c’è cosi’ tanto silenzio che sento il fruscio di un coppia di corvi che vola sopra di me. Saliamo alla sorgente principale dell’Isola poco distante dal cimitero, è una zona dove sono ancora evidenti le tracce dell’attività agricola, c’è  anche qualche albero da frutto ormai assorbito dalla macchia. Facciamo un giro fra i terrazzamenti abbandonati dove trovo i resti di vitigni e poi si risale verso il cimitero che è diventato il punto di riferimento per muoversi sull’isola. Oggi voglio andare verso nord ovest per vedere la scogliera che si affaccia sui Cani, che dalla vetta del monte Guardia ieri risaltava in tutta la sua potente eleganza. Fa già caldo, è estate piena e il mare è incredibilmente fermo se possibile ancora più di ieri, a largo dell’Isola stanno passando due mercantili, poco dopo  si materializza una sagoma indefinita e strana, naviga molto sottocosta rispetto agli altri scafi, poi avvicinadosi si capisce di che si tratta: c’è un sommergibile spinto da una nave a cui è appoggiato di trequarti. L’avvistamento di questo sommergibile che sembra proprio uscito da una missione dell’ultima guerra mi fa venire in mente la storia di Salvatore Todaro, un famoso comandante di sommergibili della seconda guerra mondiale che mori’ proprio a La Galite nel dicembre del ‘42 mentre dormiva a bordo di un motopesca colpito da una scheggia durante l’attacco di uno spitfire inglese. E’ affascinante la storia di questo militare anomalo diventato famoso con il nome di Don Chisciotte del mare, che attaccava le navi nemiche in emersione con cannone e mitraglia e poi rischiava e faceva rischiare ancora di più il suo equipaggio per salvare la vita ai naufraghi vittime dell’attacco. Cercando informazioni dell’isola nell’attesa dell’agognata autorizzazione ho ritrovato “Mago Baku” (altro soprannome di Todaro) di cui avevo letto qualcosa tempo fa cercando notizie su Teseo Tesei. Questa è proprio l’Isola delle coincidenze e delle ricorrenze, Todaro divento’ famoso proprio il 16 ottobre del millenovecentoquaranta quando a largo di dell’Isola di Madera al comando del sommergibile “Cappellini” dopo aver affondato la nave nemica  “Kabalo”,  recupero’ tutti i ventisette naufraghi a bordo del sommergibile e poi navigo’ in emersione per quattro giorni correndo rischi enormi fino alle Azzorre dove lascio’ liberi i suoi passeggeri.
Il sommergibile doppia la punta Nord Est de La Galite e svanisce  portandosi via i ricordi della follia bellica, ora qui c’è pace e armonia, una fantasia armonica di colori e profumi di fiori a cui si uniscono api e farfalle in questa primavera d’ottobre. L’isola è un tappeto verde formato prevalentemente da gariga bassa, ma nelle zone più umide ci sono anche piante di leccio e di corbezzolo in fiore. Sul culmine morbido del primo poggiolo troviamo una zona archeologicamente interessante, ci sono dei cerchi di pietre e diversi cumuli che sembrano sepolture preistoriche, intorno c’è anche qualche pezzeto di ceramica che rende verosimile questa ipotesi, si cammina dentro un giardino, questa parte di isola è ancora più ricca di fiori e ci sono delle vere e proprie siepi di rosmarino ed erica. Questo è il regno del silenzio, le sensazioni regalate dalle forme, dai colori e dai profumi su questo scrigno di bellezza e armonia ti si impregnano dentro senza uscire in forma di parola, come per pudore, per paura di rompere quest’incantesimo di ascolto del silenzio, e quando fermi anche il passo si apre come un nuovo universo fatto dal suono di rumori impercettibili che ti svelano le tante storie che si stanno muovendo intorno a te, anche quelle solitamente impercettibili dei grilli e delle lucertole o delle api.
Il caldo cresce insieme all’energia vitale dell’isola, anche i falchi stanno ricominciando la loro frenetica caccia sullo sfondo  di un mare immobile e dai toni cangianti da cui traspaiono grotte e buchi blu, ci si affaccia su strapiombi mozzafiato per ammirare grotte e anfratti duecento metri più in basso, qui  vivevano numerosi esemplari di foca monaca e c’è chi dice che ci sia ancora.
Man mano che ci si sposta verso la punta più esterna la scogliera diventa sempre più ardita, provo
sensazioni simili a quelle provate a Montecristo nel settembre dello scorso anno quando finalmente riuscii a stare una settimana sull’Isola più selvaggia dell’Arcipelago Toscano accompagnando l’amico fotografo Sandro Santioli per conto del National Geographic. La scogliera è ricoperta di incrostazioni giallo e arancio, che associare al Volterraio è inevitabile, ci sono tanti nidi di falchi fra cui almeno due di falco pellegrino, il promontorio finisce su un terrazzino scalpellato dal vento che si affaccia sui “Cani” è simile alla Punta dell’Enfola ma molto più alta e selvaggia senza niente che richiama alla presenza umana, sotto nel mare trasparente si vede un branco di grandi barracuda che disegnano un cerchio e alcuni pesci di grossa taglia.
ب un mondo dolce e selvaggio, la testa recisa di netto di un uccellino mi ricorda le leggi della natura   dove vince il più forte, il più svelto, il più intelligente … per essere protagonista del circo della vita  devi essere “il più” di qualcosa e nel momento in cui cessi di esserlo arriva “il più” di un’altra cosa che ti cancella dal palco, la natura è meravigliosa, armonica ed equilibrata, ma anche spietata, non è un videogioco dove se ti ammazano risuciti, l’errore e la distrazione sono spesso fatali …. Sffschtiùn …. passa il falco e l’uccellino non c’è più.
C’è un’armonia cromatica che sfiora la perfezione, erica e rosmarino, sassi, muschi e licheni, girando verso ponente la scogliera si arricchisce di decorazioni scavate dalla salsedine, anfratti perfetti per i nidi dei falchi, ora contemporaneamente in volo più di trenta rapaci che si producono in un’incredibile battaglia aerea che osservo insieme ai corvi. Il mare bellissimo, le rocce gialle, la grotta, per quanto incredibile diventa sempre più bello, questo tratto pur essendo più ripido  assomiglia tanto al tratto di Montecristo che dal Belvedere scende verso Cala Santa Maria. Attraversiamo una macchia fitta di pruni caprini e poi si ritorna verso “casa” ancora immersi nel “mare fiorito”. Le coralline sono andate tutte via, ma è arrivata una barca da diporto,  c’è aria di calma prima della tempesta, passiamo dal molo a salutare l’equipaggio del Bichi, Mohamed mi da una brutta notizia, vuole partire domani o al massimo dopodomani mattina perché poi arriva il brutto tempo e poi sta finendo viveri e sigarette e lui a quelle non ci rinuncia. In realtà me l’aspettavo, Kaled occhi bugiardi arrivando mi aveva detto “ vedrai che dopo due giorni ti stufi e mi chiederai di andare via perché sull’isola non c’è niente”. In attesa degli sviluppi ci andiamo a fare una nuotata. Lungo la spiaggia sotto il paese ci sono i pezzi di tanti relitti diversi, alcuni di navi altri di barche, forse ci sono anche i resti delle dodici coralline Ponzesi affondate tutte assieme durante una tempesta negli anni trenta, c’è anche tanta pomice probabilmente arrivata dalle Eolie.
Primo bagno a La Galite, nel mare fermo che  si increspa in superficie per la fuga verso riva di tanti piccoli pesciolini mentre i loro predatori schizzano fuori dall’acqua facendo grandi salti: la battaglia della vita non si ferma mai né in cielo, né in terra, né in mare.
Stasera si mangia capra in umido, siamo invitati dalla gendarmeria, stiamo diventando parte di questa minuscola comunità, ci sono anche i militari della marina che usano la radio della gendarmeria per comunicare con i loro colleghi di stanza su Galitone, sono sei militari che fanno servizio per due settimane e domani c’è il cambio, inaspettatamente ci propongono di andare con loro, ci invita il pilota della barca che effettua i cambi, mi dicono che se voglio possiamo salire al faro anche se secondo loro è una gran faticata e non ne vale la pena. Mohammed ci dice anche che con il nostro permesso possiamo stare ancora sull’Isola perché siamo sotto la loro tutela e siccome il Bichi torna sull’isola fra una settimana per fare un servizio per il governo, noi potremmo rimanere qui per un'altra settimana. Sarebbe favoloso rimanere, proviamo subito a sentire il Bichi ma la radio è spenta. La serata passa guardando un film comico egiziano sulla guerra del golfo e con i racconti Galitesi del quotidiano e delle storie leggendarie, come quella dell’asino suicida di Galitone: il ciuco che era addetto al trasporto dei viveri esasperato dalla fatica che doveva subire ad ogni trasporto, una mattina sentita la sirena della vedetta che arrivava, si lancio’ dalla scogliera suicidandosi.
Quando chiudo la tenda è uscito un po’ di vento, la luna si è velata, oggi la giornata è stata esaltante e domani inshallah …. magari si va su Galitone. 

 

   

Mercoledi’ 15 ottobre 2008 Isola de La Galite – Tunisia

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Galitone e il Faro

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casa Ponzo-Galitese

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Lo sguardo enigmatico del Corvo
All’alba partono le barche dei corallari mentre si dissolve la nebbia marina e la luna gigante non è ancora tramontata, anche questa giornata si preannuncia bella, il telo della tenda è bagnato come succede sempre di queste stagioni al mare. Cominciamo a camminare, la piccola comunità isolana dorme ancora, dopo la piana del cimitero ci spostiamo verso ovest fra le zolle ricoperte di erba alta ancora gocciolante di guazza, si sentono camminare le tartarughe, ce ne sono tante ognuna col suo carattere, ci sono quelle che quando ti avvicini si chiudono nella corazza e altre che si danno alla fuga, il mare stamani non ha voce è una lastra immobile che con il salire del sole piano piano prende colore insieme al cielo. La prima collina che si attraversa è un giardino, si cammina fra fioriture di erica e rosmarino dove le api sono già a lavoro, ma ci sono anche tanti giunchi e “i pruni caprini” che quando vai a troncamacchia non mancano mai. Salendo ancora tartarughe e anche tanti uccelli che pedulano fra i cespugli fioriti, poi ci inseriamo nell’ultimo tratto del sentiero che porta  fino al semaforo posto sulla vetta de La Galite, è l’unico viottolo agibile ed è conosciuto come il cammino di Bourghiba perché si dice che nei due anni che passo’ confinato qui, il futuro presidente della Tunisia veniva obbligato dai militari francesi a salire tutti i giorni fino al semaforo per firmare il registro di presenza. E’ un sentiero profumato che ricorda quello che porta al semaforo dell’Isola di Capraia dell’Arcipelago Toscano e all’Isola degli Hermes assomiglia anche il paesaggio della vetta con i ruderi dell’antica vedetta, i ferri arrugginiti e le piazzole in cemento e anche per  le pareti di roccia scura che precipitano verso il mare. Ma il nome del poggio ci riporta a Ponza, anche li’ la vetta isolana si chiama Monte Guardia, e questo è abbastanza scontato visto che i pochi nomi riportati nelle carte dei  rilievi e dei  promontori sono di origine italica, l’aspetto più curioso è che i due monti hanno pressoché la stessa altezza trecentonovanta metri, mentre nella forma, che da qui sopra si disegna chiaramente, La Galite è molto simile all’Elba a cui è speculare anche come orientamento, con la testa (dove siamo ora) a ovest e la coda a est. Si vede anche Galitone ma non come pensavo, c’è infatti ancora tanta Isola prima di arrivare all’estremo ovest. Si scende e si sale più volte fra grandi strapiombi affacciati sul mare smeraldo che, complice il gran caldo, chiama a se, ma le meraviglie sono anche dentro l’isola che risplende di vita e colori in questa primavera d’ottobre, ci sono tante farfalle policrome e poi ragni, grilli e libellule gialle, verdi e blu, ma le più fotogeniche sono quelle arancioni, una meravigliosa, elegante e spietata cattura e si mangia una mosca forse troppo distratta. Siamo avvolti nella mediterraneità, dal basso le capre ci guardano da picchi arditi sospesi fra cielo e mare, sono tante e vivono libere, la loro anarchia ha tempi opposti a quella umana su quest’isola. Finalmente padrone del loro destino, proprio come le capre Elbane che vivono sovrane fra le pendici di Monte Grosso e Nisportino, sono imponenti, specialmente i maschi con le grandi corna, le riconosco sono le grandi capre italiane dei racconti di Ali Baba Ouerda, l’amico veterinario dalle misteriose origini italiane conosciuto a Kerkennah, che qui a La Galite una ventina di anni fa aveva fatto uno studio proprio sulle capre per conto del governo, “ li’ ci sono le capre italiane” mi diceva “più grandi e più forti di quelle africane e migliori per la carne e per il latte” e convinto mi raccontava “Le hanno portate gli italiani con le barche”. Non sono sicuro che le abbiano portate i Ponzesi, già in epoca classica si usava portare le capre sulle isole disabitate (come ci insegna anche la storia di Montecristo e Capraia) per avere riserve di cibo in caso di necessità. Mentre ammiro l’agilità di questi animali penso con grande rammarico alle capre di Evangelista, l’ultimo pastore della montagna Elbana, che lo scorso autunno sono state caricate su un camion e portate via, dopo secoli e secoli di legame con quel territorio, queste nell’aspetto assomigliano proprio alle capre che pascolavano la montagna Elbana, una razza antica e resistente di capre mediterranee che ha subito un processo evolutivo simile a quello del muflone, irrobustendosi grazie all’ambiente isolano e diventando assi più forte del suo antenato continentale. Chissà se quando tornero’ all’Elba ci sarà nuovamente un pastore di capre sulle pendici del Capanne, pensando alle  notizie sull’economia lette su internet i giorni scorsi, penso che un processo di ritorno alle origini potrebbe realizzarsi.
Avvolti dal silenzio e nei profumi della macchia arriviamo alla fine dell’Isola, ci fermiamo su  una radura sassosa colorata dai licheni arancio intenso che si apre su un orrizonte “grandangolare”, qui  ci sono tanti falchi che si lanciano continuamente dalle alte scogliere che dominano il canale che ci separa da Galitone, ma qui i padroni di casa sono i corvi, anche se sembrano estranei a questo mondo colorato, neri lucenti e sfuggenti volteggiano eleganti e osservano tutto. Sono affascinato da  questi “rabbini” volanti, nello sguardo del corvo c’è qualcosa di sovrannaturale, ti guarda e sembra  conoscere il futuro e anche i tuoi  pensieri; di tutt’altro stampo sono i falchi, specialmente i piccoli e frenetici falchi di Eleonora Galitei, instancabili cottimisti della caccia e provetti acrobati del volo, il falco non pensa, agisce, il falco è un soldato di leva vigoroso e bene addestrato, mentre il corvo è un gesuita che nel buio del suo piumaggio senza sfumature nasconde il crocifisso e la spada.
Da questa gigantesca prora di roccia si vede bene la sagoma massiccia di Galitone e anche il ripido viottolo scavato nella roccia che sale fino al grande faro sulla vetta, anche qui il richiamo a Ponza è forte: nella via incisa nel fianco dello scoglio rivedo La Sgarrupata a mare che porta al Faro. Le barche dei corallari che stanno rientrando schiariscono una striscia di mare nel disegno delle loro scie, unico solco nel mare piatto di questa patana Africana. Fra licheni “buddhisti” giunchi e rosmarino, risaliamo fino al semaforo dove un suono sordo come quello delle ghiaie ruzzolate dalla risacca riempie il silenzio, è il cozzare affannato di tartarughe focose impegnate in un raduno orgiastico, che si scontrano e si appiccicano come le macchinine dell’autoscontro, la corazza sarà anche una bella sicurezza ma poi ti ritrovi ingessato dal collo al culo, anche quando trombi.
La luce ora è bellissima e le punte bianche della costa nord sono rosate e rugose di ombre lunghe, si ritorna verso il paese dal pendio che scende affacciato sul mare dal lato del porticciolo, anche qui c’è acqua per la gioia di carrubi e lentischi pieni di bacche rosse, lo scalo si è riempito di corallari ci sono sette barche a banchina e altrettante a rada di cui due barche a vela. Poco prima del crepuscolo siamo al villaggio, nella parte alta del paese fantasma, entriamo in qualche casa, la maggior parte sono avvolte dalla macchia, ma in alcune si riesce ad entrare, una ha il pavimento con le mattonelle uguali a quelle del circolino della Bonalaccia. Nella parte del paese meglio conservata a fianco di una casa abitata da  militari c’è la casa più bella, forse era l’abitazione dei D’Arco, intorno alle case piante di alloro, fichi e carrubi e grotte di tufo che facevano da stalle. Anche stasera rientriamo di buio. Sono bastati due giorni per armonizzarsi ai ritmi della natura, ci si alza con la prima luce e si va a letto quando arriva la notte.