AuthorUmberto

Martedi` 14 ottobre 2008 Isola de La Galite – Tunisia

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Il compleanno della ragazza dell’Isola dell’Anarchia
Dormono tutti a bordo, il Comandante e Kaled gorgogliano catarri affannati e rumorosi.
Non c’è un alito di vento ma fa freddo, è ancora buio ma nelle barche a terra c’è movimento, anticipando l’aurora il barcone più grande mette in moto, cerco di capire qualcosa guardando con il teleobbiettivo ma non capisco niente oltre al fatto che a bordo ci sono parecchie persone, poi con il  rischiararsi cominciano a partire anche le barche dei corallari, attrezzate con manichette e camere iperbariche. Quando il sole comincia a scaldare si alzano tutti, Mohammed prova invano a mettere in moto, complici le tante birre in dotazione all’equipaggio, ieri sera il quadro elettrico è rimasto acceso e ora la batteria è a terra, quindi prendiamo terra a traino del gommone.
Il mare ha dei colori bellissimi attraversati da saragi e occhiate, sull’isola regna il silenzio sembra disabitata. Ormeggiamo il Bichi a ridosso dell’unica banchina e poi finalmente si mette piede a terra. In uno slargo vicino allo scalo stanno marcendo un paio di relitti di barconi in tutto simili a quelli che avevo visto a El Attaya alle isole Kerkennah, scafi che erano stati sequestrati dopo essere naufragati nel tentativo di portare i clandestini a Lampedusa.
Con l’autorizzaione di Kaled cominciamo a salire verso la caserma della Guardia Nazionale dove sventola pigra la bandiera Tunisina, per farci vedere e capire come possiamo muoverci e dove possiamo montare la tenda. La strada che conduce al posto di guardia è una ripida cementata, a mezza via incontriamo due guardie che stanno scendendo, già vederli in tuta da ginnastica invece che in divisa è bene augurante, sono subito molto gentili e si dicono  molto felici di averci sull’Isola perché a terra non scende mai nessuno, ci stavano aspettando, il più alto che sembra il responsabile da un’occhiata veloce alle autorizzazioni e mi conferma che è tutto a posto, possiamo muoverci liberamente sull’Isola, la tenda preferisce che la montiamo vicino alla caserma. C’è grande tranquillità, del classico sistema militare tutto di rigore e ipocrisia non c’è traccia, ritorniamo al porticciolo insieme, poi loro rimangono a chiacchera al Bichi e noi cominciamo a salire con i bagagli, volendo si poteva attendere il trattore dei militari che ci mettevano gentilmente a disposizione ma preferisco piazzarmi e cominciare prima possibile l’esplorazione. Al corpo di guardia c’è il terzo gendarme dell’Isola, Mohammed è il più giovane e ci accoglie con un caffè   parliamo un po’ degli italiani e mi racconta dei  “pescatori di aragoste” che sono venuti la scorsa estate  a rivedere la loro vecchia casa.
Se siamo qui è grazie alla mia parte Ponzese perché agli ex abitanti dell’Isola o ai loro parenti è concesso con le opportune dichiarazioni, di visitare l’Isola e io sono qui alla ricerca di tracce  e sepolture di parenti. In  realtà non ne posso essere sicuro ma è abbastanza verosimile visto le strette parentele che legano un po’ tutti i Ponzesi, e quindi anche i PonzoGalitesi, comunque anche in segno di gratitudine per l’autorizzazione il primo luogo che voglio visitare è il cimitero. Monto la tenda in una posizione spettacolare ci infilo i bagagli, saluto Mohammed e si comincia a salire mentre passa il trattorino dei militari, mi  ricorda quello del “Conte Goffredo” il guardiano di Montecristo, attraversiamo parte del paesino abbandonato e passiamo a fianco alla casema dei militari, ci sono un paio di case abitate dove vivono i militari di carriera, gli unici che qui hanno la famiglia, salendo ritroviamo i due cavalli che prima pascolavano vicino alla tenda, ci sono dei piccoli orti e alcune giovani piante di olivo che sono state piantate recentemente. Poi su un pianoro in alto, un chilometro dalle ultime case, il cimitero, è  una versione ridotta e malridotta del cimitero di Ponza, purtroppo solo poche lapidi sono rimaste leggibili, l’unica perfettamente conservata ci ricorda Elisabeth Darco nata il 14 ottobre 1905 e morta il 20 febbraio del 1936, a volte le coincidenze sono incredibili una serie di eventi concatenati ha fatto si che noi visitassimo questa tomba abbandonata proprio nel giorno in cui ricorre il suo copleanno. D’Arco è un nome importante in questa storia avventurosa e romantica, fu infatti proprio Antonio D'Arco il precursore dei colonizzatori Ponzesi de La Galite, fu intorno al milleottocentocinquanta che per primo decise di viverci stabibilmente affascinato da quest’Isola disabitata e quindi senza leggi ne padroni se non la natura stessa e incredibilmente simile nell’aspetto alla natia Ponza, ma assai più generosa con un mare incontaminato e ricco di pesci, aragoste e corallo e una terra senza padroni dove abbondavano le sorgenti d’acqua dolce che da sempre sono la principale croce della maggiore delle Isole Pontine. Il richamo di questa terra promessa fece approdare qui diverse decine di pescatori Ponzesi, in particolare quelli più poveri che qui potevano crearsi i propri appezzamenti di terreno da coltivare e in poco tempo nacque una comunità senza leggi né gerarchie. L’isola fu visitata alla fine dell’ottocento da un “ vero” anarchico francese che dalle colonne del periodico Père Peinard esalto’ il puro spirito anarchico dei Ponzo-Galitesi e li prese come esempio a dimostrazione che si poteva vivere “senza governo e senza sfruttamento dell'uomo sull'uomo", aveva trovato I’Isola felice. Nei primi anni trenta ci fu un secondo flusso di Ponzesi legato soprattutto a orientamenti politici che non si confacevano con la dittatura fascista, migrazione che non si interuppe mai del tutto fino ai primi anni cinquanta quando la militarizzazione dell’isola da parte dei francesi si fece più pesante e intollerabile per lo spirito libero dei PonzoGalitesi che furono costretti ad abbandonare per sempre la loro isola. Per quasi un secolo questa comunità visse in pace, si nasceva, si moriva, ci si sposava e ci si separava senza bisogno di preti, carabineri e nessun altro pubblico ufficiale. Oggi di questo sogno anarchico non rimangono che i ruderi delle case con la volta a botte  e le “parracine” sepolte dalla macchia, ma il fascino dell’Isola è più vivo che mai, anzi come sempre la natura, quando l‘uomo è marginale o meglio ancora assente, dà il meglio di se. Il silenzio regna sovrano, è una pace densa di vita, l’isola è verde e i tanti giunchi testimoniano la ricchezza di acqua, ci affacciamo sul lato nord, la parete scende a strapiombo tappezzata di verde fino alla spiaggia di ghiaia scura che si tuffa nel mare trasparente e turchese, mentre lo sfondo è dominato dagli isolotti dei Cani. Fra i giunchi si sente muovere, è una tartaruga, ce ne sono tante e sbucano energiche fra scogli e cespugli, sono uguali a “Tartak” la tartaruga che mi regalo’ zio Ciro da bimbo, mi ricordo che disse che veniva da un’isola vicino alla Sardegna chissà…forse era proprio la Galite, comunque mi piace pensarlo. La sensazione di privilegio aumenta quando mi rendo conto che siamo arrivati in momento eccezionale, stanno nascendo le piccole tartarughine, ce ne sono tantissime piccole piccole, per la gioia epilettica di falchi e corvi che sovraeccitati e iperattivi sono a caccia dei piccoli. In lontanaza passano tante navi e sottocosta ci sono una decina di barche fra corallari e pescatori,  ma sull’isola solo noi e il silenzio. Salendo le tartarughine aumentano, la gariga è policroma adornata della fioritura dell’erica e del rosmarino, ancora più falchi balestrucci, ma purtroppo la macchina fotografica si blocca continuamente e quando scatta lo fa solo con tempi lenti, è un peccato sopraratutto perché diventa difficilissimo fotografare i falchi che fanno dei numeri acrobatici di alta scuola, ce ne sono di diverse specie ma i più comuni e spettacolari sono i falchi di Eleonora, dei piccoli rapaci insettivori che sono dei veri e propri contorsionisti del volo. In questo posto mi ci sento bene, i colori e i profumi sono quelli di casa, ma è sopratutto la luce a essere nostrana è la magia del mare tutt’intorno che ti riflette addosso il sole regalandoti la sensazione di libertà che è solo delle isole piccole, è come una magia che ti fa sentire al centro del creato avvolto dalla luce. Rimaniamo ipnotizzati da questo mondo primordiale, gioioso e spietato al contempo. Saliamo sul monte più alto del lato est, quello che dal mare sembrava una piramide, è molto ripido e le rocce ricordano il Calanche, vicino alla vetta ci sono dei muri molto simili a quelli che si trovano in cima al Monte Fortezza, la vetta di Montecristo. La giornata è stata cosi’ intensa che il tramonto è arrivato improviso, dalla vetta vediamo tante barche nella baia sotto il paese, alcune si fermano a rada ma la maggior parte si accostano al Bichi che è appogiato alla banchina. A ovest le sagome scure di Galitone e “galitino” galleggiano nella luce accecante del tramonto come astronavi fantasma che attendono immobili nel cielo metallo.
Bisogna scendere prima che sia buio anche perché non voglio fare incazzazzare i gendarmi correndo il rischio di avere limiti nella libertà di movimento.
Ritroviamo le prime case al crepuscolo, alcuni soldati  assorti nel silenzio osservano immobili l’orizzonte ormai scuro, sembra che cercano il loro futuro nel mare infinito, la quiete sovrasta ogni cosa, mi piace questo “mondo” senza chiese e senza moschee.
 

   

Lunedi` 13 ottobre 2008 da Bizerte all’Isola de La Galite – Tunisia

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Cap Blanc

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L`uccello misterioso

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La sagoma de La Galite

 

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Si  Parte
Finalmente è il grande giorno, è stato un parto complicato ma questa volta dovremmo esserci. Da quando Raffaele Sandolo mi ha parlato de La Galite e dei PonzoGalitesi, visitare quest’Isola è diventato un obbiettivo, quasi un’ossesione. La storia della comunità anarchica di quest’Isola mi ha stregato e il legame genetico che probabilmente ho con alcuni di questi coloni libertari mi ha spinto a ricercarne le tracce, il viaggio è stato condizionato da questa voglia, ma la costanza è stata premiata, ormai ci siamo. E’ una bella giornata, mentre si caricano viveri e bagagli a bordo viene fuori anche il vero motivo dei “bollettini personalizzati” di Kaled, stava aspettando un amico con un gommone da portarsi dietro per pescare a Jalta (cosi’ si chiama La Galite in Tunisia), si carica tanto ghiaccio a bordo, evidentemente hanno intenzione di pescare tanto perché riempiono due ghiacciaie, e anche diverse casse di birra, mi sa che in mare è tutto un altro islam, poi finalmente verso le due si parte. Lasciamo Bizerte uscendo dalla stretta bocca del porto, siamo in sei sul Bichi, che è una barca di legno molto marina (pesante e con un bel pescaggio) attrezzata principalmente per portare i sub a fare immersioni: Kaled che è l’armatore faccendiere dal capello biondo e lo sguardo sfuggente, Mohammed il comandante, un silenzioso lupo di mare secco secco con il viso tutto grinzo e la sigaretta sempre accesa incastrata in una smorfia di sorriso alla braccio di ferro, Il comandante è l’unico che sta nella piccola cabina e timona stando seduto a gambe incrociate con lo sguardo fisso sulla prora, poi c’è Fathi il figlio di Mohammed ventenne marinaio esperto di pesca alla traina e istruttore di Kamel l’amico con il gommone, un Francotunisino con il pallino della pesca e poi noi. Doppiato Cap Blanc cominciamo ad allontanarci dalla costa ammirando le grandi dune di sabbia bianca che disegnano la costa tra Bizerte e Cap Serrat e gli isolotti dei Fratelli. Il vento in poppa ci agevola nella navigazione, man mano che ci allarghiamo aumentano le berte che volano eleganti intorno alla barca sfiorando il pelo dell’acqua, arriva anche  un misterioso uccello bianco con il collo giallo, è molto più grande e massiccio di una berta e pesca tuffandosi  in verticale da una ventina di metri entrando in mare violentemente e facendo dei grandi schizzi. Mentre la costa africana scompare si comincia a vedere La Galite che nella sagoma ricorda veramente Ponza, poi si iniziano a vedere anche gli isolotti di Galitone e i Cani. Il sole tramonta che siamo ancora lontani, arriviamo che è notte,  l’isola ora ci appare come una piramide nera illuminata dalla luna quasi  piena, si vedono alcune luci in alto e anche nel piccolo approdo, il comandante conversa alla radio e poi ci comunica che stanotte si dorme a rada,  si balla abbastanza perché c’è un po’ di mare lungo ma il piccolo approdo dell’Isola è occupato dalle barche dei corallari che non gradiscono occhi indiscreti (La Galite si dice che venga usata anche come scalo intermedio per portare clandestini Tunisini e Algerini verso le coste Sarde) cosi’ almeno mi sembra di capire dalle comunicazioni via radio, sicuramente è una situazione assai ambigua per un parco naturale. E’ comunque una situazione molto bella che i movimenti intorno al porticciolo rendono ancora più intrigante,  mangiamo maccaroni alla tunisina concentrato e tonno, sotto il fascio potete della luna che nasconde la maggior parte delle stelle ma non il faro di Cap Serrat, unico segnale visibile del continente Africano.

   

Domenica 12 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image Domani Inschallah
Il vento è calato ma il mare è ancora grosso, quindi ancora attesa. Lavoro un po’ al servizio sulla traversata dell’Atlas e poi faccio una lunga chiacchierata col mi fratello su skype occupando gran parte del tempo a parlare del Viottolo che è stato il fulcro delle noste conversazioni da quando ho lasciato l’Elba. La serata è tranquilla e anche il mare ora si è calmato domani inschallah dovrebbe essere la volta bona. 
   

Sabato 11 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image  I timbri di Madame Saida
Oggi il mare è veramente grosso è la classica grecalata che “pela” di quelle che dalla spiaggia di Campo vedi lo Scoglietto e il Giglio a “due piani”. Comincia a preoccuparmi la scadenza dei tre mesi del permesso di soggiorno in Tunisia che scade il 20 ottobre, per rinnovarlo la polizia dice che  bisogna uscire e poi rientrare nel paese (andare in nave a Palermo e ritornare), per fortuna ne parlo con Don Ciccio che intercede e mi fa accompagnare in caserma da “messié” un distinto tunisino che lavora come cassiere al ristorante, e si trova la soluzione, si va da Madame Saida la donna dei visti, una fiera signora con cui sono tutti molto ossequiosi, che ci prolunga il permesso di venti giorni, con l’unico impegno di tornare in caserma una settimana prima di lasciare la Tunisia per apporre i timbri.
   

Venerdi` 10 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image La festa è finita
E’ una gran grecalata e fa freddo, Bizerte finito il Ramadan è un altro posto, la maggior parte dei ristorantini e dei chioschi che erano chiusi ha riaperto e i bar sono tutti strapieni di uomini che stanno seduti per ore davanti a un bicchiere di caffè. Telefono a casa parlo con Babbo e gli racconto dei tanti europei che stanno arrivando a Bizerte con gruzzolo di euro spaventati dalla crisi delle borse e poi sento Nicol in grande forma e tutta eccitata per la scuola e le lezioni di danza. La Fine del Ramadan ha pero` sancito la fine del clima di festa serale e dopo le otto è quasi tutto chiuso tanto che sembra che ci sia il coprifuoco. 
   

Giovedi` 9 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image Gli mms di elbaeumberto.com
Infatti il tempo è bello ma il coltello dalla parte del manico ce l’ha lui, Kaled. I barcaioli sono una delle categorie più bugiarde che esista, sempre pronti a non partire causa condizioni meteo marine avverse trasmesse da bollettini dei naviganti che ascoltano solo loro.
Comunque cose da fare non ne mancano, c’è anche da configurare il telefonino nuovo che fa anche le foto in modo da poter inviare gli mms direttamente dentro il sito, è una novità importante che ci consentirà di aggiornare www.elbaeumberto.com quando non avremo la possibilità di andare ad internet, il viaggio tra poco tornerà ad essere più avventuroso e lo sarà sempre di più e penso che  sia un buon sistema anche se chiaramente il segnale non ci sarà sempre.
Il telefono non si configura perché è rotto, il negoziante che ce l’ha rifilato non lo vuole cambiare dicendo che in Tunisia non si cambia la merce pagata e che le garanzie qui non valgono, fra urli e minacce reciproche finiamo in caserma e esco con un cellulare nuovo di pacca e di qualità superiore, in realtà mi sono fatto forza della mia condizione di straniero.
Come temevo in serata entra grecale, domani non si parte di sicuro.
   

Mercoledi` 8 ottobre 2008 Tunisi

Image Le ambasciate
Andiamo a Tunisi per Ambasciate, iniziamo da quella Italiana per fare il passaporto bilingue, per entrare in Libia è indispensabile avere questo documento tradotto in Arabo. All’ambasciata ci sono tante persone in fila soprattutto coppie miste italo tunisine, ce n’è una che non puo` passare inosservata lei un’italiana da un quintale con velo e fuseaux tutta indaffarata a disbrigare le pratiche e lui un allampanato ragazzo tunisino che si guarda continuamente intorno compiacendosi “dell’affare” che sta andando in porto, abbordare un’europea, portarsela in Tunisia per poi sposarsela e farsi mantenere è uno dei sogni dei tunisini e le donne italiane son le più ambite. Per fortuna la procedura che serve a noi viene fatta in un altro ufficio e la faccenda si risolve velocemente. Dal centro della capitale ci spostiamo verso nord dove ci sono la maggior parte delle ambasciate Africane, la più grande e vistosa è quella della Libia, un palazzo che sembra il deposito di Zio Paperone, siamo qui per richiedere il visto di ingresso, ci fanno accomodare in una lussuosa e asettica sala d’attesa con i divani di pelle nera dai cui vetri a specchio si vede il grande giardino. C’è grande cortesia, ma come previsto ci dicono che il visto per entrare in Libia viene rilasciato solo per affari. Con ancora meno speranze andiamo a sentire per il visto anche all’ambasciata Algerina che si trova poco distante, è una sede molto più modesta e sgarrupata e ha un’aria familiarmente maghrebina. Dopo un po’ di anticamera ci riceve una signora gentile dall’abbigliamento e dai modi molto occidentali che rimane affascinata dal nostro viaggio, ma non puo` fare niente per farci avere un visto d’ingresso nel suo paese. E` assurdo ma le difficoltà maggiori di questo viaggio sono di natura burocratica. Dopo una vana ricerca di un fotografo qualificato si torna a Bizerte con il louage. C’è da comprare i viveri per La Galite e chiudere gli zaini. Ma come temevo dal tono sfuggente della telefonata del mattino, non si va, Kaled dice di partire dopodomani quando il tempo sarà migliore, capisco che è una scusa ma non posso fare altro che accettare.
   

Martedi` 7 ottobre 2008 Bizerte – Tunisia

Image Autorizzati!!
La macchina un ne pole più! Ha perso il paracoppa, la chiusura centralizzata è morta, saltano le marce e la frizione slitta, è lercia come un è mai stato nemmeno “cinghio” ai tempi d’oro, la porto al lavaggio per rifargli un po’ il trucco e poi la riporto al noleggio appena in tempo e… vvvia, mi sembra di esse tornato ai tempi dei rally quando si riconsegnava la fiat uno dell’aci a Piombino dopo averci provato per tutto il fine settimana.
Al palazzo del governatore per prendere l’autorizzazione per La Galite, è tutto a posto possiamo andare e pernottare, non ci credo ancora.
Sono le 11 buonanotte.
   

Lunedi 6 ottobre 2008 Douiret, gli Ksour e il Mare – Tunisia

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Ksar Ouled Soltane

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Ksar Ezzahra

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dama di sabbia

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Ksar Jalided

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La magia degli ksour
Fa freddo all’alba quando il gallo ci sveglia, le donne del villaggio sono già in azione e stanno spazzando le corti terrose delle loro case. Metto in moto e si parte in direzione della Douiret vecchia, il sole arriva e la luce calda dell’alba colora il deserto di toni rossi. Il villaggio sembra molto più piccolo di Guermessa, anche qui c’è una moschea bianca alla base dell’abitato che si sviluppa su un unico colle sul cui culmine c’e’ la fortezza (kalaa) diroccata. Sul lato di Ponente a un chilometro da qui c’è un grande  marabutto che il sole incendia di luce dorata, Douiret è un paese meraviglia che si sta svelando man mano che il sole sale abbassando il sipario dell’ombra fino alla moschea, facendo risaltare le pietre dorate  nel cielo terso e potente di questa mattina. Prima di salire mi fermo a fare un giro nel cimitero dove ci sono tre tombe a cupola di marabutti e altre tombe bianche di importanti uomini di fede, da sempre il deserto è patria della mistica e qui evidentemente i santi abbondavano.
La strada arriva dritta fino all’inizio del paese, in una stalla ci sono due ciuchi, mentre dalle prime case delle persone ci stanno osservando, sono affacciate su un pianerottolo di un piccolo albergo aggraziato in costruzione, ma ormai praticamente ultimato, certo leva un po’ di fascino ma penso che sia il modo giusto di fare turismo, portando i visitatori a pernottare dentro le mura si permette di mantenere in vita, magari anche solo parzialmente, questi villaggi eccezionali, è costruito con cura in armonia con l’architettura del villaggio e gli impianti elettrici sono alimentati con cellule fotovoltaiche ben mimetizzate. Poco più avanti la moschea nuova che è aperta, l’interno è scarno e si sviluppa in un grande stanzone vuoto,  pero’ è collegata attraverso un cortile coperto alla vecchia moschea che è scavata dentro  la montagna, questa è molto più bella e affascinante con la grande sala sostenuta da grosse colonne cilindriche e adornata con tante iscrizioni a rilievo nelle mura,  saliamo in cima al minareto che ci regala una prospettiva impagabile sul villaggio e sul deserto. Risalendo i vicoli si incontrano due case ancora abitate, assomigliano tanto alle case grotta dell’Isola di Ponza, il villaggio si sviluppa come un forte che sale a spirale fino al vertice della collina, da qui si vede che le abitazioni si estendono anche lungo una fenditura che si trova nella lunga collina sul lato opposto alla moschea, disegnando un serpente sinuoso lungo sei o settecento metri. Le case abbandonate sono il regno dei “caterulli del deserto” c’è anche un grande frantoio con il tetto di tronchi di palma che probabilmente verrà restaurato. La vicinanza con la strada asfaltata sicuramente agevola le visite turistiche e stimola progetti di recupero, l’impressione è che si stiano facendo le cose per bene, speriamo che stavolta non vengano fatte schifezze. In vetta come sempre i corvi la fanno da padroni, sullo sfondo si avvista la polvere che sale dalla strada, sono dei fuoristrada con i turisti che arrivano mentre la luce magica va via e anche noi ce ne andiamo.
Cielo blu e montagne aride a righe ci fanno da sfondo, siamo nella zona dei grandi ksour, per primo incontriamo lo ksar di Ouled Debbab anche questo famoso per essere stato usato per le riprese di Guerre Stellari, ma è una delusione è stato trasformato in albergo e ha perso tutto il fascino diventando pacchiano come il dinosauro stile elbaland che fiancheggia l’ingresso.
Andiamo in direzione di  Ouled Soltane dove dovrebbe esserci lo ksar più bello della regione. Lungo la via incontriamo le donne al pozzo che con un bidoncino di latta travasano l’acqua nelle stagne attaccate sulla sella del ciuco, con la macchina si fa tanta strada e si vedono tante cose pero’ filtrate e un po’ da spettatori, non come quando si viaggiava col mulo, arrivare a questo pozzo con Tambone avvrebbe significato fare conoscenza con queste ragazze e magari finire a casa loro, arrivando cosi’ ti poni troppo come corpo estraneo e anche le foto sanno un po’ di furto.
Arriviamo al villaggio dello ksar più famoso, temevo di trovare file di pullman, biglietterie, bancarelle di souvenir e guide incartapecorite in cravatta e giacca forforosa stile villa di Napoleone di San Martino e invece anche qui ci siamo solo noi. Il gran Ksar di Ouled Soltane è irreale nel suo splendore di forme senza linee rette, un favoloso alveare di luce, sinuosità e armonia disuguale, naturalmente non è passato inosservato agli autori di Star Wars che qui avevano ambientato le abitazioni degli schiavi. Lo ksar è il simbolo di questa regione, è un tradizionale granaio fortificato costruito per conservare e proteggere i raccolti, ogni ksar è formato da “ghorfa”  piccole stanze lunghe e strette con un'unica apertura che affaccia sul cortile e che viene chiusa con porte di legno di palma, sono costruite con pietra e gesso e rifinite con il fango, il clima arido permetteva di conservare i cereali per decine di anni. Lo ksar era il cuore del villaggio, le ghorfa erano padronali ma c’era un custode spesso “uomo di moschea” che ne gestiva l’utilizzo impedendo sperperi e speculazioni ai proprietari e razionalizzando i consumi in maniera da avere delle riserve in caso di carestia, per garantire la sussistenza per tutti gli abitanti del villaggio. Lo ksar dall’esterno ha l’aspetto di un forte con un'unica porta detta la skifa da cui si accede al cortile, le ghorfa si sviluppano su più piani, questo ksar ne ha quattro, in alto si conservavano i cereali e in basso l’olio, i legni murati sopra le nicchie più alte facevano da gru per caricare con un sistema a carrucole il frutto dei raccolti nei vari livelli collegati solo da rampe di scale e da lastre inserite nella muratura che ricordano i gradini che sporgono dai muri a secco delle vigne alte nella Valle del Poio. Il sistema degli ksour era perfetto per queste terre e fu adottato anche dagli arabi e la maggior parte degli ksour, compreso questo, sono successivi all’invasione araba. Di solito lo ksour si sviluppa intorno a un'unica piazza ma questo ne ha due, dal primo cortile passando da una piccola porta si accede al cortile più interno, qui  la struttura che è stata splendidamente restaurata lascia senza fiato, è anche troppo perfetto tanto da risultare asettico, comunque bellissimo. La luce è calda e potente e lo sfondo blu perfetto. Quattro piani di stanzine stondate  a formare un anfiteatro di decine di nicchie ombreggiate che mi guardano come gigantesche tope rasate, mentre i legni di olivo e le ”lastre scalino” disegnano ombre nelle pareti come meridiane. Padroni silenziosi dello ksar sono dei grossi passeri con un collare che cangia dal  grigio al turchese a secondo di come ci riflette la luce. Prima di andare via mi fermo a chiacchierare con dei regazzi che gestiscono un piccolo bar, si lamentano perché non viene mai nessuno a parte qualche gruppetto di turisti frettolosi di stanza a Jerba che ogni tanto capita d’estate, sono dispiaciuti perché sono giustamente orgogliosi del loro gioiello architettonico, vorrebbero costuirsi un futuro qui, ma non vedono molte prospettive, parliamo un po’ e gli racconto del Viottolo e delle mie idee sul turismo. Sono contento, a Bizerte in un mese non ho strinto nessun rapporto umano vero, in questa regione seppur visitata in maniera frettolosa ho ritrovato l’entusiamo e la magia dell’Atlas. Il sole è ormai alto e fa caldo, una stradina tutta dossi ci porta a Ksar Ezzahra, sono solo pochi chilometri ma sufficienti per entrare in una dimensione totalmente estranea al turismo, è un villaggio piccolo ma vivo con i vecchi Peugeot 404 cassonati che troneggiano nella piazza. E’ un crescendo di bellezza, questo è un paese vero con lo ksar ancora attivo, dalle vie passano una serie di personaggi favolosi con i vestiti tradizionali, che qui arrivino pochi estenei lo si capisce dal fatto che siamo noi l’attrazione del paese. Serena mi chiama è davanti alla skifa che come a Ouled Soltane si apre sullo ksar, una luce magica filtra all’esterno, dalla piazza di terra con al centro un albero. E’ la porta delle porte, la vera porta spazio temporale, entri dentro e si apre un'altra dimensione, la porta di questo ksar è la trasfigurazione della fica, ti apre orizzonti inimmaginabili. Appena dopo l’ingresso ai margini del cortile interno i vecchi saggi del villaggio sono riuniti nello scuro irregolare di un ombra composita, giocano e disegnando con le mani universi nella sabbia, sereni e fieri, distaccati dal mondo esterno, quello dei soldi e dei cercatori di esclusive, senza parole capisco che la foto bellissima che vorrei scattare è inopportuna, uno sguardo collettivo di intesa me lo comunica, le parole non servono. Mentre cammino mi perdo nelle forme surreali e nel silenzio di questo universo di sagome e ombre sinuose, salgo dalle scale di lastre inserite nelle pareti, nelle ghorfa più alte, alcune delle quali conservano ancora un po’ di grano, gli “scalini”  sembrano buttati a casaccio nella parete, ma è tutto calcolato e ti permettono di salire con facilità. E’ un posto incantevole, che sa di libertà dove contemporaneamente ti senti libero e ignorato. Osservo il rito del the e la dama di sabbia e sassolini, poco distante c’e chi dorme nell’ombra dentro una coperta. Qui l’aria è densa di saggezza, mi sdraio in un angolo all’ombra di una ghorfa, gli aromi di terra e di sansa, di olio e di polvere mi invadono piacevolmente, anche le mosche addosso non disturbano, anzi portano messaggi, un anziano mesce il the scandendo frasi  lente e rituali e su tutto questo la luce forte del deserto che ti rimbalza di fianco anche quando ti accucci all’ombra di una delle  mille curve dello  ksar la percepisci sempre, anche ad occhi chiusi. Nelle vesti ampie, nelle rughe, nel rito del the, nella schacchiera disegnata nella sabbia e nelle pedine di sasso, una sensazione di pace e verità rivelata, è il regno dell’essenza dove l’apparente nulla diventa tutto e allo stesso tempo qualsiasi cosa è di troppo. E allora la macchina fotografica diventa un sasso dalle forme sgraziate e le ciabatte sgradevoli preservativi che ti allontanano dal contatto con il suolo. Non so quanto tempo è passato quando apro gli occhi, forse un’ora o magari solo dieci minuti, ma è stato un tempo speciale, “hai già dormito?”  mi chiedono ironici con il palmo aperto delle mani i “padroni di casa” mentre mi appresto ad uscire dalla skifa, saluto muto e rituale come un Amazigh e lascio i veri jedi nel “tempio senza tempo”.
Uscendo ritrovo la luce piena del deserto, quella che ti abbassa lo sguardo e ti ingigantisce le grinze dell’occhi. Continuiamo nell’arsura lungo una stretta carareccia e ci ritroviamo al grande ksar abbandonato Jelidet, è il più grande di quelli visti, si entra da una larga porta blu, è sbiancato da una luce accecante e circonda una vasta piazza rettangolare con una costuzione nel mezzo. Poi ancora deserto e  ksour, uno per ogni villaggio incontrato, la pista è stata cancellata dalla pioggia e una deviazione ci porta sulla strada asfaltata per Tataouine. Appena passata la cittadina, come spesso è capitato in questi giorni, diamo un passaggio, da queste parti sono poche le persone che hanno una vettura propria e per spostarsi si usa tantissimo il passaggio, si vedono tante persone che con l’immancabile sacchetto di plastica nero porta tutto, camminano apparentemente verso il nulla, vanno senza sapere quando arriveranno… inshallah. Siamo molto vicini alla Libia e ormai siamo vicini al mare, attraversando una zona che le carte stradali e le guide ignorano, è un deserto strano questo, è tutto coltivato ad olivi che si estendono per decine di chilometri fino al mare  …   radio tunisi trasmette  in lingua italiana e ci fa ascoltare  le canzoni di un cantautore siciliano, il tormentone “ventu quandu te’ncazzi mi fai paura” mi si inculca nel cervello. Il nostro passeggero ci saluta alle porte di Ben Guerdane un paese dai tanti distributori che non esiste sulla guida della Lonely Planet, come non esiste tutta questa zona. Nelle vie c’è tanta gente e i cartelli stradali che indicano Tripoli e il Cairo ci fanno capire che il confine è vicino, le donne sono vestite in modo molto più “coranico” rispetto a Bizerte, è tutta un'altra Tunisia, diversa come per l’Italia lo sono Bolzano e Palermo. Nei pressi di El Marsa finalmente arriviamo al mare, Douiret che abbiamo visitato all’alba è un mondo lontano, il mare davanti a noi è una laguna dove pascolano fenicotteri rosa e garzette. Sfrutto la bassa marea per camminare dentro l’acqua e fare qualche foto ai fenicotteri, poi prima che la marea si prenda la macchina ripartiamo. Il tramonto è ormai vicino queste giornate piene mi hanno fatto tornare l’entusiamo e fra pochi giorni La Galite, ancora non ci credo che abbiamo l‘autorizzazione. Lungo la riva le donne raccolgono la “salycorn” l’erba grassa che cresce sul limite della marea e che avevo già visto a Kerkennah. Una lingua di terra sottile chiude la laguna che parte dal forte di Naoura e porta fino a un piccolo villaggio di pescatori, le   barche di legno e le gorgoulette richiamano immagini kerkenniane, come anche il marabutto di Sidi Ahmed Chaouch che si trova proprio alla fine dell’istmo, su un piccolo isolotto che si puٍ raggiungere a piedi con la bassa marea. Le ultime barche rientrano quando cala il sole, si riparte in direzione di Zarzis, c’è traffico, è normale siamo alle porte di Jerba. Con il buio la situazione diventa infernale, motorini a fari spenti, macchine contromano e senza fari, è come un video gioco di quelli che diventa sempre più difficile, arriva anche Medenine e poi ancora Gabes, da un camion volano pancali con casse e scatole di frutta. Nella notte la strada si illumina di rosso con i “distributori” segnalati da neon messi dentro le stagne rosse, è il gran souk del petrolio che si estende per decine e decine di chilometri, nell’attesa dei clienti si mangia arrostendo la ciccia e scaldando the con il fuoco riparato da un cerchio di contenitori di benzina, fanno tutti cosi’ come se fosse la cosa più normale del mondo, è come percorrere una chilometrica bomba molotov. Poi arriva anche la pioggia con gli immancabili incidenti, quando la strada si allarga e diventa a due corsie il traffico scorre più veloce ma bisogna fare ancora più attenzione perché i motorini e i furgoncini senza fanali viaggiano contromano per vedere chi arriva e poi ci sono i mitici Stop della polizia, quelli che se ti fermi ti guardano come a di’ “oh fava ma che ti sei fermato a fa’!” ma se passi anche piano piano ti fermano e ti cicchettano per non aver rispettato lo Stop. Per fortuna sono quasi sempre a mangiare in qualche chiosco e ci sono solo i cartelli incustoditi, comunque quando vedono che sei italiano ti lasciano passare, ma con i Tunisini “c’è un gran commercio”. Da Sousse prendiamo la nuova autostrada, i caselli sono ancora in costruzione quindi non si paga, arriviamo a Bizerte che è quasi l’alba.             
   

Domenica 5 ottobre 2008 da Matmata a Douiret – Tunisia

 

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dentro il Sidi Driss

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Toujane

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olivi nel deserto

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Ksar Hallouf

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Ksar Haddada

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Il Marabutto di Guermessa

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La Vetta di Guermessa

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La Piramide di Roccia

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La Moschea Troglodita

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La strada sospesa

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Il Santuario dei sette Dormienti

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Da Star Wars a i sette dormienti passando per il magico villaggio di Guermessa 
Durante la notte solo qualche goccia, risalgo verso Matmata il cielo è sempre scuro, visto che siamo qui voglio vedere alcuni luoghi cult di  Guerre Stellari a cominciare dal famoso albergo troglodita Sidi Driss dove sono state girate tante scene, in realtà è molto meno turistico di quello che credevo, mi aspettvo grandi poster, spade laser e la maschera nera di Darth Vader, invece i richiami si limitano a una scritta  e un disegno, dentro la struttura ci sono ancora alcune scenografie, porte, tubi e reattori vari, è strano girare in una struttura che è comunque anche un albergo con la gente che dorme nelle camere. Dopo “il cinema” un  giro per vedere le famose case troglodite  la maggior parte sono disabitate o usate solo come stalle ma alcune sono ancora abitate, bisogna stare attenti quando si cammina perché il cortile interno si vede solo all’ultimo momento e volarci dentro non è poi cosi’ difficile. Riprendiamo la clio che tutta infangata ha tutt’altra presenza, la strada vecchia   per Tataouine è molto bella, tortuosa e sempre si snoda fra monte e strapiombi, ci fermiamo per affacciarsi su un costone roccioso che precipita nel vuoto per diverse centinaia  metri, fra le rocce ci sono dei fiori bianchi che assomigliano ai gigli di spiaggia. Dopo una mezz’ora di deserto vediamo una casa isolata non lontana dalla strada, è abitata, ci sono due donne molto giovani, un bimbo e tre bimbe, la più piccola è misteriosamente bionda, mi fanno capire che è la sorella più piccola e che è nata bionda, faccio fatica a crederci anche se gli occhi si assomigliano tanto. E’ una casa poverissima assomiglia tanto a quelle incontrate sull’Atlas in Marocco e come li’ troviamo tanta gentilezza e opitalità, le due donne dai linementi eleganti ed austeri sono curiose e gentili ma anche un po’ sorprese e imbarazzate della nostra presenza e anche i bimbi che come sempre si divertono a vedere le foto nella macchina digitale, vorrebbero le foto ma questo è un posto senza indirizzo e loro di qui non si muovono, gli uomini mi sembra di capire che lavorano lontano. Ci salutiamo, dopo una mezz’oretta all’uscita di un tornante sotto di noi si apre un bel paesaggio su una grande gola, nella parte alta c’è un paese di pietra, è il villaggio Berbero di Toujane. Sulla strada qualche bancarella, il villaggio si sviluppa prevalentemente sotto strada e la moschea bianca sembra l’unica cosa integra, in alto poco sopra la strada c’è la sorgente dove alcune ragazze stanno prendendo l‘acqua che portano legandosi sulla schiena le stagne di plastica a mo’ di zaino. Mi passa davanti un anziano che per camminare si aiuta con un bastone di legno nodoso lucido e sottile, sembra lento ma scompare veloce fra i vicoli. Da lontano sembravano macerie e invece ci vivono tante persone, le case hanno il soffitto a botte, tanti tetti sono crollati ma gli edifici vengono utilizzati come stalle, ovili o pollai. Che siamo nuovamente in zona berbera lo si capisce anche dalla ricchezza e varietà di colore nei vestiti, da una porta appare una ragazzina avvolta in uno scialle blu che sembra la madonna e al suo fianco una ragazza vestita di rosso è adornata con spille d’argento e bracciali d’oro, nel borgo mi si avvicina una bimba, bella ed elegante fieramente scalza la piccola principessa degli stracci fa da mamma al fratellino curioso che mi mostra orgoglioso il suo finto cellulare che porta al collo e poi come nelle fiabe arriva la donna nera, scende dalla via con bastone e paiola, ha una fascia rossa sulla fronte che tiene il velo, le unghie delle mani da gigante arancioni di henné e un grande bracciale d’oro. C’è qualcosa di magico fra questi sassi, sarà la luce che filtra dalla cappa scura delle nuvole o il silenzio reso greve dal vento freddo di tempesta che scende dalla montagna, ma c’è un’atmosfera epica da signore degli anelli. Un’altra “principessa” con spilloni d’argento e mantello sgargiante, è la principessa dell’ovile che insieme ad altre due donne, probabilmente la mamma e la sorella è dentro il recinto dove alloggia un gregge di pecore e capre, è una scena da presepe vivente ma è tutto vero con le tre donne che preparano il mangime per le bestie perché qui l’erba non c’è e quindi le greggi si nutrono con granaglie secche. Qui si ricicla tutto c’è un muro fatto di vecchie carrette sullo stile delle recinzioni anticinghiale fatte con le reti da letto che usano da noi. Lasciamo Toujane sotto lo sguardo perplesso di un dromedario che passa il termpo a grattarsi il muso sul terreno. La strada scende fino a ritroavare la pianura dove c’è un minimo d’erba, qui incontriamo due donne pastore, la più alta assomiglia a un dromedario è un’abilissima lanciatrice di sassi e gestisce il gregge con lanci mirati, non gradisce le foto e mi fa capire chiaramente che se continuo il prossimo è mio. Continuamo per le stradine  che sembrano portare verso il nulla, incontriamo una donna arancione dai tanti gioielli che ci sorride mentre prende l’acqua da un pozzo e poi diamo un passaggio a un uomo assai sorpreso del fatto che non sono tunisino. E’ un deserto di pietra intervallato da qualche cespuglio, ora che è tornato il sole sembra ancora più arido, incontriamo un grande oued secco e poi ancora segni dell’alluvione che ha cancellato un pezzo di strada, dopo una deviazione ci fermiamo vicino a un pozzo dove ci sono i tanti melagrani stracarichi di frutti  che vengono irrigati per mezzo di una pompa a vento, è una piccola oasi ci sono anche palme e olivi e un gruppo di uomini che sorseggia thè alla loro ombra. Gli olivi sono piante eccezionali se ne trovano molti in questo mare di sassi  apparentemente sterile, ogni tanto dal niente spunta un paesino e poi ancora sole e sassi, è un ambiente troppo duro per essere attraversato con un mulo, infatti di gente che si sposta non se ne incontra, sui picchi più alti di tanto in tanto appare come in un miraggio un marabuto isolato. Ritrovato l’asfalto dopo poco troviamo a bordo strada un po’ di legna raccolta dentro un  mantello rosso, poi la strada ci porta dentro  Ksar Hallouf dove troviamo un  piccolo ksar (granaio fortificato) ancora attivo. E’ un posto vero fuori dalle rotte dei turisti, che in realtà oggi non abbiamo mai visto, la strada asfaltata è dissonante con tutto il resto, qui regna silenzio è uno di quei posti lenti dove tutto sembra essere sempre uguale, la vera novità siamo noi e la nostra bramosia di foto che gli occhi perplessi dei pochi presenti pigramente osservano.
La strada si snoda come un serpente di asfalto, in un continuo saliscendi, su una collina sopra di noi un grande pacchiano dinosauro di cemento ci indica che qui sono state trovati resti dei grandi rettili del passato, poi una grande depressione ricca di grotte e poco più in alto l’abitato di Ksar Haddada che un gran cartello indica come il paese della “Minaccia Fantasma”. Lo ksar è molto grande ma è stato restaurato e trasformato per esigenze cinematografiche, alla fine risulta scialbo in tutto perché  anche le tracce del film non sono né evidenti né enfatizzate. Lo ksar era stato trasformato in albergo prevedendo un grande successo legato alla storia cinematografica, ma evidentemente non ha funzionato perché è ormai tutto in degrado con le camere e i bagni che si stanno decomponendo, solo una piccola parte si conserva bene e alcuni ambienti ricordano Star Wars. Mentre gironzoliamo arriva un gruppo di turisti, sono nord europei probabilmente arrivano da Jerba accompagnati qui con grandi quattro per quattro, fanno un giro veloce dello ksar e dopo dieci minuti scarsi se ne vanno, osservo i fuoristrada sono gli stessi che ho visto a Douz sono addobbati da impresa transahariana ma se li guardi bene si capisce che vanno solo sulle strade bitumate, infatti hanno le gomme da asfalto e sono immacolati.
Ancora deserto di sassi, una ventina di chilometri e arriviamo a Guermessa Nouvelle il paese nuovo costruito in pianura, ma lo sguardo va in alto dove fra due colli si sviluppa l’antico paese fortificato spettacolare per quanto minetizzato nella roccia. Una fortezza nel deserto Guermessa, due colli e una moschea, la strada strerrata che sale è impraticabile ne manca una decina di metri, facciamo una deviazione e giriamo intorno alla collina per salire dall’altro lato dove c’è un marabutto con la cupola di un insolito color acquamarina, poi si risale fino alle prime abitazioni, a poche decine di metri dalla moschea bianca dove c’è parcheggiato anche un vecchio furgone pik up. La Lonely Planet che mi porto dietro definisce Guermessa semplicemente come villaggio Berbero, lo trovo molto riduttivo, questo luogo è molto di più e poi anche berbero è un termine che non mi piace. Berbero deriva dal greco barbarikos (stranieri) cosi’ vennero battezzate  le popolazioni che gli ellenici trovarono qui, le stesse che i romani definvano semplicementi africani, io  questo termine lo associo ai mitici Amazigh dell’Atlas gente straordinaria che ho avuto il privilegio e l’onore di conoscere, ma in realtà si tratta di un’etnia molto diversificata e divisa in tante tribù, qui in Tunisia il ceppo più importante risale alla civiltà Numida che trova le sue origini nel neolitico, questa popolazione domino’ le zone più ricche e fertili prima di subire le dominazioni Puniche e Romane alle quali comunque mai si assoggettarono completamente, come racconta bene la storia dei territori visitati nei giorni scorsi. In queste zone più impervie e desertiche che non interessavano agli invasori le popolazioni originarie hanno vissuto in relativa tranquillità per secoli sviluppando i loro insediamenti in pianura fino alla metà dell’undicesimo secolo quando,  per sfuggire all’invasione Hilaniana (le tribù arabe che dall’Egitto invasero il Magrehb portando morte e distruzione)  si traferirono su queste roccaforti di pietra costruendoci i loro villaggi, sfruttando inizialmente precedenti insediamenti che diventeranno poi città fortificate scavate nella roccia, e si ampliarono sempre di più per poi rimanere abitati fino a pochi annifa. La storia ci dice che i Berberi che prima erano stati anche ebrei e cristiani accettarono di buon grado l’islam come religione ma gli arabi molto meno e ancora oggi appena ci si allontana dalle città e dalla costa si respira forte l’identità Berbera che sente gli arabi come invasori, qui a differenza del Marroco sono solo sensazioni anche perché viaggiando cosi’ velocemente non c’è il tempo di parlare con la gente, ma certe cose si percepiscono bene se si è un po’ allenati.
La città antica di Guermessa si presenta subito come eccezionale anche perché aiutata dalla luce bassa della sera che rende tutto più fiabesco. La moschea fra le due colline è il punto di partenza per i tanti viottoli che si snodano fra le spaccature nella montagna, poco più in alto incontro due donne che stanno scendendo, le case sono tutte abbandonate ma si capisce che è un abbandono recente, spingendo le piccole porte di legno di palma si entra dentro le stanze che spesso sono frantoi dove ci son tanti grandi orci e le macine. Cammino risalendo un viottlo fra i muri a secco sul fianco sinistro della montagna, ogni tanto entro nelle case che sono incredibili, la luce filtra dalla porta e dalle tante piccole feritoie che come spioncini si aprono nelle pareti, nel fianco della montagna c’è una grande spaccatura dove ci sono centinaia di abitazioni, molte di più di quello che si intuiva dal basso, questa è una vera e propria città nella pietra pur non avendo niente di monumentale fa venire in menta Petra la mitica città dei Nabatei. E’ la montagna dalle cento case, stanza dentro stanza fino alle ultime stanze, le più piccole e buie, la terra plasmata con le mani e si vedono le tante impronte  essicate sulle pareti e sui soffitti, tutte simili e tutte diverse, anche questo è un regno del silenzio ci siamo solo noi due. Man mano che si sale la collina più bassa diventa sempre più mistica con la sua forma di piramide perfetta, voglio salire fino alla vetta per andare su quello che doveva essere l’ultimo baluardo in caso di assalto nemico. Nella zona più alta ci sono delle grotte  ricche di iscrizioni, la roccia è a volte tenera e altre molto compatta, salendo verso la vetta ci sono dei punti  dove  affiorano delle conchigie fossili mentre in altri punti ci sono delle intrusioni di roccia compatta e dura che sembra selce. La vetta è un altopiano di roccia, sembra una grande piazza pavimentata con lastre ciclopiche, da qui il panorana è un 360 gradi di meraviglia, sul villaggio la piramide e la grande pianura circondata da montagne di terra con la sommità di roccia, si vede benissimo che l’erosione ha disegnato questa spettacolare orografia, mi passano praticamente sotto i piedi un gruppo di corvi, mentre in lontananza veleggia un grande falco, forse un biancone. Poi inaspettata una sorpresa, guardando in basso davanti ad una casa grotta all’altezza delle abitazioni più alte c’è una persona, imballata in un jallabad che qui chiamano bournous, scendo e insieme a Serena che era rimasta più in basso lo andiamo a trovare. Ci accoglie ridendo sonoramente, è un mestro Sufi che vive qui da solo, la gente del villaggio gli viene a fare visita e ogni tanto di qui passa anche qualche straniero, ma non è certo qui per chiedere l’elemosina, anzi ci offre delle pere e mi riempie le tasche con le caramelle e semini che gli hanno portato le donne che avevo incontrato all’inizio del villaggio. Non è un Sufi serioso, cupo e assorto nelle meditazioni, ma un uomo allegro e ridaccione, tanto lontano dai Sufi incontrati sull’Atlas che andavano in trance fra musiche e canti ossesivi in un clima comunque un po’ angosciante. E’ un uomo sereno e divertito, poi perٍ pur restando placido, diventa silenzioso e mi accompagna a visitare un incredibile santuario sotteraneo, è una moschea troglodita scavata nel cuore della montagna tutta dipinta di bianco, ci sono tante scritte in rilievo e forme di mani e piedi sulle pareti e sul soffitto, l’interno è inaspettatamente grande con tanti archi che formano tre navate, ci sono svariate nicchie, tante colonne irregolari, mi indica delle iscrizioni che non comprendo ma mi incanto ad osservare la sua espressione sognante. Usciamo e andiamo a vedere il tetto, dall’esterno è impossibile capire cosa c’è sotto, c’è anche un  minuscolo minareto senza mezzaluna come mi fa notare Bubakri Hamza, cosi’ si chiama l’Obi-Wan Kenobi di Guermessa. Davanti alla sua grotta scavati nella roccia che sembra un pavimento ci sono scavate due scacchiere una con dei cerchi grandi  a forma di tazza e una più piccola per giocare a dama con i sassi. E’ stato un incontro di pochi minuti, ma è uno di quelli che non dimentichero’.
Il viottolo principale che gira intorno al colle come una circonvallazione ci riporta alla moschea grande, che ora sembra quasi banale. Andiamo verso la vetta della Piramide camminando su una larga passarella di pietra che sembra sospesa nel vuoto, la luce calda e l’assenza di vento aggiungono magia alla magia, è un privilegio grande essere qui.
Ancora deserto di roccia, una decina di chilometri e siamo a Chienini nuova, anche qui c’è  un villaggio scavato nel fianco della montagna, ma siamo sulla strada principale e quindi all’interno del circuito turistico, i bimbi ci si fiondano incontro chiedendo argent con occhi spiritati, poche decine di chilometri e siamo in un’altra dimensione rispetto a quella di Bubakri, quella purtroppo molto più usuale della violenza e del denaro. Chenini è famosa per le Tombe dei Sette Dormienti i santi giganti citati nel Corano, il santuario si trova a un paio di chilometri dal villaggio antico, ci arriviamo che il sole è già tramontato, la  luce flebile si impasta nelle forme morbide e bianche del santuario, le famose tombe dei giganti sono qui davanti a me, io ne conto undici ma forse sono anche di più. Questa leggenda è cara sia ai credenti cristiani che ai mussulmani e seppure con le inevitabili varianti è molto simile. La storia dei  Dormienti cristiani è ambientata ad Efeso e narra di
sette giovani cristiani che intorno al duecentocinquanta, perseguitati per volere dell’imperatore pagano Decio grande nemico dei cristiani, si rifugiarono in una grotta dove furono murati vivi. La leggenda dice che si risvegliarono duecento anni più tardi sotto l’imperatore cristiano Teodosio II  potendo professare liberamente la loro fede, morirono perٍ il giorno stesso addormentandosi felici e come si usa dire in grazia di dio e vennero fatti santi. La storia dei Dormienti di Chienini non è molto diversa ed è riportata nel Corano nella diciottesima Sura, racconta dei Dormienti e del loro cane, senza specificare il numero, che si addormentarono da cristiani perseguitati dai romani e si risvegliarono quattrocento anni dopo  in un mondo dominato dall’Islam, nel frattempo erano diventati dei giganti lunghi quattro metri, la leggenda vuole che anche qui vivranno solo un giorno ma abbastanza per convertirsi alla nuova religione e quindi pronti per andare beati in paradiso.
La morale pero’ credo che sia sempre quella, se sei convinto di una cosa prima o poi arriva pero’ ci vole pazienza, magari qualche giorno in più l’avrei fatti campa’.
Relais e pullman alla base di Chenini, andiamo verso Tataouine inseguendo un tramonto di fuoco. Tataouine la sera è semideserta, siamo gli unici stranieri e Serena è l’unica donna in giro, pero’ troviamo persone gentili e pasticcini buoni, poi ritorniamo verso Douiret e dormiamo in uno slargo dentro il villaggio nuovo.