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Italiani in trasferta Piove e la giornata è autunnale, sto cercando invano un kayak allo sport nautique ma non c'è verso, riprovo al villaggio turistico italiano. Camminiamo lungo lo spiaggione turistico che è ormai deserto, solo qualche grasso finocchio tedesco in compagnia di culai tunisini e qualche pescatore poco convinto che guarda il mare con il razzaglio in mano. Il villaggio sta chiudendo e anche il servizio di vigilanza è smobilitato e si entra senza problemi, cerco il qui famoso Mario, il capoanimatore, quello che "comanda" anche il reparto sport, è un romano brizzolato che assomiglia a Paolo Franceschetti, un milanese Elbanizzato che conosco da prima di aprire Il Viottolo, con cui spesso mi sfogavo sui mali dell'Elba, da cui ho appreso recentemente leggendolo su un blog che sono di destra. Assisto al pietoso saluto con bacini e manina da parte degli animatori all'ultimo pullman di turisti e poi finalmente ho diritto d'udienza col gran cerimoniere del truman, fra un continuo "ragazzi, ragazzi, ragazzi" solo risposte negative,impossible noleggiare,impossibile comprare,la stagione è finita si impacchetta tutto e si torna in Italia e poi "è pericoloso muoversi al di fuori del villaggio" giro il culo e non rispondo mentre nei vari negozietti impacchettano i troiai coi prezzi in euro. Quando vedo queste realtà da un lato mi deprimo ma dall'altro mi sento veramente fiero per aver fatto nascere Il Viottolo che vedo sempre di più come un modello di turismo da esportare. Dopo una pausa ricomincia a piovere forte, ci rifugiamo da Ciccio dove all'ora di pranzo si riunisce la piccola Italia Bizertina, ci sono soprattutto i siciliani che "tciavaghiano" nel settore ittico, e un gruppo di toscani e nord italiani impiegati in una fabbrica di scarpe. Davanti agli spaghetti siamo comunque tutti di buon umore, tutti meno gli incravattati, i manager meneghini che sbiancano come i polpi con la cuffia girata davanti alle notizie televisive sulla crisi economica. Piove sempre più forte e così mi faccio una panciata di televisione con il crollo della borsa, l'isola dei famosi e una serie di stronzate che ridanno dignità (parolone improprio ma quello giusto un mi viene) alle telenovelle egiziane e ai tunisini che le guardano incantati nei cafè. |
AuthorUmberto
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"Vanno vengono a volte ritornano" (Liguri e Nuvole) E' ancora buio e piove quando andiamo alla stazione dei pullman, l'unico per Tabarka parte alla sei. Fra piovaschi e temporali arriviamo a Tabarka alle 10, sotto la pioggia andiamo subito al porto in cerca di un "passaggio" per La Galite. C'è la barca di un diving che sta partendo per fare un'immersione, il boss dice che non c'è problema con le autorizzazioni ma che ormai non è più stagione, il secondo diving ci spara una cifra assurda, il terzo propone un'escursione di giornata con pranzo a bordo, gendarmeria e guardia Nazionale non ci sanno dire niente. Visto che siamo qui proviamo a capire se si riesce ad entrare in Algeria, all'inizio sembra che non ci siano problemi, la cosa è assai strana, ma qui spesso le cose apparentemente più difficili si risolvono velocemente, ma questa volta no e alla fine la frontiera resta un limite invalicabile per chi non è Algerino o Tunisino. Smette di piovere e andiamo a visitare l'Isola di Tabarka e il suo Forte Genovese, i francesi durante il periodo coloniale hanno costruito una strada rialzata che collega l'isola al continente, odio queste violenze che trasformano le Isole che sono sempre terre di magia in anonimi lembi di continente e vorrei organizzare un comitato per la liberazione delle isole da ponti e strade e festeggiare con un grande botto globale simultaneo da Tabarka all'isola di Chiloè in Cile. Sulla prima cinta di mura ci accoglie una lapide di marmo che recita "I Tabarkin du paize uiza de San Pe in Sardegna doppu 250 anni in vixita a Taborka tera di Vegi pe Memoria Taborka au II de settembre du 1988" I Vegi erano i Pegliesi che seguirono i Lomellini quando nel 1540 a seguito delle trattative fra Barbarossa e Andrea Doria per il riscatto di Dragut, l'Isola venne assegnata a questa potente famiglia ligure alleata dei Doria che era interessata alla pesca e al commercio del corallo. La comunità Pegliesi d'Africa che si ribattezzarono Tabarkini visse qui fino al 1741, quando il corallo cominciò a diminuire i traffici e i commerci non andavano tanto bene, il Bey di Tunisi prese il possesso di Tabarka. Carlo Emanuele III di Savoia propose ai "Tabarkini " di colonizzare L'Isola di San Pietro nel Sud della Sardegna, buona parte della popolazione accettò e capitanata da Agostino Tagliafico raggiunse la disabitata Isola Sarda e la colonizzò. I Tabarkini mantennero la loro identità ligure anche in terra di Sardegna parlando e scrivendo in genovese antico, lo stesso scolpito nel marmo davanti a noi. Un ragazzino mi dice con tono minaccioso che la zone è interdit, ma poi visto la scarsa considerazione dimostratagli chiama gli altri bimbetti e cambiano loro zona. Il forte è in restauro, ma forse sarebbe meglio dire in rinforzo, sui bastioni bassi che sono lesionati i ponteggi con ferrotubi basculanti sembrano usciti dall'antimanuale della 626. La fortezza è costruita sul culmine dell'isola che poi si tuffa nel mare possente e statica come una cascata pietrificata. Il cielo lavato dalla pioggia è ora terso e a nord ci fa vedere la sagoma de La Galite, l'Isola dei pescatori anarchici esiste davvero, non è un miraggio della fantasia. Il vento è teso e le nuvole cangianti lo attraversano veloci, nel cervello mi suona ossesiva e amica l'onirica voce Sarda che dà inizio alle Nuvole di De André "Vanno vengono ogni tanto si fermano – e quando si fermano sono nere come il corvo – sembra che ti guardano con malocchio – Certe volte sono bianche e corrono e prendono la forma dell’airone o della pecora o di qualche altra bestia…" Da una delle finestre del forte si affaccia il guardiano del faro "interdit zone militaire" dice di andare via, poi scende giù e apre il portone, il cicchetto ringhiato in breve si trasforma in una eccezionale concessione per visitare il forte da dentro, con la raccomandazione di non sporgersi dai bastioni per evitare che gli operai vedano e facciano la spia, è tutta una recita ma stiamo al gioco ben felici di visitare questa favolosa fortezza piena di cunicoli, garitte e segrete. Da sopra i bastioni si ammira un panorama superbo che spazia dalla costa rocciosa del versante Algerino a le montagne ricoperte di sughere dell'interno, per perdersi nelle grandi dune di sabbia lungo la costa ad est dell'abitato, purtroppo si vedono anche i tanti cantieri di alberghi in costruzione che stanno rovinando ancora di più un paesaggio già menomato dal cemento, ma che conserva ancora scorci di grande bellezza. Ringraziamo il fanalista che ci ha ospitato e scendiamo da un viottolino visto dal forte che scende lungo la scogliera sotto i bastioni di ponente. La luce è sempre più bella e il sole fa luccicare le massicce mura ancora bagnate dalla pioggia, scendendo fra giunchiglie e barba di giove ci ritroviamo nuovamente sulla spiaggia dove un antico cannone insabbiato ci ricorda che stiamo camminando sulla storia della pirateria del mediterraneo. C'è un omino magrissimo con una voce da baritono che sta parlando con due persone che non vedo, uno con una voce stridula e uno roco, ci metto un po' a capire che Il matto di Tabarka in perfetta solitudine sta facendo un comizio fra le rocce e la spiaggia, è un grande degno del miglior Giovannino di Pomonte interpreta tre personaggi da vero artista e mi rammarico tanto di non capire l'arabo. Buone nuove su La Galite non ce ne sono e passare la frontiera algerina sempra cosa assai complicata, andiamo a fare un giro verso il promontorio a ovest dell'abitato da dove si dovrebbe vedere bene la Costa Algerina, passiamo dalle Aiguilles, i pinnacoli di roccia che sono uno dei simboli di Tabarka e effettivamente sono molto belle per forma e colore, peccato che per renderle più accessibili le hanno circondate di cemento, una passeggiata criminale per quanto è brutta, cammina per qualche centinaio di metri lungocosta raggiungendo anche un altro ecomostro, un anfiteatro di cementoarmato, poi fra cantieri edili e strade in costruzione raggiungiamo la scogliera dopo essere passati da una strada in costruzione che a causa delle forti piogge è finita in mare e fa un certro effetto vedere il guard rail sospeso per aria e una cinquantina di metri più in basso i resti della strada dentro il mare. La scogliera è bella e ha un che di Monte Grosso ma dal mare Algerino spinte da un vento freddo stanno arrivando delle nuvole che "sono nere come il corvo" quindi si torna indietro e l'acqua grossa arriva quando ormai siamo in paese e fra tettoie e botteghe in smantellamento ce la sterziamo bene. L'unico mezzo per rientrare a Bizerte è il louage, dopo una trattativa di un'oretta con altri sei troviamo un louage che ci porterà fino a Beja e da lì saliremo su un louage diretto a Tunisi, sembra strano a raccontare ma è tutto legato a dove i tassisti si fermeranno a mangiare alla fine del giorno di digiuno, il nostro a Beja e il tassista che ci sta aspettando andrà a mangiare a Tunisi. Si cambia al volo in una piazzola, il nuovo tassista viaggia come una scheggia col suo ducato dalle tendine ricamate, sorpassando tutto quello che si presenta davanti, un pik-up carico di poponi gialli ci taglia la strada e rischiamo di brutto e l'autista "occhi di demonio" si incazza così tanto che dopo aver litigato per un paio di chilometri dal finestrino con il poponaio comincia un comizio su come si guida con i passeggeri, è talmente preso che si dimentica che aveva furia e da un passo da 120 chilometri all'ora passiamo a 40 di media. Arrivati a Tunisi occhi di demonio sceso dal Ducato sembra un agnellino e ci saluta con fare da chierichetto. A pochi metri c'è un louage con solo due posti liberi diretto a Bizerte, si sale e si parte subito. Intorno all'una uscendo da internet vediamo per la prima volta il ponte aperto con i rimorchiatori che trainano un mercantile all'interno del lago di Bizerte. |
Delusione grande Con la testa già a La Galite ci troviamo con Ciccio e Mustafa davanti al palazzo del Governatore. La burocrazia tunisina è più labirintica di quella italiana, in questi palazzi ci sono decine e decine di poliziotti, attendenti e impiegati, è un formicaio di dipendenti dello stato che combinano poco e guadagnano meno. Gli uffici, ci spiegano sono resi efficienti dai cittadini e dalle grandi aziende che contribuiscono fornendo il necessario per svolgere il lavoro, dalle risme di carta alle biro, lo stato da il posto di lavoro a tante persone ma le paga poco, però sono posti assai ambiti perché permettono di arrotondare bene a tutti i livelli grazie alla "necessaria generosità" della gente, un sistema che qui è considerato normale. Entriamo nell'ufficio della verità, il padrone di casa parla con Mustafa in arabo e poi ci dice che la procedura è lunga e complicata e che ci vorranno mesi. La Delusione è grande per noi e anche per Ciccio, ma non mollo di certo, La Galite è diventato un obbiettivo. Riprovo allo sport nautique per cercare di noleggiare un Kayak per qualche giorno per fare il tratto da Bizerte a Tabarka ma non c'è verso di trovare il responsabile e comunque trovo solo risposte negative. Domattina si va nuovamente a Tabarka per capire se da lì c'è qualche possibilità per andare sull'Isola dei PonzoGalitesi. |
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Domani inschallah… Mi chiama Ciccio per darmi appuntamento a domani mattina, andremo insieme a Mustafa al palazzo del Governatore per La Galite, ormai la cosa dovrebbe essere fatta. Intanto ci cominciamo a muovere per le autorizzazioni per entrare in Libia. Al telefono parlo con Nicol che è tutta entusiasta della scuola e del corso di danza. |
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World music Mustafa ci dice di risentirci fra un paio di giorni, con le autorizzazioni della gendarmeria bizertina ci siamo, mancano quelle del governatore. La giornata è bella e ci andiamo a fare un altro giro da portoghesi con la canoa del villaggio turistico, poi in serata a Le Muse, il circolo culturale dove si va tutte le sere perché c'è la wi-fi, c'è un bel concerto nella chiesa sconsacrata con un gruppo che miscela la musica araba con quella europea e sudamericana |
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Nuotando controcorrente Il tempo è piovigginoso facciamo un giro nella parte più recente di Bizerte che si sviluppa oltre il canale che collega il lago omonimo al mare. La parte più interessante è quella a monte del ponte levatoio con due grandi moschee e un prato esteso di fianco al canale, arredato con gigantesche eliche di navi che in questo periodo di Ramadan diventa un grande dormitorio pubblico. Lungo la sponda ci sono tane persone che pescano a cannella e una grassa signora con una tinozza piena di vermi che li vende per esca. Arriva la bassa marea e l’acqua del lago defluisce velocemente verso il mare, ci sono diversi sub che stanno pescando, nuotano controcorrente stando praticamente fermi e aspettano che il pesce gli passi davanti, resistono qualche minuto e poi accostano e si riposano, catturano più che altro muggini, salpe e polpi che nel fondale ciottoloso sono numerosi, quelli pescati ormai cadaveri sventolano allungati dalla corrente legati alle cinture dei sub come ogliere albine. Il sole si fa largo fra le nuvole che sanno di autunno mentre si rientra verso Bizerte ripassando dal ponte levatoio. |
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Il porto dei corallari e la pentola segreta Appuntamento con Ciccio alle undici al porto dei pescatori dove c'è la sede della sua attività principale, quella di grossista del pesce, qui ci sono gli uffici,la grande cella frigorifera e il Tir che guida il figlio con il quale due volte a settimana si imbarca carico di pesce da TUnisi per Palermo. Incontriamo anche Mustafa il socio tunisino che ci dice di risentirci lunedì. IL porto peschereccio di BIzerte è piuttosto grande, è come un lago artificiale con ingresso ridossato da una lunga diga, nella parte più esterna ospita le grandi paranze di ferro che sono così rugginose da sembrare relitti, mentre quella interna è formata da tre moli dove sono ormeggiate le barche di legno da pesca costiera e ci sono tante barche di corallari che si riconoscono per le camere iperbariche (alcune ne hanno anche quattro) e per le grandi manichette gommate.La costa settentrionale della Tunisina è famosa da secoli per la ricchezza e la qualità del suo corallo, qui in tanti sopratutto italiani si sono arricchiti velocemente con "l'oro rosso". Alla fine del secondo molo, nascosto da reti accatastate e da gallegianti e segnali, un pentolone sta bollendo sopra un fornello a gas, i "pescatori peccatori" non gradiscono le foto che mi viene di fare al pentolone del Ramadam e al pacco di pasta che fa capolino da dietro una stagna gialla, e mi invitano ad allontanarmi mentre un ragazzino ingenuamente nasconde il sacchetto di pasta. Mancano pochi giorni alla fine del Ramadan e l'attesa per l'Eid è sempre più forte, anche (sopratutto) per chi non rispetta i precetti della religione islamica ed è già partito il totoluna per capire in quale giorno inizierà la festa. |
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Da Didone a Ben Ali Il tempo è brutto e minaccia pioggia, andiamo a Tunisi con un louage, voglio vedere il Museo del Bardo e quello che rimane della mitica Cartagine. Un’oretta e siamo alla stazione nord di Tunisi, il Museo del Bardo si raggiunge in pochi minuti, nei giardini c’è un raduno di auto storiche dove spicca una Diane da rally raid. Il palazzo che ospita il museo è grande ed elegante, un tempo era la residenza ufficiale del Bey di Tunisi, vicino all’ingresso c’è un deposito di mosaici in attesa di collocazione, prima che ci mandino via ammiriamo cataste di meraviglie che forse era meglio lasciare nei luoghi di origine. Il Museo del Bardo (a parte una sezione dedicata alla genesi dell’universo, dal Big Bang alla Pangea, fino alla comparsa della vita sulla terra e all’evoluzione dell’uomo dai primi ominidi all’Homo Sapiens) ripercorre la storia della Tunisia dalla preistoria al protettorato francese, però i mosaici del periodo romano sono la meraviglia di questo museo, ce ne sono centinaia alcuni enormi di oltre centoquaranta metri quadri, bellissimi colorati con forme che t’incantano e ti proiettano indietro nel tempo, nelle scene di vita quotidiana e nella mitologia, nella vita dei grandi personaggi storici, nella lussuria elegante e fiera raccontata in decine di mosaici (nella galleria fotografica di elbaeumberto c’è una serie di scatti dedicata ai mosaici del Bardo). Cinque ore volano ma per descrivere tutto ci vorrebbe un mese. Per raggiungere le rovine di Carthago, bisogna attraversare Tunisi e con il petit ci vuole quasi un’ora, la medina per quanto grande è solo un piccolo quartiere di una grande area urbana dove abitano circa due milioni di abitanti, più di un quinto dell’intera popolazione della nazione. La città è in grande espansione, ci sono cantieri con grandi gru da tutte le parti che costruiscono grattacieli specchiati nell’ostentazione di una ricchezza che si vuol far credere di tutti. Fra il cielo grigio e il puzzo di smog mi sembra di essere dentro Blad Runner con le pubblicità enormi dei colossi dell’elettronica e della finanza che dominano il panorama da sopra i tetti dei palazzi più alti. Finalmente vedo la collina di Byrsa, il luogo dove Didone secondo la leggenda fondò Cartagine nell’814 avanti cristo. Scendiamo e mi libero dell’insistenza del tassista che assolutamente mi vuole accompagnare a fare un giro da turista. Le tracce di Cartagine sono mimetizzate dentro la città, a differenza di Roma che ti fa respirare e ti avvolge nel suo glorioso passato di cui ogni Romano si sente orgoglioso, Cartagine giace nell’indifferenza, te la devi cercare e anche un po’ immaginare. Qui intorno ci sono i resti di grandi cisterne e il circo massimo, che è diventato una collina cimitero, l’anfiteatro si riconosce bene (ci sono anche i guardiani e un biglietto da pagare, sono buffi se ne stanno in un angolo a fumare ignorando i precetti del Ramadan) è praticamente abbandonato ma forse proprio per questo ancora più affascinante, con i gradoni erbosi e con i camminamenti sotterranei scuri e muschiosi che sanno di mistero, sembra si sentire l’odore del sudore e del sangue impregnato in queste pietre da fiere e gladiatori, l’uscita è spoetizzante con la gente che dormicchia sotto i pini fra la spazzatura. Salendo verso la Byrsa sbucano reperti da tutte le parti, anche perché è tutto piuttosto brullo, forse il sale sparso nel terreno dai Romani in seguito alla distruzione della Cartagine Punica nel 146 avanti cristo è ancora presente nel suolo. Il panorama è dominato dalla grande cattedrale sconsacrata di San Luigi che fu costruita dai francesi nel 1884 proprio sul culmine del colle, dove era il cuore dell’antica Cartagine, per ostentare il proprio potere, sfregio che non fa certo onore all’ultima mandata di galli coloniali. Città sopra città, sopra città, ognuna con i propri simboli da ostentare e gli altri da cancellare, questa è la storia della collina della Byrsa che si erge davanti al mare in posizione di dominio sul superbo Golfo di Tunisi (un gigantesco porto naturale fra capo Bon e Capo Farina che nella forma ricorda la darsena di Portoferraio) e sulle lagune e pianure circostanti (dove oggi si estende a perdita d’occhio Tunisi). La leggenda dice che Didone da scaltra Fenicia qual’era (la leggenda l’ha scritta Virgilio che era Romano) trattò con gli abitanti del posto l’acquisto di una porzione di terra grande come una pelle di vacca, pelle che poi tagliò a striscioline circondando la base della collina e sul poggio costruì la sua città. Cartagine fu veramente fondata dai Fenici intorno all’ottavo secolo avanti cristo per consolidare i traffici commerciali nel nord Africa, in breve divenne la più potente città di questo popolo di navigatori ed estese i suoi territori dalla Libia alle Baleari occupando anche la Sicilia e la Sardegna. Il domino sui traffici del mediterraneo la portò allo scontro con Roma che iniziò nel 263 con la prima guerra punica e si concluse nel 146 alla fine della terza, con la distruzione di Cartagine. Dopo un secolo, nel 44 sotto Giulio Cesare, Roma rifonda Cartagine, viene spianata la sommità della collina e nella grande radura costruito il cuore della città con il Campidoglio, il foro, la basilica e i templi principali, in breve tempo cresce in dimensione e importanza fino a diventare la terza città dell’impero dopo Roma e Alessandria. Cartagine rimane comunque il fulcro della vita sociale e politica anche sotto la dominazione dei vandali e quella successiva dei bizantini per poi venire abbandonata intorno alla metà del settimo secolo con l’inizio della dominazione araba. I maomettani costruiscono la Medina di Tunisi facendola diventare il centro del potere e usando la città fondata da Didone solo come cava di pietra. Oggi Cartagine è il quartiere bene di Tunisi, qui ci sono le ville dei ricchi tunisini e di tanti arabi mediorientali che si trasferiscono in Tunisia attratti dai costumi tolleranti degli eredi dei pirati di Barberia. Dietro la chiesa che, se pur diversa, sa di altare della patria, c’è il museo Archeologico che è ricco di reperti eccezionali e come tutti i musei ha negli angoli le postazioni dei custodi che se ne stanno immobili appolpiti e unti in attesa della chiusura. I custodi dei musei hanno sempre le solite facce tristi e scoglionate, che sia la villa di Napoleone di San Martino o’l Museo di Cartagine. Anche qui ci sono mosaici favolosi, c’è un leone che sembra vivo e una nobildonna che ostenta un culo moscio e cellulitico. La parte che parla della Città Punica ha delle bellissime riproduzioni dell’eccezionale porto militare a pianta circolare. Lasciato il museo scendendo verso il mare si passa dal quartiere Punico che è stato scavato di recente e si è conservato perché fu sotterrato dai detriti degli sbancamenti fatti dai Romani, è una zona chiusa ma non c’è nessuno e la attraversiamo, ci sono le case con i bagni interni e dei sistemi fognari molto raffinati, risalgono al terzo secolo avanti cristo. Lasciamo le case del Tempo di Annibale e scendendo troviamo un’apertura nella recinzione e dopo un po’ di svicolate fra grandi villoni recintati arriviamo al mitico porto di Cartagine. Purtroppo non si vede quasi niente, solo un isolotto dentro un laghetto salmastro circolare dove era il porto militare difficile da decifrare, insabbiato e abbandonato oggi è sfruttato solo per tenerci qualche barchettino. Sull’ isolotto si vedono i resti di questa meraviglia con gli scivoli per mettere in mare gli armi dai ricoveri sopraelevati, era il porto perfetto ulteriore dimostrazione che l’evoluzione non è cronologica o perlomeno non è costante. Inizia a piovere, le aree archeologiche stanno chiudendo, il ramadan colpisce ancora. Camminiamo lungo costa in direzione delle Terme di Antonino che sono chiuse ma anche qui c’è un cancello aperto, è un complesso enorme queste erano le più grandi terme fuori da Roma e nonostante quasi due millenni di saccheggi sono impressionanti, sembra di camminare nei fori imperiali solo che si è in riva al mare e circondati da palme. Non c’è nessuno solo la pioggia che però rende il tutto ancora più bello ravvivando marmi e mosaici, un bercio mi sveglia, è un guardiano incinghialito, dopo un cazziatone in arabo ci concede altri cinque minuti, voglio fotografare le colonne del frigidarium che spiccano davanti al mare ma un soldato con un mitra più lungo di lui mi dice di tornare indietro, mentre da una serie di garitte ne fanno capolino altri, si esce, poco dopo si capisce il motivo di tanta aggressività, le terme confinano con la residenza presidenziale. Camminiamo per raggiungere Sidi Bou Said il famoso quartiere degli artisti europei che si dice sia il ritrovo degli artisti in giro per il nord Africa. Il vialone è un incubo di traffico e militari in uniforme e in borghese che controllano le tante sedi diplomatiche lungo la via. Sidi Bou Said si sviluppa su un promontorio affacciato sul mare, ricorda nelle forme e nei colori delle case la Kasbah di Rabat in Marocco e la cosa buffa è che anche lì pioveva, è un villaggio bianco e celeste costruito con un’architettura morbida ed elegante di influenza Andalusa che fu portata qui nel mille e cinquecento dai mussulmani in fuga dalla Spagna tornata cristiana, prende il nome da un maestro Sufi del tredicesimo secolo. E’ un bel posto, bello ma troppo patinato e da turisti, con i negozi di souvenir e i prezzi europei. E’ ormai sera sotto un diluvio raggiungiamo al stazione del tranvai ma il macchinista mi dice che per un paio d’ore si ferma tutto per la cena, lo diciamo anche a una ragazza giapponese che però dopo aver sorriso disciplinatamente continua ad aspettare sotto la pioggia. Anche i petit si fermano per la cena, ma la fortuna vuole che uno sta rientrando verso la zona nord così raggiungiamo la stazione dei louage e da lì Bizerte. |
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Don Ciccio E’ tornato Ciccio il nostro amico Siculobizertino che ha preso a cuore la storia de La Galite e mi sta aiutando a trovare una soluzione per le autorizzazioni. Come tutti gli italiani che lavorano all’estero ha una gran voglia di parlare, mi racconta del suo inserimento a Bizerte, dei tunisini e degli italiani che si rovinano quando sposano le tunisine. “i tunisini non hanno una personalità” mi dice “se te diventi come loro sei finito, un giorno si prendono a coltellate e il giorno dopo vanno a braccetto” e poi a fronte alta e con gli occhi scintillanti aggiunge “ noi Siciliani siamo diversi, abbiamo un onore” “qui è tutto facile, per gli affari basta farsi le amicizie, ma la tua personalità non la devi perdere mai” “i tunisini” continua “non sono bravi a avere le idee però sono gente che si fida e rischia con te, non sono come gli italiani che non rischiano mai e fanno morire tutto”. Lui e la moglie hanno deciso di trasferirsi qui definitivamente e anche i figli stanno pensando di fare lo stesso. Ciccio è un capo e si sente, non ostenta, È. Testa alta e occhi sempre vigili sorride a tutti e saluta sempre per primo, è un boss buono col pallino degli affari che si gratifica nell’aiutare le persone, innamorato della sua famiglia e con lo sguardo sempre acceso sul futuro che però, come tutti i nonni, diventa mansueto e rincoglionito di felicità quando ti fa vedere la nipotina. |
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Il confine Africano di Roma e le grotte di Sidi Ali el Mekki Sveglia alle cinque per arrivare prima dell’alba alla spiaggia di Sidi Ali el Mekki, alla base meridionale di Capo Farina. Le sagome prendono forma nella prima luce del giorno quando arriviamo al villaggio di Ghar el-Melh disteso fra la creta meridionale del Jebel Nadour e una grande laguna immobile. Questo piccolo mare interno un tempo era il famoso porto dei pirati di Capo Farina, vicino al canale principale, oggi insabbiato, ci sono tre possenti forti ben conservati i cui cannoni respinsero la flotta di Sir Francis Drake nel 1654. All’inizio ottocento la pirateria fu bandita e il porto fu convertito a traffici commerciali “legali” ma dopo poco una piena del oued Medjerda riempì la laguna-porto di sedimenti e dopo vani tentativi di dragaggio il porto venne abbandonato e le imbarcazioni che facevano base qui si trasferirono alla Goulette. La spiaggia è deserta, nel silenzio la luce aumenta, l’alba si accende con il sole che sbuca dalle foschie marine e poi sale veloce fra l’isola piatta e Zambra. Le dune ricoperte di ginepri si disegnano di ombre lunghe sotto lo sguardo di una gigante luna piena che non vuole lasciare la scena, la costa alterna spiaggette bianche di polvere di conchiglie e scogliere gialle, negli anfratti più ridossati le barche e le reti dei pescatori che fra le dune hanno le loro case capanna un po’ in muratura e un po’ di legno e frasche, fra le dune ombreggiate stalle, pollai e cani da guardia, uno sbavante e rabbioso che ringhia minaccioso mi fa girare largo fra ginepri e tramariggini. C’è profumo di mare e di macchia, aria di casa, i colori caldi e definiti delle mattine estive di maestrale, il sole caldo e vento salmastro, nei gineprai merli e tordi fanno festa e in alto volano rondini, balestrucci e falchi, sulla costa i pescatori lanciano il razzaglio ai muggini. Arriviamo a Capo Farina, confine dell’impero romano dopo la conquista di Cartagine del 146 avanti cristo, doppiato il Capo finisce il ridosso e il mare inizia a biancheggiare, qui la costa è tutta rocciosa, segnata dalle ferite rette delle antiche cave di pietra da cui sono stati estratti enormi blocchi, è la stessa roccia conchiglifera della costa di El-Haouaria, la madreperla delle antiche conchiglie riflette la luce così come il sale depositato nel letto delle cave rispecchia lucente il sole africano. Questo tratto sa di Pianosa, ma in generale Capo Farina ricorda i sentieri di Capo Corso soprattutto i viottoli fra le dune e i ginepri nella zona di Barcaggiu. Lungo la via del ritorno la macchia si arricchisce di pini d’aleppo, di lentischi, olivastri e fillirea, in alto in posizione di dominio una casa nivea e custodita da due cani anch’essi candidi che abbaiano aggressivi dal tetto. Scendiamo nuovamente verso il mare per poi risalire fra le “serpaie” fino al grande mausoleo di Sidi Ali el Mekki un famoso marabutto sufi che viveva qui. All’esterno le tombe di marabutti minori, si entra poi da una porta verde, c’e la casa del guardiano che rimane indifferente alla nostra presenza, una serie di cunicoli ci portano in una grande grotta imbiancata di calce con due finestre con le inferriate che guardano il mare, al soffitto ganci di ferro dove il marabutto e i suoi seguaci davano prova della sopportazione del dolore entrando in stato di trance e conficcandosi i ferri nella membra appendendosi poi al soffitto. Le pareti sono piene di impronte di mani insanguinate che creano una tetra suggestione, sul pavimento le botole di due cisterne d’acqua e alla spalle un grande catafalco con all’interno la tomba del gran marabutto. Sul fianco interno della grotta un passaggio conduce ad un'altra grande caverna rivestita di calce, senza finestre e con un grande altare al centro, è un ambiente enorme, silenzioso, che odora di calce e terra umida, un po’ affascinante e un po’ inquietante la caverna moschea per secoli ritrovo di Sufi, i mistici mussulmani tanto venerati in questa zona a cui anche i pirati chiedevano intercessioni. Si torna a Bizerte e si consegna la vettura con un ritardo accettabile. |
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