AuthorUmberto

Mercoled?¨ 11 Giugno 2008 Al Hoceima

  Il commissariato  
Mercoledì mattina telefoniamo al consolato italiano a Casablanca, spieghiamo la situazione e quello che è successo, ci dice che è inutile stare a discutere sulle scadenze, che bisogna pagare una multa, ma di evitare assolutamente la gendarmeria notoriamente corrotta e confusionaria, dobbiamo andare al commissariato di polizia, è solo una formalità su un problema che si verifica spesso, mi spiega   che basta riempire un modulo (il PV), aspettare un paio di giorni che la polizia lo consegni al tribunale il quale emetterà una condanna per il  pagamento di una multa di tremila dirahm a testa, dopo di che dovremmo uscire dal Marocco (verso Melilla) e rientrare, meglio il giorno dopo, con la possibilità di rimanere ancora tre mesi. Sembra tutto molto semplice e risolvibile, andiamo subito al commissariato, sono le dieci di mattina. Un agente ci dice di attendere nell’ufficio a sinistra, arriva un ragazzo con fare arrogante che ci chiede cosa facciamo lì, dico che dobbiamo fare il pv, ci accompagna nell’ufficio a fianco dove c’è un funzionario più anziano che dice assolutamente no, gli spiego che siamo lì per regolarizzare la cosa su precisa indicazione dell’ambasciata italiana, ma ci dicono no no senza ascoltare, affermano che dobbiamo presentarci alla polizia della dogana delle città in cui siamo entrati in Marocco. Insisto che dobbiamo fare il PV, certi della legalità della richiesta perché ce l’ha detto l’ambasciata italiana, continuano a dire no e a non ascoltare. Insisto e iniziano a minacciare verbalmente, dicendo che siamo in una posizione di clandestinità, che dovrebbero arrestarci ed espellerci dal paese e la minaccia di carcere viene ripetuta più volte “prigion prigion”  incrociando i polsi. Ci controllano i passaporti e viene fuori che quello di Serena alla dogana di Melilla è stato regolarmente timbrato per l’uscita dal paese, rispieghiamo i fatti ma è tempo perso, il disco è quello, arresto di manette e prigione, Serena è a posto ma per me c’è l’arresto e devo rimanere lì.
Ci tengono almeno tre ore senza farci sapere niente, sotto lo sguardo cinico e  imperturbabile del ritratto del  precedente re Hassan II, personaggio amato delle forze militari molto più dell’attuale re Mohammed VI, ma che a differenza dell’ultimo sovrano con la gente di queste parti non aveva un buon feeling anche perché subito dopo l’indipendenza marocchina del 1956 guidò lo sbarco delle truppe reali a Al Hoceima per disperdere con la forza la ribellione dei rifegni che seguendo anche le indicazioni di Abd el Krim avevano combattuto  per l’indipendenza del Marocco riconoscendo l’autorità del re nella speranza di entrare nella gestione locale della nuova nazione, speranza che risultò vana perché il re e il suo entourage mise in tutti i posti di comando gente araba tagliando fuori i berberi del posto da tutte le cariche.
Poi proclamano che Serena è libera e deve tornare in albergo e io devo rimanere lì in stato di arresto. Serena non vuole andare. “Non puoi scegliere, sei libera e devi andare in albergo, non puoi rimanere qui, non è una tua scelta”. Chiedo spiegazioni: “perché il passaporto di Serena è stato timbrato anche se erano scaduti i termini?”
“non è un problema nostro, ma della polizia della dogana”

“Chiamate la polizia della dogana per chiedere”
“È tutta la mattina che parliamo con quelli della dogana”  
“E allora chiedete perché?”
“Non è un problema nostro, è un problema tuo”
“Serena ha un timbro di uscita e invece è ancora qui!”
“Vuol dire che è in Marocco illegalmente”
“E allora chi mi garantisce che quando arriva a Melilla puo passare la frontiera?”
“Noi” 
“Voglio un documento scritto” 

Si rifiutano di metterlo per scritto, provano in tutti i modi a separarci, gli rispiego che noi siamo andati da loro per regolarizzare la nostra posizione su indicazioni della nostra ambasciata e che sono sicuro di quello che dico, se loro non vogliono fare la procedura pv che ci restituiscano i documenti e andiamo direttamente all’ambasciata italiana. I documenti li tengono loro.
Gli chiedo se posso telefonare mi dicono che il telefono funziona solo all’interno della caserma, gli faccio notare che prima aveva chiamato la polizia di frontiera, mi invitano a provare ridendo. 
Chiedo conferma se Serena è libera, alla risposta affermativa esce e va a telefonare da un telefono pubblico, ma il passaporto non lo consegnano nemmeno a lei.   
Si irritano quando pretendo che mettano per scritto la posizione  regolare di Serena, cosa che chiaramente non fanno. 
Appena esce inizia un interrogatorio aggressivo fatto di urli e minacce:
“Che ci facevi a Torres? sei un sindacalista? sei un periodista comunista? Noi non amiamo quelli come te! Cosa pensi dell’Islam? cosa pensi del nostro re? ….”  E ogni volta che accenno una risposta mi parlano sopra, “cosa pensi di noi?”  mi esce un “che siete arabi”
“Razzista! te sei razzista! la nostra cultura è contro il razzismo e tu sei razzista!!! odi l’islam e il Marocco, il Marocco è una nazione islamica, te sei un razzista, intanto questa notte dormirai in prigione poi si vedrà” Tutto urlato a tre centimetri.
Gli dico che stanno abusando del loro potere, che non possono trattenere i documenti e di stare attenti perché esistono le leggi internazionali, la carta di Ginevra e che prima di venire qui avevo contattato la diplomazia Italiana, che io le leggi le conosco bene. Cercano in tutti i modi di provocarmi, mi chiedono le stesse cose cento volte e quando capiscono che ho una grande ammirazione per la gente Amazigh cominciano a offendere anche loro. Faccio una gran fatica a non reagire ma mi faccio forza del fatto che loro sanno benissimo che si stanno comportando illegalmente.
Rientra Serena, al telefono la dottoressa Zerbi, la diplomatica che avevo sentito in mattina, gli dice che tutto questo è assurdo, che non lo possono fare, è abuso di potere e non ci possono minacciare ne trattenere, ne tanto meno arrestare, che il pv è una normale procedura d’ufficio che loro debbono semplicemente attuare e ci dice di farsi consegnare i passaporti e di andare a Fes dove c’è il rappresentante consolare più vicino. Serena ha chiesto che un funzionario consolare venga al commissariato ma le viene risposto che è troppo lontano, dobbiamo chiamare il corrispondente consolare di Fes, Meliani, quello che abbiamo conosciuto a Fes.   
Meliani prende tempo per parlare con il consolato, Serena insiste perché chiami direttamente il commissariato di Al Hoceima per farci rendere i passaporti perché andiamo da lui a Fes per fare la procedura del pv come ci ha detto di fare la Zerbi, visto che lui è marocchino dovrebbe risultare più facile il dialogo con la polizia. Meliani risponde: “non ti proccupare cerco il numero e chiamo subito” Serena è  tornata  in caserma convinta che sia tutto risolto, mi racconta che è stata seguita fino alla cabina telefonica da un poliziotto che cercava in tutti modi di convincerla a tornare in albergo perché lei è libera.
Le domandano cosa ha detto l’ambasciata. “non potete trattenerci i passaporti, li riprendiamo ed andiamo a Fes dal referente consolare che ci aiutera’ con la pratica per il pv”.
Dicono di no, che hanno gia’ aperto loro la pratica del pv presso il tribunale.
Chiedono a Serena se vuole fare anche lei il pv o se va direttamente a Melilla che tanto non ci sono problemi.
Chiediamo un documento scritto, telefonano al responsabile della dogana e lo fanno parlare con Serena, lui conferma che non ci sono problemi, Serena chiede il documento, lui dice che al commissariato non possono farlo, lei chiede che lo faccia la dogana e lo spedisca per fax, niente, dice che da’ la sua parola e anche lui le dice di andare in albergo.
Passa ancora un po’ di tempo e Serena ritorna a telefonare, gli ripeto che loro stanno abusando del loro potere  …. E loro che io devo andare in prigione che siamo in Marocco e loro conoscono bene la legge marocchina, mi dice che è inutile che parli, qui siamo in Marocco e loro capiscono solo la lingua araba.
Poi si capisce che è arrivata la telefonata, cambia lo scenario, si muove qualcosa, ma continuano a fare le stesse domande decine di volte, perché sono lì, per l’ennesima volta riprovo a spiegare ma non ascoltano, e ancora mi chiedono il percorso e le tappe del viaggio e per l’ennesima volta fanno finta di scriverle. Nel tardo pomeriggio cambia tutto, iniziano a darsi da fare “il gran messier sarà accontentato” mi dicono a denti stretti in francese e italiano e iniziano a preparare i moduli del pv, ci chiedono tutti gentili se abbiamo sete o fame e si scusano se non parlano italiano ma solo francese. Arriva anche il grande capo che con fare da boss dice che è tutto a posto, grazie alla loro efficienza è stato risolto tutto e ci domanda se ora siamo contenti, irritato dalla mancanza di prostrazioni se ne va via stizzito. Ci trattengono senza motivazione i passaporti, alla fine dell’ennesimo interrogatorio chiudono con un serafico  “la legge dice che dovrei metterti in prigione ma per me e lo faccio per lei (Serena), pur essendo agli arresti, puoi andare a dormire in albergo”
Pretendono scuse e ringraziamenti che non arrivano.

Appuntamento a domani per la procedura pv.     

E’ ormai sera quando usciamo dalla caserma, telefono all’ambasciata e mi confermano che sono intervenuti attraverso il comando di polizia di Casablanca e che è tutto a posto, i passaporti non ce li hanno restituiti perché gli brucia avere ricevuto  la telefonata dai loro superiori e la fanno cascare dall’alto per orgoglio, ma il problema è risolto. Anche il referente consolare mi conferma che è tutto risolto.
Camminiamo per Al Hoceima, è una distesa selvaggia di cemento e la famosa spiaggia non è niente di che, però le falesie chiare a picco sul mare intorno al centro abitato sono molto belle, specialmente quando come ora sono illuminate dalla luna. È stata una giornata squallida  passata in mezzo a gente squallida e corrotta  mi sento rintronato e pieno di rabbia e tanto grato a Serena, sicuramente se non c’era lei io oggi dal commissariato non ci uscivo.
Scendiamo al porto dei pescatori dove cominciano a rientrare le barche che portano un sacco di pesce “bono”, cernie, dentici, orate, corvine, paraghi, saraghi, gallinelle… che vengono vendute nei banchini sul porto, bancarelle rimediate che crescono dal nulla come funghi man mano che le barche arrivano. Ci compriamo un’orata e un saragone e li portiamo dal grigliarolo del porto, intanto stasera si mangia bene poi domani si vedrà.
   

Marted?¨ 10 giugno 2008 Al Hoceima

  Pausa
Non c’è molto da fare bisogna cercare di regolarizzare la nostra posizione, decido che oggi ce ne stiamo anonimi a fare i turisti raccogliendo un po’ di informazioni su internet e cercando di mangia’ un pesce bono. 
   

Luned?¨ 9 Giugno 2008 Nador _ Melilla _ Al Hoceima _ Torres de Alcala

Image
Ciao Tambone

Image

Image

Image

 

 I controllori del traffico

Si viaggia tutta la notte e all’alba siamo a Nador, città marocchina confinante con Melilla. Spazzatura che brucia sulla spiaggia, aria umida e appicicosa come le sciroccate d’agosto a Campo, Nador è unta e colorata di grigio e di nero.Con  un bus urbano si arriva  fino alla frontiera, un tratto a piedi dentro una fiumara di marocchini che stanno andando a lavoro nella ricca enclave spagnola. Arrivati alla dogana marocchina  consegnamo i passaporti, Serena passa, ma io no, chiedo spiegazioni arriva il responsabile, gli spiego che ci hanno mandato i loro colleghi ma non mi ascolta, mi incazzo e arriva subito una folata di agenti uno dei quali prova a mettermi le manette … e mi ritrovo in strada.
Morale siamo in Marocco io illegalmente perché il passaporto non va bene, Serena perché è ufficialmente uscita dal Marocco. Telefoniamo alla gendarmeria di Torres, risponde un agente che ci passa il capo, dico che a Melilla non ci fanno passare, ma casca la linea. Richiamo, risponde lo stesso agente, rispiegando il  problema, stavolta  dice che il comandante  (con cui avevamo parlato un minuto prima) non è lì e che dobbiamo richiamare nel pomeriggio. Decido di rientrare a Torres, anche perché dobbiamo dare Tambone ad Azzedine. Ritorniamo a Al Hoceima in bus ed aspettiamo Azzedine che ha viaggiato tutta la notte e ora sta per arrivare, anche lui con un pulmann. Ci incontriamo a piazza “Du Rif” punto d’arrivo di bus e taxi, dopo una non facile trattativa prendiamo un gran taxi per Torres. Man mano che ci avviciniamo l’autista diventa più teso  e ci vuole scendere qualche chilometro prima, insisto e borbottando riparte, arrivati a due  chilometri prima di Torres, sul bivio, che è l’unico accesso al paese, troviamo i gendarmi che stanno facendo un posto di blocco. Ci riconoscono e ci chiedono se è tutto a posto, spieghiamo che a Melilla non ci hanno fatto passare e chiediamo cosa dobbiamo fare per metterci in regola, iniziano a dire che non capiscono “je ne comprend pas…” e fanno cenno al tassista di portarci alla spiaggia.
C’è un aria strana Azzedine mi dice che vuole prendere Tambone e partire subito per raggiungere il villaggio a qualche ora da qui dove ci sono dei conoscenti che lo ospiteranno per la notte e poi domani prima dell’alba prenderà la via della montagna, la più breve per tornare alla casa di Oulad Bchir. Arriviamo alla spiaggia, oggi qui non c’è nessuno, solo il gestore del bar che è anche l’uomo di “moschea” del villaggio, gli chiedo un the per noi, Azzedine e per il tassista, non mi risponde e senza chiedergli niente inizia a caricare i bagagli sul taxi con l’aiuto dell’autista che è sempre più agitato. Poi prepara il the ma solo per Azzedine, noi veniamo sollecitati alla partenza. Dico che voglio andare alla gendarmeria  per spiegare le cose e capire che dobbiamo fare, ma mi dice che i gendarmi gli hanno chiesto di avvisarli del nostro ritorno e lui li ha chiamati per telefono, in caserma non c’è nessuno e il comandante ci aspetta direttamente sulla strada per darci tutte le spiegazioni. Il tassista vuole assolutamente andare, Tambone ci fa festa e non vede l’ora di partire, vuole andare via da tutta questa agitazione che, da montanaro quale è, non capisce. Azzedine è abbastanza spaventato, dopo essere stato chiamato “dal barba” ci dice che è meglio partire subito, facciamo due foto e salutiamo il nostro compagno equino senza il quale la traversata dell’Atlas e del Rif non sarebbe stata possibile. Azzedine è imbarazzato, ci dice che domani ci chiamerà e che ora è meglio andare via, il tassista suona e sgassa, montiamo sul taxi sotto lo sguardo soddisfatto del barista che ora ha il sorriso stampato sul volto al posto della solita maschera da duro e chiama subito dal cellulare guardando verso il mare mentre noi si parte. Raggiunto il posto di blocco chiedo all’autista di fermarsi ma i poliziotti lo esortano a proseguire senza  fermarsi, noi restiamo a bocca aperta, dei nostri documenti non gliene frega più niente, ridono divertiti per aver assolto brillantemente alla loro missione, l’unica cosa che interessava alla gendarmeria era mandarci via per non vedere, di certo abbiamo capito che la nostra presenza lì non era gradita a prescindere dalla nostra posizione più o meno regolare all’interno del paese. (io non ho documentazione che può testimoniare che ci hanno mandato via perché dovevano far partire un carico di droga, ma tutto faceva capire questo, la spiaggia deserta, i turisti – quelli con la tenda sopra il tetto del bar – che erano spariti,  il rifiuto del gestore del bar a prepararci il the perché dovevamo partire, la polizia che ci dice di andare via, l’agitazione del tassista,  ma soprattutto il cambiamento di interesse e comportamento da parte della gendarmeria). Arriviamo a Al Hoceima che è ormai buio, l’unica cosa da fare è cercare un posto per dormire e poi domani ragionare sul da farsi.
   

Domenica 8 giugno 2008 Targuist – Torres de Alcala ‚Äì Al Hoceima

Image
alba su Targuist

Image

Image

Image
Mediterraneo nascosto

Image
coltivazioni di kif

Image

Image
fattoria e coltivazioni di kif

Image

Image
mare di kif

Image
infinito kif

Image
pranzo aromatico per Tambone

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image
Torres de Alcala

Image

Image

 

Attencion !! a la gendarmerie Attencion 
Partenza all’alba per salire l’ultima montagna che ci separa dal mare prima della calura, Driss mi aiuta a sistemare il carico, ci scambiamo gli indirizzi e ci regala un pane appena sfornato, mi saluta con una stretta di mano e un ennesimo  “attencion, pas confidence, ombertò attencion”. Ilcielo è viola quando attraversiamo una Targuist ancora dormiente, imbocchiamo una mulattiera ritrovando  subito le piantagioni di Kif dove le donne già al lavoro stanno “sarchiando”. Saliamo andando incontro all’alba, raggiunta la sella mi aspetto di vedere il mare che invece è nascosto da un fitto strato di nuvole basse, saliamo seguendo il crinale, poi trovo l’ingresso di un viottolino che scende nella macchia di cisto e leccio, il sentiero è quasi invisibile ma è molto battuto tanto che il fondo è diventato sabbioso. All’improviso il viottolo incontra una fattoria, si apre su una grande coltivazione di kif che si estende a perdita d’occhio, c’è un uomo gli chiedo la strada per Torres de Alcalà, mi indica un viottolino che risale la collina dall’altro lato, abbiamo un dialogo breve e asciutto ma abbastanza per capire che mi sta facendo i complimenti perché sono andato a prendere la roba direttamente dai produttori senza essere passato dagli intermediari, per lui come del resto un po’ per tutti se vieni qui è solo perché sei interessato alla droga. Mi scompiglia tutta questa simpatia, se sapessero che io sono contrario a tutte le coltivazioni che portano alla produzione di droghe, a partire dai vigneti. Risalito il poggio si apre sotto di noi un panorama fantastico con ampie terrazze di kif affacciate sul mare, interrotte solo dal grano coltivato nei terreni più accidentati e da qualche fico. Camminiamo per un paio d’ore attraverso le piantagioni di marijuana, qui le piante non sono molto alte ma ce ne sono tantissime fiorite, l’aria è così densa di questo aroma appiccicoso e intenso che sembra di nuotarci dentro, i campi si estendono su tutti i lati e più ci avviciniamo alla strada asfaltata più aumentano. I contadini che lavorano nei campi ci osservano curiosi, le donne più sospettose, mentre gli uomini sempre gentili mi indicano la via migliore per Torres, è un periodo di lavoro intenso, c’è da mietere il grano e da togliere continuamente le erbe infestanti dal kif e tutti vi partecipano uomini donne e bimbi. Arriviamo all’asfalto, tagliamo attraversando campi di grano e mandorli, qui è troppo arido per la cannabis, siamo scesi molto di quota, le nuvole sono scomparse e fa molto caldo, ma il mare non si vede ancora, il Godrone fiancheggia il grande oued secco che ci accompagnerà fino al mare, anche la vegetazione è cambiata ci sono grandi oleandri fioriti, pitte e carrubi. Arriviamo a Bni Boufrat, primo paese che incontriamo e anche l’unico prima di Torres de Alcalà, è un paese di pianura con case sui due lati della strada e due cafè frequentati da personaggi mediamente fulminati che attraversano continuamente la strada barcollando. Siamo sul chiocco del sole e fa un gran caldo, mancano solo cinque chilometri alla costa ma il mare sembra camminare davanti a noi e non si fa raggiungere. Attraversiamo una campagna gialla di grano appena mietuto incontrando anche una veccia trebbiatrice tutta cinghie, pulegge e castelletti di legno che sembra quella dei Pupilli che veniva alla Bonalaccia per la trebbiatura quando ero bambolo.
Mi viene incontro un ragazzo che mi chiama collega ostentando un sacchetto di haschish.
Ormai ci siamo un cartello indica un chilometro a Torres e due a Cala Iris, si sente il mare, a destra un piccolo villaggio abbastanza fatiscente, proseguiamo nel oued secco che finisce in un bosco di eucaliptus e tamerici, poi  finalmente il mare. Non ero mai stato così tanto tempo senza vedere il mare, percorriamo gli ultimi metri in silenzio, nella mente rivedo il film di questa camminata, si sovrappongono centinaia di immagini e suoni, paesaggi maestosi e persone magnifiche, fatica, freddo, fame, falò, risate e canti, deserti, montagne, foreste, miniere, grotte, douar e città e mille e mille volti di persone che sento come una grande famiglia. Senza rendermene conto sono in riva al mare, incrocio lo sguardo di Serena che luccica, anche Tambone sente la “densità” del momento, sembra commosso, è la prima volta che vede il mare e sicuramente se non l’avessi preso con me non l’avrebbe mai visto, me lo immagino di ritorno nella valle di Anergui a raccontare delle infinite distese di grano della piana di Fes, dei pascoli estesi del medio Atlas, di Ifrane paese fantasma senza ciuchi, altezzoso a descrivere le migliaia di asini, muli e cavalli incontrati, chissà cosa c’è nel capo di Tambone, sicuramente vuole che gli levi il carico dal groppone e che lo faccia bere!
A Torres c’è una spiaggia ciottolosa tipo Pomonte con due cafè alle spalle dove arrostono sardine, in alto su una piccola collina il rudere del torrione che da il nome al paese, risale al periodo di Mulay Ismail che qui aveva costruito il porto principale del suo regno. Subito veniamo avvicinati in maniera molto amichevole da un tipo che si presenta come il direttore della scuola del paese, sa già tutto di noi, ci dice che siamo i benvenuti e che possiamo fermarci quanto vogliamo e montare la tenda dove ci pare, però ci consiglia di segnalare la nostra presenza alla gendarmeria del paese.
Fa l’amicone ma non mi piace, fuma continuamente ha gli occhi piccoli e un sorriso da faina.
Ci offre un piatto di sardine che ci gustiamo all’ombra di una pergola in riva al mare, il posto è bello e sa di casa, l’idea è quella di fermarsi qualche giorno per mettere in pari il diario, confezionare il primo servizio “importante” e farsi qualche bagno. Faina ci spiega che qui la gente è molto tollerante e che le donne fanno normalmente il bagno in bikini però le uniche che vedo in acqua sono vestite dalla testa ai piedi, mi racconta che ama questo villaggio perché abitato da persone tranquille e pacifiche che vivono di pesca, però non ci sono pescherecci, mi chiede se sono un giornalista …
Do il grano a Tambone e andiamo alla caserma accompagnati dal professore. La caserma sa di legione straniera e di siesta alla sergente Garcia, veniamo fatti  accomodare in una stanza dove c’è la prigione con dentro un detenuto che dorme. Vengono fatti i soliti controlli e sembra tutto a posto come nei controlli degli ultimi giorni, l’ultimo quattro giorni fa a Tahar Souk. Arriva un gendarme grasso e sudaticcio con le mani piccole e tozze che strappa i passaporti di mano al collega e senza guardarli ci chiede severo quanti giorni staremo a Torres, gli rispondo tre o quattro, i poliziotti ci lasciano e dopo una discussione animata nell’altra stanza tornano e ci dicono che proprio in quel momento è arrivata una circolare dal ministero che dice che a Torres de Alcala arriverà il re e che da oggi in tutta la zona è proibito campeggiare. Chiediamo se c’è la possibilità di affittare una casa, Ciccio ci dice che è proprio quello che ci volevano proporre e si stanno organizzando per trovarla, ci consentono di tornare alla spiaggia nell’attesa che i gendarmi ci indichino la casa dove alloggiare. Alla spiaggia ritroviamo il professore che ci sta aspettando, non facciamo in tempo a spiegargli l’accaduto, sa già tutto perché è stato informato per telefono, ma la sua versione contraddice con quella dei gendarmi infatti ci dice che non possiamo montare la tenda per la nostra sicurezza. Ci invita ad aspettare al bar che tra poco arriverà il signore che affitta le case, che è un suo amico e ci mostrerà alcune case comunque tutte lontane dalla spiaggia. Gli dico della circolare, abbassa gli occhi e inizia un discorso farfugliato ” io non so niente di politica e non voglio sapere niente, io sono per la pace” (nessuno ha parlato di politica). Con un mercedes scuro arriva l’uomo delle case, inizia una trattativa mediata dal professore, ma il prezzo richiesto è troppo alto, allora ci viene proposta una “camera” che altro non è che un sudicio rimessaggio, anche questo ad un prezzo esorbitante. Decidiamo di chiedere al proprietario del cafè di poter montare la tenda nella terrazza sul tetto (come hanno fatto i ragazzi spagnoli sul tetto del cafè di fianco), la richiesta sembra spiazzare il proprietario che dice che deve chiedere….(così traduce il professore) ma non si capisce a chi! Dopo qualche minuto arrivano i gendarmi in macchina, ci dicono che c’è un problema con i passaporti, ci chiedono ancora i documenti, parlano al telefono con qualcuno, ci dicono di tornare a sederci al tavolino che quando hanno finito ci chiamano loro, il professore però rimane lì con loro.
Ci dicono di tornare in caserma. Ci attende il comandante stizzito che ci dice che non siamo regolari, sono scaduti i tre mesi del visto turistico, diciamo che l’ultimo dei numerosi controlli l’abbiamo fatto quattro giorni prima a Tahar Souk e il capo della gendarmeria ci ha detto che era tutto ok, anzi mi  ha fatto notare che a fine giugno sarebbero scaduti i sei mesi di soggiorno per me. Niente, non ci ascolta nemmeno, continua a sovrapporre la sua teoria e poi insiste sul mulo: “dove l’avete comprato? da chi? chi mi dice che non l’avete rubato?” e poi “dove avete dormito? non si può viaggiare così” Ci dice di uscire dall’ufficio rispedendoci nell’antigalera dove, da dietro le sbarre, mi saluta solidale il detenuto che nel frattempo si è svegliato, mi viene da ride perché è tutto il mi cugino Claudio. Nell’altra stanza si sente il comandante che sta facendo una serie di telefonate urlando in maniera sempre più isterica. Dopo una mezz’ora di attesa arriva il grasso che ci spiega con vocina pia e manine giunte che la nostra presenza nel paese è irregolare, che dovrebbero aprire una procedura molto lunga ed onerosa sia per loro che per noi, ma siccome loro sono molto buoni si sono sforzati tanto e hanno trovato la soluzione: bisogna andare a Melilla (enclave spagnola in terra marocchina ), uscire dal Marocco e rientrare subito con il visto comunitario spagnolo, in modo da poter restare altri tre mesi in Marocco senza problemi. Ci rendono i passaporti e ci accompagnano in macchina alla spiaggia dove insistono per offrirci un caffe’ in compagnia del professore e ci ripetono che tutto questo lo fanno per farci un grosso favore. Ci suggeriscono di riposarci e partire domani per Melilla, il professore ci offre ospitalità a casa sua (prima mi aveva detto che ci avrebbe ospitato volentieri ma non aveva posto) ma preferisco partire subito e risolvere il prima possibile. Controvoglia ci chiamano un grand taxi, lasciamo i bagagli e Tambone in custodia al tipo del cafe’ con la garanzia della gendarmeria che nessuno toccherà niente. Faina e il grasso insistono perché stanotte si rimanga qui e si parta domattina, ora per una notte si può dormire anche con la tenda e anche sulla terrazza del cafè, ma io voglio andare, allora mi consigliano di dormire a Al Hoceima e di proseguire domani con calma verso Melilla,il messaggio è chiaro: domani voi qui non ci dovete essere. Raggiungiamo la città di Al Hoceima in taxi, telefono al mi fratello per fargli gli auguri di compleanno e  a Azedine per dirgli di venire a prendere Tambone il più velocemente possibile  poi aspettiamo il primo pullman per Nador che parte alle due del mattino.
   

Sabato 7 Giugno 2008 Targuist

 
Ciber frate (internet con ciambella per i continentali)
Andiamo da Tambone, è legato a un palo della luce e guardato a vista dal custode ingaggiato dal rosso. Il giovane Asserdun è diventato la mascotte del parcheggio, mi sento in colpa per averlo portato via dai pascoli della montagna e averlo costretto alla tristezza di un piazzale asfaltato, ma Driss ha detto qui !! A Targuist non esiste la polizia, o perlomeno non si vede, la repubblica del Rif aveva nemici potenti, quella del kif i potenti c’è l’ha a protezione.
Oggi è giorno di Souk, andiamo a vedere, chiaramente non c’è il fascino dei mercati di montagna, i mercati arrivano con i pulmini e i camion e le merci sono omologate, però è un posto vero non ci sono merci per turisti, i banchi più grandi sono quelli di frutta e verdura e poi ci sono tanti banchi di pesce, con sardine, paraghi e triglie che ci ricordano che il mediterraneo è a meno di quaranta chilometri. La parte più originale del mercato è il reparto gastronomico dove grigliaroli in fila sfamano mercatai e compratori, si mangia su tavolacci sotto tende cenciose, con l’equivalente di un euro ti mangi una decina sardine. Nel mercato la partecipazione delle donne è minima, le poche presenti sono vestite in modo tradizionale acquistano silenziose e si dileguano velocemente.
Sono iniziati gli europei di calcio e i cafè sono pieni di gente che guarda le partite, anche se in realtà nessuno sembra veramente interessato, mentre sorseggio un panacee (frullato con tanti frutti diversi) assisto a un incontro di incravattati, politici e affaristi e portaborse arrivati con le classiche  mercedes dai vetri scuri, si siedono intorno a un tavolo strapieno di dolci, ma se li godono poco  tutti concentrati a fare la risata più sguaiata e rumorosa quando il capo fa la battuta, mi fanno pena tutti sudati e forforosi nelle loro divise da bara. Passa Driss, ci diamo appuntamento fra un paio d’ore per fare una chiaccherata. Vado a internet, il collegamento viene e va ma il gestore compensa la poca efficienza con la distribuzione gratuita di frati caldi, dopo un paio d’ore non ho combinato granchè però so’ satollo. Andiamo all’appuntamento fissato con il mio amico, come tutti i Berberi anche Driss rimarca l’orgoglio Berbero e il valore assoluto dell’amicizia sopra ogni questione religiosa o economica che sia, mi dice che lui è rosso come tanti Berberi del Rif perché sono discendenti degli europei del nord  che sconfissero i Romani, Driss mi parla dei vandali di Gianserico che entrarono in Africa da Gibilterra nel quarto secolo dopo Cristo, conquistarono velocemente il nord d’Africa e poi saccheggiarono anche Roma. È bello parlare di storia così, in un cafè parlando con gesti e parole inventate, seduti in un posto frequentato da gente di malaffare sorseggiando cafè noir. Si avvicina a noi un tipo serioso che si presenta come coltivatore di legumi, parliamo un po’ e poi lancia un’ anatema contro la droga e i traffici illeciti accorato ma poco convincente e poi si allontana, Driss mi spiega che come quasi tutti qui commercia droga e voleva provare a vendermi qualcosa, nessuno capisce perchè sono qui se non voglio comprare o vendere niente, Targuist, mi dice, è la capitale del traffico della droga, qui si svolgono gli affari importanti e si gestiscono i traffici, non a Ketama che è una zona di coltivazione ma è anche un po’ un cinema per i turisti dello sballo. Qui le forze dell’ordine non si vedono mai, è tutto organizzato bene e mi raccomanda attenzione per domani “ atencion ombertò attencion,  pas confidence, domain pas confidence su la piste”.

Ci salutiamo dandoci appuntameto domattina alle cinque da Tambone.    

   

Venerd?¨ 6 giugno 2008 Tizi Tfri _ Targuist

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

Driss il rosso
Ci si sveglia nell’aria fine di montagna, la brace è ancora calda e basta poco per bollire l’acqua per il the. A nord c’è un orizzonte blu che sa di mare, il mediterraneo non si vede ma si sente che è vicino, pensare che siamo arrivati fino a qui partendo a piedi da Marrakech mi emoziona. Scendiamo nella foresta che a settentrione è molto più estesa e scende a quote più basse, la pista diventa asfaltata ma preferisco scendere da un viottolo che dopo poco sbuca in una radura dove ci sono delle  maison foresterie risalenti al periodo coloniale francese abbandonate e, isolato dagli altri, un cedro enorme con un tronco di almeno cinque metri di diametro. Dopo un paio d’ore di viottolo ritorniamo sull’asfalto, rimango però sempre dentro la foresta e poco dopo incontriamo una mandria con una trentina di cavalli che attraversa la strada al galoppo,Tambone s’ingazzurisce e aumenta il passo che stamani era “cagnoso”. Finiti i cedri il paesaggio diventa arido e ritornano i campi coltivati con spighe di grano corte e kif rinsecchito. Fa caldo, per fortuna trovo una scorciatoia tra i campi, ci sono piccole fattorie isolate sparse sui fianchi ripidi della montagna, qui il kif soffre la carenza di acqua e molte piante seccano per l’aridità, viene comunque piantato da tutte le parti perché la resa economica è nettamente superiore a qualsiasi altra coltura. Dall’ alto Targuist si mostra in tutta la sua bruttezza: una cittadina di palazzoni in gran parte incompiuti costruiti intorno alla strada che collega la regione di Ketama al Mar mediterraneo. Ritroviamo il godron all’altezza delle prime case, delle donne ci invitano a pranzo ma proseguiamo, Il paese visto dal basso è ancora più brutto e gli sguardi che si incrociano sono poco raccomandabili fa strano vedere i cartelli che inneggiano ai progetti finanziati dalla comunità europea per disincentivare la coltura del kif, compreso il bacino artificiale che viene usato per irrigare i coltivi. Targuist è stata l’ultima roccaforte della Repubblica del Rif, qui Abd el Krim trattò la resa con le forze coloniali congiunte di Francesi e Spagnoli il 27 maggio 1926. Gli europei per sconfiggere l’esercito Ritegno furono  costretti ad impiegare oltre duecentocintamila uomini e ci riuscirno grazie all’appoggio dell’aviazione e all’uso assassino del gas. Il Rif tornò sotto il controllo spagnolo e buona parte dei guerrieri repubblicani furono arruolati dall’esercito spagnolo e finirono dieci anni più tardi a combattere nella guerrra civile Spagnola aiutando il generale Franco a sconfiggere la nascente repubblica Spagnola.
Il Rif è storicamente una terra abitata da uomini ribelli ed anarchici, tutte le dominazioni che nei secoli si sono susseguite in Marocco hanno sempre rinunciato a sottomettere gli uomini senza legge, spaventati dall’inospitalità di queste impervie montagne aride e dalle ruvide genti che da secoli ci vivono. Nel 1921 le truppe Spagnole nel tentativo di catturare il mitico Raisili, un Barabba del Rif, a metà strada fra il patriota e il bandito, guadarono il fiume Amekran considerato dai Rifegni  confine invalicabile per le truppe coloniali, la reazione non tardò, sotto la guida del già mitico Abd el Krim per la prima volta le tribù del Rif si unirono a formare un esercito di tremila uomini  e attaccarono gli Spagnoli infliggendogli una tremenda sconfitta nei pressi di Anwal dove il 21 luglio 1921 annientarono un esercito di tredicimila uomini facendo più di ottomila morti. Sull’onda della vittoria il 19 Settembre dello stesso anno Abd el Krim fonda la repubblica del Rif, la  terra dei selvaggi abitata da tribù divise, sempre impegnate in faide omicide, diventa una nazione autonoma e indipendente, fedele ai precetti dell’Islam ma moderna, con un Parlamento dove sono rappresentate le quarantuno tribù del Rif. Abd el Krim pubblica il manifesto anticoloniale, lettera alle “nazioni civilizzate” dove rivendica il diritto del suo popolo e di tutti i popoli a mantenere conservare e promulgare i propri costumi e le proprie religioni senza alcuna interferenza di potenze straniere che pretendono di imporre leggi e religioni con la forza delle armi. Smaschera la palese contraddizione fra modernità libertà e occupazione militare e allo stesso tempo apre ai commerci e agli scambi culturali con le nazioni europeee e americane e si propone come ponte culturale e commerciale fra l’Europa e l’Africa, fra l’Islam e l’occidente.  Fonda la banca nazionale e conia una moneta propria e si ripromette di sfruttare le risorse minerarie del territorio in maniera più oculata e a favore dello sviluppo della  popolazione locale. Tutto questo fa paura, l’Europa teme che il vento indipendentista soffi sull’Africa coloniale, Spagnoli e Francesi, fino all’ora grandi nemici, si alleano contro il pericolo comune  e combattono contro la giovane repubblica nord Africana, la guerra dura  cinque anni  ma alla fine, pur pagando un enorme prezzo in risorse e vite umane, le forze coloniali  sconfiggono definitivamente le truppe di Krim proprio qui a Tarquist.
Di tutto questo passato epico e romantico qui non c’è traccia, solo enormi casermoni senza finestre e strade sporche. Entriamo nel centro circondati da sguardi  indagatori e silenzio, davanti alla piazza della moschea si è radunata una folla numerosa per la preghiera all’aperto, la scena è molto bella, ma per evitare di urtare la suscettibilità dei fedeli cambio strada e mi incammino su una via parallela. Si avvicina un ragazzo con la faccia da duro, ha la pelle chiara e lentigginosa e i capelli rossi, mi chiede chi cerco e cosa trasporto, gli  spiego, ”pas problem, ma attencion ombertò, attencion” . Driss mi dice di seguirlo e di dargli retta che pensa a tutto lui, ci aiuta a sistemare Tambone al parcheggio e ci accompagna a un hotel, mi dice di stare tranquillo che sono sotto la sua protezione e di fare come dice lui. Andiamo in albergo presentati da Driss il rosso, ci sistemiamo e ci diamo appuntamento in serata davanti all’officina vicino al parcheggio di Tambo.
Driss è un personaggio conosciuto e rispettato  dice che è un meccanico ma le sue mani curate con le unghie pulitissime sembrano dire altro, con noi è molto gentile, mi chiede se sono interessato a comprare qualcosa, capito il mio disinteresse non insiste anzi ci accompagna a fare un giro mostrandomi i vecchi edifici coloniali spagnoli e la grande diga che aiuterà l’agricoltura. Non so se è stato l’accompagnamento del nostro “Padrino” ma la sensazione di essere indesiderati è svanita.
   

Gioved?¨ 5 giugno 2008 Lota – Tizi Tfri

 Image

Image

Image

Image

Image

una fattoria

papaveri e kif
papaveri e kif

le Fatine del Rif

curiosit?†

Image

giungla di kif

Image

il paese proibito

Image

essicazione del kif

Image

Image

Image

 

Selvaggio Rif
Davanti a tutta la famiglia carichiamo Tambone che fa un altro piccolo rodeo. Solite foto di rito e poi scendiamo verso la sorgente guidati da due bimbi sui ciuchi che ci accompagnano fino al fosso dove si fermano per andare a lavoro. Si sale ripidamente fra campi di grano, si scende e si risale puntando come ci aveva detto Mustafà ai campi di grano alti, poi arrivati al culmine si scende cambiando versante, qui c’è una macchia bassa di lecci e lentischi ed è tutto più verde. Incontriamo una cascata che si tuffa un una stretta gola dalle pareti rosse, superata la cascata il viottolo incontra in fiumiciattolo, è un posto bellissimo l’acqua è trasparente e intorno prati e grandi alberi dai tronchi possenti, anche qui tanti terrazzamenti coltivati a kif alternati a patate, piselli e pomate. Chiedo conferma sulla via e due uomini che stanno preparando una vasca per irrigare, mi confermano che siamo sulla strada per Jbel, si prosegue su un sentiero circondato da kif papaveri e grano, piante che stagliano i loro colori netti nel cielo azzurro in un collage armonico ma deciso di toni cromatici senza sfumature. Si risale allontanandosi dal fiume il kif scompare, incontriamo delle bimbe che stanno raccogliendo l’erba per gli animali, hanno gli occhi grandi e curiosi e sono bellissime, sono combattute fra la voglia di vedere le foto e la paura di avvicinarsi, sono tre, la più grande avrà dieci anni ha già i capelli nascosti da una pezzola e porta un enorme fascio legato sulle spalle, ha un sorriso dolce e fare materno. La mediana, più piccola di un paio di anni, porta il fratellino sulla schiena e poi la più piccola, timorosa e curiosa che sbuca furtiva dal fascio della grande, ha occhi grandi e profondi che illuminano un viso da fatina incorniciato da una cesta di capelli vaporosi e ribelli, non avrà nemmeno cinque anni ma usa una falce da adulto più grande di lei, è vestita con un  fiabesco vestito azzurro, non sorride, è elegante un po’ altezzosa e fiera come una principessa delle favole. Poi prendono un viottolino e raggiungono veloci il douar di Jbel dove annunciano il nostro arrivo. Jbel è un villaggio a fianco di un fosso ombreggiato da grandi alberi, le case sono in muratura e circondate da recinti con polli e conigli, anche qui essendoci acqua il kif è rigoglioso, attraversiamo una piccola giungla con piante alte due metri, risaliamo il fosso avvolti nell’aria intrisa dal profumo denso della canapa e poi ritroviamo un viottolo ripido e pietroso che si inerpica friabile su rocce scure fino ad incontrare il villaggio di Toufa dove ritroviamo la strada asfaltata. Chiedo informazioni su come raggiungere Targuist dai viottoli, ma mi dicono che esiste solo il godron. A Toufa c’è la scuola, attiriamo l’attenzione del maestro e dei bidelli, iniziamo a conversare davanti all’immancabile the e alla fine viene fuori un nuovo contatto per “Base Elba” e la rotta via viottolo. Lasciamo il villaggio e iniziamo una  discesa ripidissima fra campi di grano su pendii impossibili, ci sono centinaia di viottolini che si diramano in tutte le direzioni e disegnano una ragnatela infinita e sinuosa come l’ombra dello sciapichello sul fondo del mare. Non c’è vento e fa tanto caldo, è tutto molto brullo, ci sono un po’ di mandorli e qualche fico per il resto solo grano, cardi e erba secca. Le zone umide si riconoscono da lontano per il verde intenso dei campi di kif che da lontano sembrano le macchie di felci che colorano di verde intenso la montagna Elbana d’estate. L’ultimo tratto di discesa è a tornantini e si tuffa nel oued a fondo valle dove si materializza come in un miraggio il piccolo douar di Abakhtine. Con l’acqua ritroviamo il Kif e Tambone se ne fa una scorpacciata, il villaggio è bellissimo con le case tutte in pietra, sembra disabitato, ma appena provo ad entrare si materializzano gli abitanti che non ci fanno entrare, l’unica cosa che vedo è tanto kif essiccato, ci fermiamo sotto una veranda in compagnia di bimbi e ragazzi che si sono radunati intorno a noi, mi chiedono se trasporto haschish e di stare attento alla polizia. Chiedo se ci possono dare qualcosa da mangiare perché abbiamo fame e sono curioso di vedere il villaggio da dentro, ma nel villaggio non si entra. Dai campi arriva un ragazzo tutto nervo, dagli occhi scintillanti che si chiama Abdellati e si atteggia da leader. Si parla un pò e poi ci invita a casa sua, attraversiamo una rigogliosa piantagione di kif e poi iniziamo a salire l’altro versante. Poche centinaia di metri sopra il “villaggio proibito” un gruppo di tre case, finalmente liberiamo Tambo dal carico e lo lasciamo al fresco a mangiare spighe di grano, mentre noi andiamo alla casa di Abdellati. Si entra da un portone verde dove ci accoglie Saufian, il fratello minore, è una casa grande grande, siamo in una spaziosa  corte pavimentata a boiacca, sulla destra c’è la cucina, poi si sale tre scalini e ci sono altre stanze, noi si entra nella sala dove c’è un tavolo due divani e la tv satellitare, c’è anche un finestrino da dove ci spia la sorellina. Rispetto alle case dell’Atlas è una reggia. Fatima, la mamma, ha preparato un pranzo energetico, “quello che ci vuole quando si miete” a base di lenticchie, uova e mandorle e tanto the. Passiamo un’oretta piacevole con la famiglia e poi si riparte. Tambone è in forma, si arrampica poderoso con il carico e Serena in sella, saliamo un sentiero a tornanti che ci porta sulla pista che fra breve diventerà una strada asfaltata, che porta al passo di Tizi Tfri. La strada è ampia e liscia con tornantoni, siamo avvolti dal silenzio ma nel cervello mi suona il rombo poderoso del dino ferrari della stratos gr 4. Come un miraggio si materializza un bar con l’immancabile pubblicità della cocacola, arriva sempre appena c’è una strada carrozzabile, non manca mai all’appuntamento, più scaltra della nera signora di Samarcanda cantata da Vecchioni. La strada larga continua a salire, ora circondata da estese piantagioni di kif che, contrariamente a quello che pensavo sono più numerose nelle zone toccate dalle strade. Si sale tanto, siamo ormai sopra i duemila metri, in lontananza si vedono le foreste di cedri. E’ ormai il tramonto quando arriviamo in vetta oltre i 2200 metri, siamo dentro una grande foresta di cedri non enormi come quelli dell’Atlas ma comunque imponenti ed eleganti. Montiamo la tenda nei pressi della vetta su un prato circondato da cedri e grandi Coti che ricordano “Grotta a le Pecore”. Più che un posto pericoloso, terra di ladri e trafficanti, mi sembra un eden, ci godiamo le tante stelle davanti alla brace dove ci siamo preparati il the secondo gli insegnamenti dei pastori Amazigh, che più tempo passa più li ricordo come miti, mentre in lontananza a nord si vedono le luci di Targuist.

   

Mercoled?¨ 4 giugno 2008 Tahar Souk _ Lota

Image

Image

Image

i viottoli del Rif

viottolo magico

Tambone ha sete

coi bimbi in carovana verso Sidi Ahmed

Image

Image

Image

piantagione di kif

Image

il marabutto

Image

Image

il bimbo canterino

 

I bimbi di Sidi Ahmed e il marabutto mandolino
Sveglia alle quattro, alle cinque primo tentativo di sellare Tambone, sette e mezzo partenza, lo stronzo ha mangiato grano tutta la notte e oggi è in esubero di energia. Lasciamo subito la strada e seguendo la preziosa mappa fatta ieri con l’aiuto di più persone risaliamo una pista dove c’è un gran traffico di ciuchi carichi di spighe di grano, la strada sale verso la foresta che in realtà è una pineta che assomiglia tantissimo ai rimboschimenti delle Piane della Prigione. Decido di prendere una scorciatoia ma è troppo ripida e il mulo perde il carico e si rovescia, Serena s’incazza perché scelgo sempre la via più difficile ma poi m’aiuta a risistemere su il carico, qui la gente non ti corre incontro in aiuto ma rimane a distanza ad osservare. Riprendiamo ma poi devo tornare indietro perché non si sfonda, però la deviazione ci permette di ammirare dei paesaggi grandiosi sulle  montagne impervie della regione di Ketama dove spicca la vetta del monte Tidiquin a 2448 metri di quota.  Discesa impegnativa, fra pini e scannafossi poi di nuovo la pista fino a Bab Sadra, un  ragazzo ci  conferma che siamo sulla giusta via e ci indica il viottolo da percorrere. Bab significa porta ed è veramente l’ingresso in un altro mondo, riprovo un po’ le senzazioni del sentiero Bni Krama, Il sentiero sbuca su un crinale e lo segue regalando la sensazioni di “volo”. Si continua a salire mentre compaiono in alto a destra dei picchi di rocce chiare. Il silenzio si inizia a miscelare con il con il canto delle donne che stanno mietendo il grano sui pendii. Vediamo una casa isolata e ci avviciniamo per  far bere Tambone, è una casa abitata solo da bimbi, gli adulti sono tutti nei coltivi, i bimbi  ci accolgono curiosi e festosi e ci riempiono tre secchi d’acqua che il mulobimbo se li scola a razzo. A poche centinaia di metri dalla casa dei bimbi, incontriamo il villaggio di Lota, incantato e silenzioso, gli abitanti sono tutti nei campi a parte una coppia di anziani, l’articolata spiegazione della signora ci fa capire che siamo vicini ad un luogo bellissimo con una cascata. Incontriamo Mustafà un ragazzo che ci conferma l’esistenza del luogo incantato, si chiama Sidi Ahmed e si raggiunge con un ripido viottolo che porta al fiume, dall’altro lato del villaggio, poi per proseguire bisogna tornare indietro, gli chiedo se posso lasciare Tambone al villaggio ma mi dice di portarlo con me.Scendiamo verso Sidi Ahmed, si aggregano subito tre bimbi che poi diventano cinque, la discesa è ripidissima nonostante i tornanti che si snodano arditi fra mandorli e fichi che ogni tanto sbucano dal terreno arido e pietroso. Scendiamo in carovana verso il fiume, arrivati a fondovalle incontriamo le prime coltivazioni di kif, guadiamo il torrente e attraversiamo una rigogliosa piantagione di cannabis, è evidente che questa pianta ha bisogno acqua, in alto finalmente vediamo la cascata, non è grande sarà alta una trentina di metri, ma è molto scenografica. Sidi Ahmed è un luogo molto bello una macchia di verde che si apre all’improviso nella aridità circostante, dove il fiume disegna un ansa, ci sono delle ampie terrazze ricoperte di prato e all’ombra di un grande gelso, un cimitero di marabutti e poco più in alto una piccola casa dove vive solitario un marabutto cieco che viene salutato con grande reverenza dai bimbi. Mentre noi saliamo alla cascata i bamboli fanno il bagno in un pozzalone in basso. La salita alla cascata è divertente e assomiglia alle lisce della valle del Poio, anche qui c’è un pozzalone e ci facciamo una doccia gelida sotto la cascata. Ritornato sotto il grande gelso vado a salutare il Marabutto che ha un aspetto da grande mistico, con gli occhi spalancati e pieni di sangue, ma quando apre bocca è una delusione atroce “Italiano mandolino spaghetti maccaroni fai cadò al marobu”, faccio un giro intorno per vedere le “coltivazioni” tutte ordinate in saltini e irrigate da canali e poi dopo una merenda a base di more bianche, si risella Tambone che sembra un mulo d’acciaio perché  nel frattempo si è rotolato nelle ceneri del cimitero.  Con l’aiuto dei bimbi si ricarica la soma e si risale al villaggio. La pendenza è esagerata e a un certo punto L’Asserdun cede e si accascia. Lo faccio riposare e poi si ricarica il bagaglio e si prosegue, se non c’erano i bimbi sarebbe stato un grosso problema. Arriviamo sotto il villaggio che le ombre sono lunghe, da un viottolino alla nostra destra si sente un gran canto squillante e intonato: è un bimbo di tre o quattro anni che indossa una maglietta dell’inter che sta rientrando in sella al suo asino dalla sorgente dopo aver riempito i contenitori dell’acqua. Ci aspetta e facciamo l’ultimo tratto insieme, poi si aggrega anche una bimba che sta rientrando con le capre, entriamo nel villaggio che sembriamo una tribù. Arrivati in paese rincontriamo Mustafà che ci offre la sua ospitalità che naturalmente  accettiamo di buon grado. Siamo ospiti,in una grande casa, la più alta del Douar posta sulla sommità del colle in una posizione di dominio nel cuore del Rif, Tambone è  legato in un campo di grano in compagnia di asini e muli, Mustafà è molto amichevole, il bimbo canterino è il su figliolo, ed è anche il babbo di due bimbe più piccole. Passiamo la serata parlando del Rif della sua bellezza e delle sue contraddizioni e poi prima di dormire una pisciata sotto le stelle giganti e infinite del Jebel di Lota.
   

Marted?¨ 3 giugno 2008 Tahar Souk / Scriveria fumeria

 
Rimaniamo ancora un giorno, devo scrivere, cerco un posto imboscato con l’energia elettrica per attaccare il computer alla rete, non mi va di essere troppo in vetrina perché qui non amano i  giornalisti. Trovo un piccolo cafè ai margini del paese e mi piazzo in fondo nella penombra. Ogni tanto entra qualcuno a prendere un the o un caffè ma è la base di un gruppo di ragazzini, tra cui il figlio del gestore, che alternano la visione di documentari quando c’è il babbo, a video musicali quando se ne va, sempre accompagnati da robuste sedute di kif fumato in svariate modi.
In serata vado a internet e mi collego con skype a casa del mi’ fratello e li trovo Elias che è andato a farsi una breve vacanza all’Elba e Sofia che si è tagliata i capelli
   

Luned?¨ 2 giugno 2008 Barrage Asfalou Tahar Souk (Marnisa) / Cravattino marocchino

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

Sveglia all’alba, ci aiutano a caricare e si parte in modo da fare la salita ripida prima del sorgere del sole. Con “Escobar” ci diamo appuntamento alle cinque del pomeriggio al bar più grane di Tahrar Souk, la nostra meta di giornata. Tambone ha mangiato grano tutta notte ma non ha un gran passo, la gola sopra il paese è bellissima un grande canyon che con l’aumentare della luce diventa sempre più bello. Ritornati sulla via principale scendiamo in direzione della diga, ormai praticamente ultimata, che ha chiuso il punto più stretto della gola dando origine ad un lago artificiale, ci fermiamo per andare a vedere lo strapiombo dall’alto e poi continuiamo a scendere e passiamo sopra la diga suggestiva e inquietante, Gli operai scendono al lavoro, il paese è in alto, vicino alla diga c’è un altro paese fatto di baracche, tutte ordinate, era il villaggio per i tecnici e gli operai europei che hanno progettato e costruito il gigante di cemento, ma ora sono andati quasi tutti via. Saliamo incontro al flusso degli uomini con l’elmetto giallo e dall’alto si vede il lago che sta alzando di livello e si appresta ad inghiottire alberi e cespugli.
Sulla strada, di fianco ad un mulino, un locale lussuoso per il contesto, è chiuso ma un ragazzo dal mulino ci vede e viene ad aprire, le pareti sono tappezzate di poster e foto del proprietario su macchinoni e con i giocatori del Barcellona, sui tavoli pipe e resti di bagordi notturni, quando capisce che volevamo fare solo colazione ci fa capire che vuole chiudere veloce perché ha altro da fare. Ancora campi di grano che perdendo quota diventa più alto, incontriamo asini e muli che lo trasportano verso i villaggi, a fondo valle intorno al fiume il villaggio di Tahar Souk, il più grande della zona e oltre le grandi montagne del Rif. Attraversiamo la via del paese verso il centro per cercare un alloggio e internet, ci si sente gli occhi addosso ma non si incrociano gli sguardi, la stessa sensazione provata qualche anno fa visitando i paesini dell’interno della Sicilia. Arrivati nella via principale, la strada che poi prosegue verso Ketama, sull’altro lato della sdrada, infastidito dalla luce del sole come tutti i topi d’ufficio, ci sta aspettando il commissario della gendarmeria. Sembra cravattino, quello dei verdi, il tuttologo nullologo piovuto all’Isola da qualche anno, è solo un po’ più secco e abbrustolito ma l’assomiglia davvero. Ci accoglie con lo sguardo famelico come a di’ “ora vi cardo io” “chi siete? dove credete di andare?  Cosa portate sul mulo? In caserma !!”  lego Tambone a un palo, ma non va bene, arriva un omino e lo porta via. Solito interrogatorio e controllo dei documenti: “da dove venite ? perché siete qui? Dove andate? Qui non ci sono alloggi non è un posto per turisti, la tenda non si può montare, viaggiare da soli è pericoloso, prendete un taxi e andate nelle zone turistiche, noi abbiamo già abbastanza problemi…..” inizia una serie infinita di domande ripetuta più volte, vuole sapere tutto il percorso, ma perde il filo e fa finta di scrive’, per darsi un tono mi dice che conosce la Bonalaccia nota città italiana. Suona una scatola di legno sulla scrivania e fa saltare tutti i fogli, dalla scatola il commissario cravattino pernde il telefono mentre cerca con l’altra mano di catturare fogli e penne in fuga, cerco di rimanere serio ma non cela faccio e il rappresentante dell’ordine s’incighialisce ancora di più. Riprendono le domande…nome del padre “Oddone”, nome del padre della madre “Moisè”, il commissario ha un’intuizione da commissario Ginko: “vous etez jude!”  no, gli rispondo, era originario di Bacoli, un posticino che a confronto il Rif è l’orto dei frati della Verna.
– Siete sposati ?  – No

– E perché ? … concubinaggio !!!
– Siete divorziato?  – Sì
– E perché? 
– Figli ?  – No

– E perché? Ma perché sei venuto qui?  Chi te l’ha detto che esiste Tahar Souk?
Gli racconto il viaggio, la lista dei nomi…., alla fine mi dice che è tutto a posto ma che a fine giugno mi scade il permesso di soggiorno in Marocco, mi ribadisce il concetto: mangiate qualcosa e andate via e la tenda assolutamente no, poi ci restituisce i documenti e ci dice che ha chiamato il Chir (sindaco) che ci raggiungerà a breve. Il tempo di riprendere Tambone e il Chir arriva col motorino, è un tipo dinamico tutto rasato e coi baffi, anche lui è perplesso sul nostro soggiorno, ma una volta capito che noi si resta qui dice di non cercare sistemazioni e che penserà a tutto lui. Ci accompagna al ristorante del souk con tanto di traduttore francese che presenta il menù declamando la viande et tout les choses… in realtà c’è solo lesso sfatto con patate e cipolle, li chiedo se è possibile avere du’ ove, ma la risposta è negativa e se la prende a offesa dicendo che questo non è un posto turistico e se voglio cose strane devo andare ad Agadir. Nel frattempo ritorna il sindaco che ci ha trovato l’alloggio, mi porta a vederlo, una stanza vuota e una turca e un campo per parcheggiare il mulo vicino, perfetto, è un posto strano ma alla fine tutti, guardie e ladri, ci aiutano.
Alle cinque vado all’appuntamento con Escobar che però non si presenta. Marnisa, questo è il nome antico di Tahar Souk, è un posto di transito tutto ruota intorno alla grande piazza del souk, qui tutti fumano haschish e in giro non si vede nessuna donna, noi siamo gli unici stranieri e siamo circondati da sguardi e commenti, tutto sommato è un posto tranquillo, però seguo il consiglio del chir e lego Tambone all’albero con la catena.