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Ravvivo il foco con i cespugli oleosi come mi hanno insegnato i pastori e dopo una scaldatina vado a fare un giro di perlustrazione. Vedo un pastore in lontananza anche lui ha acceso un fuoco sul colle dirimpetto, sotto di noi c’è una gola stretta, è la via più breve ma c’è il rischio di rimanere a metà, l’alternativa è di scendere verso il chiuso del pastore, la via è molto più lunga ma sembra più agevole. Tornando verso la tenda incontro una spaccatura nella roccia che sprofonda nelle viscere della terra è tutta piena di ghiaccio compatto e non se ne vede la fine. Partiamo con l’idea di fare la via più lunga, ma incontriamo il pastore che ci dice di scendere dal oued, quindi torniamo indietro per entrare nella gola, è un posto spettacolare ma molto difficile da scendere col mulo, la gola è sempre più stretta e in alcuni punti c’è tanta neve, sembra di essere dentro un videogioco di quelli che più vai avanti più è difficile: prima la strettoia, poi la neve, poi un tronco che chiude il passaggio, infine una strettoia con un salto di un paio di metri, non si passa. Comincio a essere stanco, decido di lasciare qui il carico e Tambone con l’idea di recuperarlo domani e di scendere portandosi solo gli zaini piccoli, se arriva il tempo brutto qui la situazione può diventare critica. Scendiamo ancora qualche centinaio di metri poi un salto di una trentina di metri ci obbliga a risalire. Rincontriamo il pastore che ci indica la via e ci rifocilla con un tocco di pane e un bicchiere d’acqua, tutto quello che aveva. Discesa come da preavviso è “no swuin” (bello), il sentiero scende sopra la voragine a zig zag, ma qui qualche mulo c’è già passato anche se non recentissimamente come confermano le cacche secche. Nel punto che sembrava più difficile si apre una spaccatura a destra che facilita il percorso, un ultimo accumulo di neve a ombra e poi il sentiero pur rimanendo ripido diventa più agevole, in basso si vede Midelt vicina e le prime abitazioni sono a poco più di un’ora di cammino. Si cammina fra lecci un po’ secchi e un po’ spelacchiati a causa delle capre, è un’enorme distesa di alberi spettro. Stiamo per raggiungere le colline di terra rossa che ho visto per la prima volta dall ‘Ayachi lunedì, camminiamo lungo il greto del fiume, poi si trova una pista e si inizia ad attraversare una campagna a tratti coltivata, accanto a una collina di terra rossa si vede una tenda e una casa nel verde. Raggiunta la casa veniamo accolti da una famiglia gentilissima che ci accoglie sorridente con acqua, the e una frittata, senza bisogno di spiegazioni come il pescatore cantato da De André. Serena, che è già stata ribattezzata Zirina, crolla e si addormenta, gli ultimi due giorni sono stati duri ma se l’è cavata egregiamente soprattutto di testa, la cosa più importante.
Con Moha e Mohammed, due ragazzi ventenni, ci mettiamo d’accordo per il recupero di Tambone e dei bagagli, ci diamo appuntamento per domattina alle 5 qui alla casa di Hssein il fratello di Moha, si va noi tre e si porta anche un mulo. Moha torna alla sua tenda e Mohammed va dai genitori a Tattouine e io mi metto a dormire, gli ultimi quattro giorni sono stati impegnativi e poi devo recuperare perché domani sarà un'altra giornata impegnativa.
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AuthorUmberto
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Sveglia all’alba con sorpresa, è già pronto il primo “pane sasso” il pane dei pastori nomadi che si fa impastando la farina con l’acqua senza lievito, poi si avvolge l’impasto intorno a un sasso tondo (zona della “gola infernale” di martedì si trovano delle sfere nere quasi perfette) quindi si sotterra nella brace per cuocere, il risultato è eccezionale e poi come mi spiega Alla l’agrom (il pane) dei pastori è il migliore perchè dà la forza, ma essendo senza lievito non fa venire il mal di pancia. Con un sacchetto di farina e una teiera di latta, un pugno di foglie di the e una stagna d’acqua presa alla sorgente ci mangiamo in cinque.
Oggi proviamo a “sfondare” cambiando, scenderemo in direzione est lungo l‘oued secco, in fondo dovrei trovare uno sbocco verso la pianura così mi assicurano, abbiamo un carico più leggero perchè ho lasciato un po’ di roba al campo, salutiamo e iniziamo la discesa. Dopo poco si incontra un tipo strano su un mulo che ci guarda sospettoso, passano una ventina di minuti e si sente una grande botta, forse l’uomo misterioso cerca fossili o minerali con l’esplosivo. Il letto sassoso del fiume comincia ad avere un po’ d’acqua, i lati della valle sono inquietanti è tutto molto precario e ci sono continuamente delle piccole frane, entriamo in una gola stretta dove ci sono delle piccole cascate e tanti ammoniti, il viottolo finisce dentro un rifugio pastorale scavato nella roccia che si affaccia su un precipizio di una cinquantina di metri. Ritorno sui miei passi per qualche centinaio di metri e seguendo un’ impercettibile traccia che sale a destra del torrente mi ritrovo su una mulattiera, mirabile e mimetica che come un graffito è incisa nella roccia e rinforzata da arditi muri a secco, la discesa è impegnativa per la neve che è rimasta nei tornantini a ombra, ma eccezionale per il disegno ed il panorama che offre. Superata la gola ritroviamo il corso d’acqua, ora scorre sulla roccia, è un posto molto bello con cascate e laghetti abitati da rospi in amore. L’acqua scompare quando il letto torna ampio e sassoso, anche gli ammoniti finora numerosissimi non si vedono più. Fa caldo è da stamattina che si scende e abbiamo perso tantissima quota, incontriamo un anziano pastore con un gregge di pecore sparpagliato in un’ area molto vasta alla ricerca dei radissimi cespugli, l’uomo ci conferma che siamo sulla giusta via, poi finiamo in una grande arena circolare di fango, è un lago secco in alcuni punti c’è fango melmoso tipo sabbie mobili, in altri è compatto e screpolato, tutto intorno montagne rosse erose, sembra una gigantesca arena per battaglie di dinosauri, trovarsi qui con la pioggia può essere fatale. Ci sono delle tracce di sterco di mulo a destra e a sinistra, decido di salire verso nord in direzione della nostra meta seguendo la traccia di un fiume secco, il disegno è sinuoso e si apre sempre su un’ infinita salita di ciottoli.
Un paio d’ore di salita e troviamo una tenda di nomadi, una donna sta raccogliendo la neve in un canalone ombreggiato, anche lei mi conferma che siamo sulla via giusta, la salita sembra infinita, in una gola con pareti scure troviamo una serie di stagne di plastica incastrate nella roccia per raccogliere la preziosa acqua che scende lentissimamente a goccioline, è un ambiente estremo difficile anche per i nomadi. Incominciamo a ritrovare la neve, in uno slargo lascio riposare Serena e Tambone e vado a vedere dove termina il passo. Cammino per un paio d’ore su un bellissimo crinale panoramico dove sono sbocciati dei bellissimi fiori bianchi dalla neve appena sciolta, siamo saliti tantissimo ci troviamo nuovamente sopra i tremila, in lontananza si vede Midelt ma non riesco a trovare un passaggio per raggiungerla, sono montagne molto ripide che alternano pareti rocciose quasi verticali a tratti fangosi soggetti a smottamenti, la via migliore sembra quella che scende in direzione ovest lungo una gola rocciosa. Ritorno alla base e insieme raggiungiamo il passo inventandoci dei tornanti nel tratto più ripido e poi iniziamo a scendere nella gola, per fortuna non c’è tanta neve perché il percorso è sempre più difficile. Sbuchiamo dentro il letto secco di un fiume, sopra di noi delle rocce granitiche con chiusi che ricordano “La Tavola”. È quasi buio e comincia a fare freddo, montiamo la tenda su un pianello davanti a un caprile fra le coti di granito, a Tambone il posto piace perché c’è tanta erba fresca, non c’è acqua solo neve da sciogliere al fuoco e per mangiare un pezzo di pane che preferisco lasciare a domattina.
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Il primo sole ci da la sveglia, ma fa un gran freddo e aspetto chiuso nel sacco a pelo che si scaldi un po&rsquo. Ci sentiamo chiamare, sono due dei “cavalieri” incontrati ieri mattina nella valle di Taarart, sono sorpresi di vederci pensavano che fossimo tornati indietro, loro stanno andando a preparare i ricoveri per le greggi in un grande altopiano dove gli animali pascoleranno per tutta l’estate. Ci danno una mano a smontare e caricare e poi partiamo insieme, raggiunti i loro due muli prendiamo un sentierino che ci consente di evitare il canalone pieno di neve. I muli scendono veloci senza briglie in carovana, prima zizagando sul ripido pendio e poi in fila indiana e Tambone se la cava egregiamente, sembra contento della compagnia. Ci fermiamo alla sorgente a prendere l’acqua che esce dalla roccia, sotto di noi ci sono delle rocce chiare dove l’erosione ha disegnato un grande arco e una serie di piccoli poggioli a forma di dromedario. Arriviamo alla pianura e ci fermiamo dove ci sono delle piccole grotte e un campo di calcio con le porte e i bordi delimitati da linee di sassi. In un attimo accendono il fuoco per scaldare l’acqua e facciamo colazione, pane e the, mi spiegano che i muli torneranno a casa da soli e che loro rimangono qui per qualche giorno, loro sono seminomadi, Amazigh, sono pastori, in passato avevano le tende e si spostavano con tutta la famiglia poi il nonno ha costruito la casa e da allora le donne e i piccoli vivono stanziali, gli uomini si spostano durante l’estate. Ripartiamo mentre Alla e Hammed cominciano a fare dei muri a secco. Rimaniamo d’accordo che se c’è troppo Tagut ci rivediamo in serata. Si sale, il terreno è fangoso per il disgelo e il mulo fatica, poi con l’aumentare della pendenza diventa roccioso, un paio d’ore e siamo sull’ultimo passo, Tattouine e Midelt sono sotto di noi, ma sul lato di tramontana c è troppa neve, lascio Serena e Tambone sul colle e faccio un po’ di supervisioni a piedi per cercare una via, ma poi torno indietro, c’è troppa neve e anche tanto fango e il viottolo cammina nel vuoto, è troppo rischioso per il mulo, sarei tentato di mollare il mulo e di scendere a piedi ma poi decido ti tornare al campo base dei nostri amici Amazigh, mi sembra di essere Mosè che guarda la terra promessa. Si scende veloci nel terreno morbido fra le pernici che volano verso valle. Visto da qui l’altopiano è enorme, scuro di fango appena liberato dalla neve. Al campo sono arrivati due cugini che hanno portato un gregge di pecore e uno di capre, mentre Hammed è tornato a casa dalla famiglia. Lasciamo Tambone e si va alla sorgente a bere in compagnia di Hussein, il posto e la compagnia sono eccellenti e la delusione per non essere riuscito a sfondare scompare. Faccio una grande corsa in discesa verso l’arco, Hussein mi segue, è una sfida, vince lui ma di poco, ridendo col cuore in gola gli dico che ha vinto perché io avevo la macchina fotografica che mi sbilanciava, ma lui mi fa notare che le mie scarpe sono molto meglio delle sue, si ride di stanchezza come dopo le infinite partite di pallone da bamboli e poi mi fa un grande complimento, di quelli che quando ci pensi ti ride l’occhi, mi dice che corro sui sassi come un pastore Amazigh. Gli Amazigh sono considerati i più selvatici fra le tribù berbere (e berbero in arabo vuol dire barbaro, selvaggio), probabilmente me l’ha detto per farmi contento e c’è riuscito. Ritorniamo al campo che il fuoco è già acceso, col piccone prepariamo un piano perfetto e montiamo la tenda. Scarichiamo le foto nel pc ,esco per fare la legna ma è gia fatta, allora vado a fare il pastore, o meglio il cane pastore, aiutando a portare il gregge verso le grotte. Finiamo che è buio, non abbiamo più viveri, per fortuna che siamo stati “adottati”. Siamo tutti intorno al focolare con le greggi a cornice nelle grotte, accomunati dalla magia del fuoco, si mangia pane e si beve the. Le piccole teiere (ogni pastore ne ha una) sono tutte sulla brace e a turno si mescia la calda bevanda. Alla si allontana di qualche metro e rivolge la sua preghiera verso la Mecca. E’ una notte di quiete e armonia, uomini e animali radunati intorno a una fiamma sotto una volta di milioni di stelle dove non c’è traccia di aerei e satelliti. |
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La giornata è bella, decido di tentare il passo, Baali non è d’accordo, mi dice di provare e poi tornare a la maison di Taarart. Attraversiamo i vicoli del borgo intasati di mucche e capre e iniziamo a salire la valle. Il torrente limpido, i campi verdi, i contadini sorridenti, gli animali al pascolo, le vette innevate tutt’intorno, sembra la valle dei librettini dei testimoni di Geova, ci mancano solo i leoni che mangiano l’erba, qui però è tutto vero. Fa caldo anche in maglietta. Tutte le persone che incontro sono perplesse sulle mie intenzioni e mi ripetono a sentenza Tagut (neve), Tagut, Adrar (montagna) Tagut, Midelt no, Tagut. Tagut suona come il nome di un Dio che non perdona, è maschile e cupo, viene nominato ad occhi bassi, è sacro come il limo dell’antico Egitto, senza Tagut sarebbe il deserto, ma Tagut se lo sfidi ti uccide. Mi sento respirato come un profanatore occidentale e non mi piace, vorrei spiegare che non voglio sfidare Tagut ma solo ammirare questi luoghi di meraviglia, se Adrar dice che si deve tornare indietro, si torna. Dall’Ayachi la parte verde della valle sembrava finire appena sopra il paese, in realtà camminiamo per più di un’ora sopra la zona coltivata, poi guadiamo il torrente e il verde scompare, la valle diventa un deserto arido di ciottoli grigi. Da lontano si vede una nuvola di polvere alzata da quattro muli che corrono veloci verso valle, è una famiglia di seminomadi che stanno scendendo al paese per compere, si fermano, gli spiego sulla mappa le mie intenzioni, mi dicono che è molto difficile e mi consigliano di fermarmi alla loro casa che si trova poco più in alto nella valle, dove hanno lasciato le donne, loro torneranno stasera, ci salutiamo e proseguiamo in direzione contraria. La salita diventa più ripida e la pista inesistente, si continua nel letto di sassi sempre più stretto seguendo le dritte dei pastori che ogni tanto si incontrano, in questa aridità le greggi si spostano continuamente per trovare cibo a sufficienza. La valle sembra infinita, le montagne intorno scorrono verso il basso e si abbassano, una sensazione che ci fa capire che siamo ormai alti. Sui fianchi del canalone ci sono alcuni stoici ginepri dove un ragazzo sta caricando la soma del suo mulo di legna, è un concetto di taglio ben diverso dal nostro qui stanno attenti a non far seccare il prezioso albero, fare la legna è un po’ come mungere una mucca. Mi trovo davanti una gola stretta che sale ripida e scoscesa al confine della prima neve, Tambone non ce la fa, bisogna scaricare il tagrart. Porto su prima il mulo scarico che non ne vuole sapere e poi gli zaini e il resto del carico. La valle è finita siamo sul primo colle, a sinistra si sale per Midelt , a destra si piega verso Zhauia Hansa, anche qui un pastore dagli occhi assenti mi dice “Tagut”. Saliamo verso il prossimo passo in direzione Midelt avanzando in diagonale, il mulo non ce la fa a salire più ripidamente, siamo oltre i tremila metri tira vento e la fatica si fa sentire, Tambone va trainato se mollo le redini si ferma. Anche Serena è stanca ma soffre in silenzio. Finalmente sfondiamo, siamo altissimi, si cammina su un altopiano ricoperto di neve e poi si comincia a scendere, c’è abbastanza neve ma si riesce ad avanzare bene, ogni tanto devo “battere” la pista per non far sfondare l’asserdom, ma dopo la faticata dell’ascesa è un giochino divertente. Sotto di noi una gola che si presenta impegnativa perché nel canalone c’è tanta neve, il sole sta per tramontare, decido di salire in una zona di rocce stabili in alto per montare la tenda e passare la notte. Sul punto più alto un cumulo di rocce, mi affaccio e scopro una grande voragine scura che si perde nel vuoto, è una visione tetra, affascinante e drammatica sembra la porta di un regno del male. La roccia sembra basalto e l’aspetto è quello della bocca di un cratere vulcanico. Ci sono tanti corvi che volano fra le guglie interne al “cratere”, fanno capolino e poi si rituffano nel regno delle tenebre accrescendo la vocazione demoniaca del luogo. Il vento gelido mi riporta alla realtà, bisogna montare la tenda alla svelta prima che il buio e il gelo rendano tutto più complicato, Serena nel frattempo ha dato il meritato orzo a Tambone. Isoliamo il fondo della tenda con il naylon e la paglia e ci si prepara per la notte. |
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Sveglia 5.30, facciamo colazione col burro fuso, la specialità di Taarart, Baali ci dice che il passo per Midelt è chiuso, c’è troppa neve per valicare dalle piste di montagna, per arrivare nel capoluogo di provincia bisogna tornare indietro, domani decido, oggi voglio provare a salire fino alla vetta del Djbel Ayachi che con i suoi 3737 metri è la terza vetta del Marocco dopo il Toubkal e il Mgoun. Si esce di casa e le vie del paese sono invase da una grande mandria di mucche, muli e cavalli che sta scendendo verso valle, è una scena bellissima: la transumanza, la mandria scende veloce dentro una nuvola di polvere, è una macchia scura dai confini mutanti dimensionata da uomini e donne avvolte in vesti colorate che gli corrono tutt’intorno, garanti dell’incolumità dei coltivi del fondovalle. Correndo dietro la mandria mi ritrovo lontano dal paese, Serena mi raggiunge e cominciamo a salire sui fianchi del massiccio dell’Ayachi, siamo circondati dai muri a secco dei terrazzamenti dove il verde del grano, qui ancora basso, fa risaltare le fioriture dei numerosi meli. Camminiamo in direzione di una serie di cascatelle, man mano che si sale il pendio si fa più ripido e i pianelli assomigliano a tante piccole isole fortificate, tronchi scavati canalizzano l’acqua dal fosso ai coltivi. Raggiungiamo i salti d’acqua, c’è silenzio e profumo di menta e nipitella in questo Poio d’Atlas, sopra il liscione più grande un ampio getto d’acqua esce dalla roccia e si lancia in orizzontale per più di un metro, sopra solo e sassi e aridità, qui nasce il fiume.
Sopra la sorgente ci sono solo friabili sentierini arditi anche per le capre, saliamo dall’altro lato dove piccole piante abbarbicate di leccio e ginepro danno stabilità al terreno, in queste “macchie estreme” la gente viene a fare la legna, il paragone con la natura benevola dell’Elba è inevitabile, qui tutto deve essere conquistato con grande fatica. Anche qui ci sono tanti fossili, i più appariscenti sono i grandi amoniti, i più belli i trilobiti. La montagna è scura, ma attraversata da fasce di rocce chiare che disegnano degli ampi semicerchi somiglianti a schiene di giganteschi sauri dalle squame rettangolari, è molto ripido e si prende quota rapidamente, il terreno cambia forma, sfasciume, calcare e poi rocce scure disintegrate dal gelo. Serena preferisce fermarsi, guardando in basso, la grande pendenza e il paese, ora piccolo piccolo, mi ricordano le ascese allo Stromboli. Salgo verso una montagna che non vedo, incontrando la prima neve la vegetazione è praticamente scomparsa ma di tanto in tanto come per miracolo fra le rocce che si sono appena liberate dalla neve compaiono dei fiorellini viola, la pendenza elevata mi mette col “muso” sul monte mettendomi spesso faccia a faccia con favolosi fossili. Ora si vedono anche le montagne in direzione di Er Rachidia che erano nascoste dalla catena (con picchi superiori ai 3400 metri) opposta alla valle di Taarart, a est si vedono le montagne lontanissime, mi sembra di vedere anche il Toubkal ma non ne sono sicuro, la sensazione è di essere sul confine di una grande catena.
L’ultimo tratto è meno impegnativo, c’è tanta neve, ma è una specie di altopiano e si cammina bene, intorno nei canaloni ci sono grandi accumuli di neve. Arrivato sul culmine (mt 3737) mi godo il magnifico e ampio paesaggio a 360 gradi, c’è tanta neve e il sole inventa mille riflessi rendendo tutto fiabesco. L’affaccio verso nord regala dirupi e precipizi pronti ad inghiottire l’imprudenza e poi oltre si vede la grande pianura, il fiume Melloul, Midelt e il grande lago artificiale. A Ovest ancora montagne impegnative, le ultime dove c’è il passo che voglio valicare, lo vedo bene, non c’è molta neve, sarà impegnativo ma credo fattibile, mentre il medio Atlas che prosegue a nord oltre la pianura di Midelt ha un aspetto più dolce. Mi faccio un po’ di foto in vetta, non è assolutamente una montagna impegnativa, ma salire sul culmine mi da sempre una grande soddisfazione, mi viene in mente “La conquista del K2” un libro letto da militare durante le ronde notturne rubando le chiavi del comando (dove c’era la libreria del colonnello).
Inizio a scendere, la cosa più divertente è scivolare nel fango, in lontananza vedo Serena che è risalita un po’. La discesa è interminabile, nonostante si scenda velocemente sembra più lunga della salita, dopo le rocce scure, il terreno morbido, poi le rocce a cerchi, ma il duuar sembra sempre alla stessa distanza, quando arriviamo ai campi coltivati la notte è alle porte, entriamo nel paese ormai tutto rintanato, a casa ci attende Baali che vuole essere fotografato sul suo trattore, l’unico di Taarart. E’ già notte quando il silenzio ascetico della valle viene scardinato dalla cantilena ritmata di una canzone berbera, per un attimo penso a un altro lutto, ma per fortuna è una festa di fidanzamento. Sono ragazze che cantano e suonano tamburi fatti con contenitori e bottiglie di plastica. I Berberi amano la musica, le loro litanie accompagnano tutti i momenti della giornata, quando si cammina spesso prima si sente il canto e poi si vedono le persone, cantano da soli e in compagnia spesso ripetendo all’infinito la stessa nenia. Come mi spiegava Mohamed di Zawyat Ahansal, i Berberi non amano la scrittura, la loro cultura è musicale e la storia è tramandata attraverso le canzoni. Rientriamo che è pronta la cena, facciamo il pieno di burro fuso e ciccia, domani sarà una giornata impegnativa e le donne di casa ci hanno preparato una cena energetica. Siamo nella grande sala che è anche la nostra camera, al muro sono inchiodate le immagini del re, fratello del re e del figlio del re, Baali mi chiede chi è il re d’Italia, gli dico che in questo momento siamo senza ma fra qualche giorno anche l’Italia avrà una specie di re e mi addormento con l’immagine incubo delle case degli italiani con le pareti di sala adornate con le foto di tutta la famiglia Berlusconi.
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Sveglia alle sei, ci saluta Hussain che sta già andando a lavorare nei campi, è un ragazzino, ma è già un uomo, ha in pratica tutta la famiglia sulle spalle. Facciamo una provvidenziale colazione da contadino dell’Atlas mangiando due ciotole di pasta, prima di salutarci il vecchio Wasen mi da delle preziose dritte su come legare il tagrart, mentre le donne di casa si fanno un sacco di foto con Serena. La strada scende fiancheggiando il fiume, c’è l’asfalto ma si incontrano solo donne ciccione in sella a microciuchi, al guado incontriamo una famiglia mamma e figli che con i loro asini stanno facendo il percorso all’inverso.Viaggiare col mulo è eccezionale per fare conoscenza, non sei schermato da lamiere e vivi alla velocità delle persone che incontri, anche i termini che usi sono gli stessi: tagrart, shuarì, host, herra, ssscohoh, yallah, oued, adrar, duuar, tizi, nishan, e quando ti sentono pronunciare qualche parola in dialetto sei di famiglia, un po’ come succede in Corsica nei borghi del dito quando discori all’Elbana.
Arriviamo ad Agoudim, un paese bello con diverse Kasbak, alcune anche con decori raffinati, e numerosi edifici costruiti dai francesi che ricordano il passato minerario di questa zona. Un ragazzo si avvicina e ci invita a casa sua a prendere il the, ottima occasione per avere informazioni. Mentre Ou Abbas ci parla della sua gite in costruzione in società con uno spagnolo, Tambone si sdraia col carico, colgo l’occasione per ripartire prima che il thè diventi un pranzo e poi una cena. Si prosegue lasciando la strada, la primavera sta colorando i campi, i fiori gialli e bianchi rendono più gioviale il paesaggio imponente delle grandi montagne. C’è un fosso dove diverse ragazze stanno lavando, tutte vogliono essere fotografate, qui il rapporto con le foto è totalmente diverso dalle zone della prima parte della traversata, c’è la ressa per guardare le foto nel display della fotocamera.
Arriva dalla montagna una carovana di muli al trotto carichi di legna, sono una decina alzano la polvere e danno spettacolo, sono guidati da giovani donne che qui sono più intraprendenti, in tante ci invitano a casa e ci danno informazioni sulla via per Taarart, anche se non capiscano perché se dobbiamo andare a Midelt passiamo dalle difficili vie di montagna invece di passare dalla strada asfaltata. Percorriamo una pista sterrata che attraversa un deserto di roccia grigio senza traccia di persone, dopo un paio d’ore incontriamo due donne di ritorno dalla macchia, ci vogliono invitare a pranzo, rifiuto a malincuore, mi colpiscono i bei gioielli, credo d’argento, che gli adornano i polsi, da noi credo che le donne un siano mai andate ingioiellate alla macchia. La strada è larga e monotona, incrociamo un pastore che mi da buone dritte, poco dopo arrivano due camion (i mitici bedford) sui cassoni ci sono almeno cinquanta persone, che sommate a quelle in cabina e sul tetto fanno più di sessanta persone a camion. Chiedo informazioni e mi confermano che siamo sulla via giusta per Taarart, ma mi dicono anche che a Taarart non c’è niente solo freddo e miseria.
Saranno le tre del pomeriggio quando incontriamo un villaggio, dalla prima casa ci chiama la padrona di casa per il the, non me lo faccio dire due volte, ho fame e sete. Ci prendiamo il the e si mangia anche una bella frittatona. La donna vive sola con i figli, un bimbo e una bimba che stanno guardando alla televisione dei cartoni animati giapponesi, che sono gli stessi in tutto il mondo solo che qui si cucina su una stufa ricavata da una latta, si vive dentro una casa di fango in compagnia dei polli e l’acqua si prende al fosso. Fatima è originaria di Imichil, è tutta eccitata, ci fa vedere le foto di una festa, credo il matrimonio, e poi mi chiede di fotografarla insieme a Serena con un con un vestito da festa. Ci invita per la sera facendoci ben presente che lei ha una mucca che fa tanto latte, decliniamo anche l’invito a pernottare della donna di Imiclhil e si riparte. All’ingresso del paese di Thirermine i campi sono colorati di verde inteso e le donne del villaggio sono nei coltivi a sarchiare, mentre nella “piazza” del paese c’è la solita stesa di vagabondi. Attraversiamo il borgo seguito dal brusio dei commenti e dalle risate della gente, chiedo un po’ di informazioni e proseguo sulla via principale. Da un vicolo intravedo sfuggente una bella ragazza dagli occhi grandi tutta vestita di bianco, la rivedo poco dopo in sella a un mulo mentre stiamo guadando il fiume, che cavalca verso le montagne innevate come una misteriosa principessa delle nevi.
La pista prosegue in alto sul lato sinistro del fiume, sotto di noi una campagna coltivata, rincontriamo uno dei due camion, sta scaricando persone e merci casa casa. Questi camion sono l’unico mezzo di trasporto e tutto merci, persone e animali viaggia sul cassone e fa anche da trasporto informazioni, dalle case la gente si avvicina per sapere cosa succede fuori dalla valle, il camion e un po’ come quando arriva la nave a Pianosa. Risaliamo la valle, sopra di noi si vedono solo montagne brulle, mentre dall’altro lato ci sono delle meravigliose montagne innevate che ricordano le dolomiti i cui picchi superano i tremilaquattrocento metri. Il paesaggio torna selvaggio, incontriamo solo spavalde donne sui muli, la neve è sempre più vicina, dovremmo essere sotto il Jbel Abachi ma non si vede nessuna grande vetta innevata sopra di noi. Nella valle sta entrando il gelo quando raggiungiamo un austero duuar di cui ignoravo l’esistenza, perché non segnalato nella cartina, gli abitanti sono ostili, si vede che qui estranei ne viene pochi, tutti si allontanano al nostro passaggio, però ci si sente gli occhi di tutti addosso. Si avvicina un anziano gentile che mi indica la via per Taarart fra i vicoli del borgo dicendomi che mancano ancora cinque chilometri e consigliandomi di rimanere da lui per la notte. Ormai manca poco voglio arrivare, proseguiamo, bisogna guadare nuovamente il fiume, fa freddo e per portare sull’altra sponda Tambone bisogna bagnarsi fino alle caviglie, ma la solita fortuna arriva anche stavolta, arrivano due uomini dal lato opposto con i muli e uno di loro prende per le redini il nostro asserdom e lo porta di là, così noi passiamo saltando fra i sassi e rimanendo asciutti, è un favore enorme perchè sicuramente siamo sotto zero.
Viene notte, la via è illuminata dalla neve che riflette la luce della luna e delle stelle, dopo una mezz’oretta si vedono alcune luci che si specchiano nell’acqua, per raggiungere il paese bisogna passare un altro guado, per fortuna c’è una specie di ponte e raggiungiamo Tarrart con i piedi asciutti. Il paese si sviluppa sui due lati della via, ci spostiamo a sinistra dove ci sono delle luci, c’è una specie di bar negozio dove ci sono un po’ di uomini che giocano a carte, chiedo se possiamo dormire da qualche parte oppure montare la tenda, dopo un primo momento di sguardi cupi, l’atmosfera si fa più rilassata, si avvicina un omone che ci invita a seguirlo a casa. Entriamo nella grande casa di Baali, costruita in pietra, calda e profumata di legna bruciata, ci offrono burro fuso, pane caldo e the e ci invitano a restare qualche giorno.
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Il padrone di casa ci sveglia alla cinque per la colazione, ci prepariamo per la partenza. In paese c’è grande mobilitazione, stanno arrivando tante donne per la cerimonia luttuosa, è come una migrazione di donne in gruppi famigliari, alcune in sella a asini e muli, la maggior parte a piedi. Siamo controcorrente rispetto alla migrazione delle donne, sembra che vadano ad una festa più che ad un evento luttuoso, alcune fra le più giovani sono vestite in maniera elegante e vistosa e cavalcano con intorno “cortigiane pedestri”, forse vanno a proporsi come moglie dal vedovo che è rimasto solo con quattro bimbi piccoli, sembra di essere dentro un film in costume. Il viottolo diventa pista, poi si svolta a destra e si entra in una valle piena di cedri. Sono i famosi cedri dell’Atlante, questa è la foresta più meridionale, sono alberi giganti padroni assoluti di questa zona. La pista cammina lungo il corso del fiume che la taglia spesso facendoci fare tanti guadi, sul primo costruiamo un”ponte” poi si guada alla meglio. Su un viottolino stretto e ripido, alto sul fiume Tambone si cappotta, per fortuna senza farsi male, bisogna scaricare tutto il carico e portarlo in basso e già che ci siamo si mangia. I cedri sono sempre più grandi, mentre il cielo comincia a farsi minaccioso con grandi nuvole grigie, è da stamattina che stiamo salendo, siamo nuovamente molto alti, ogni tanto si incontrano delle case isolate. Sotto un cielo sempre più minaccioso attraversiamo terre colorate di rosso e di verde, arrivati in cima ad un passo la neve ritorna ad accompagnarci. Veniamo circondati da un gruppo di bimbi apparsi dal nulla, sono spauriti e eccitati hanno gli occhi sgranati e urlano, mi fanno impressione è la prima volta che vedo una cosa del genere sembrano drogati. Il capo avrà una decina di anni, dice di seguirlo ché la strada che ho preso porta nella selva e non a Midelt, insiste delirante che devo seguirlo, pianti, urla, capelli strappati, una scena inquietante e tristissima, arriva un ragazzino più grande sui quindici anni, con fare da bimbo bono e occhi da vile, anche lui ci vuole portare fuori via, lo blocco mentre cerca di aprire il tagrart. Fra scene deliranti andiamo avanti per più di mezzora poi si defilano. Sono rimasto turbato da questi bimbi dagli occhi sgranati in preda ad una specie di attacco epilettico, vorrei capire da cosa erano alterati. Continuiamo a salire, il vento ed il freddo aumentano la drammaticità del paesaggio, finalmente si vede sul culmine della via il villaggio di Anemzi, spoglio e austero è velato dai fumi bassi dei camini che contrastano la morsa di gelo, fra i ripetitivi parallelepipedi gialli delle case spicca e disturba una villa in costruzione con la classica architettura europea. Il sole sta tramontando e c’è una rasoiata di luce rosa molto bella, ci si avvicina un gruppo di uomini vestiti di nero, il più grasso si presenta come presidente del villaggio, sono curiosi e amichevoli, ci vogliono dare un passaggio con il pick up del “presidente” e ci danno un po’ di informazioni, molto confuse per la verità: la distanza da Agoudim varia dai quattro ai cinquantaquattro chilometri, ma sempre nella massima gentilezza. Ci salutiamo rifiutando gli inviti di ospitalità che singolarmente ognuno ci ha fatto e si prosegue. Qui la pista diventa strada asfaltata e inizia a scendere, un ultimo sguardo a ponente verso le vette già incontrate e poi la discesa che ci apre un nuovo magnifico scenario sulle catene del Masker e del Jbel Ayachi. Incontriamo due anziane donne che stanno rientrando in paese curve sotto un enorme fascio di legna, hanno il mento a mezzo metro dalla strada, ma trovano la forza di salutare per prime e di chiedere incuriosite chi siamo, da dove veniamo e se l’asserdoom è nostro. Scendiamo mentre cala la notte, l’idea è quella di fermarsi nel borgo di Bousserfin, che dovrebbe essere a sei chilometri da Anezmi, dove ci dovrebbe essere una gite. Arrivati in paese ci vengono incontro dei bimbi, gli chiedo della gite, mi indica in viottolo in mezzo al nulla che va verso il fiume, decido di proseguire sulla strada. Incontriamo una casa con un cartello di un associazione culturale, busso e mi apre una ragazza che ci offre ospitalità, è una famiglia solare e accettiamo di buon grado. Si scarica Tambone e si entra nella casa dove vivono due ragazze giovani con due bimbi piccoli, un ragazzo, la nonna e il nonno un tipo ganzo, sordo e ridaccione che è contentissimo della nostra presenza. Passiamo la serata guardando le foto del viaggio e dell’Elba che conservo come i preziosi di famiglia nel pc.
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La luce ci sveglia, ammiriamo l’alba dalla tenda, poi il sole ci scalda e si esce. Con la luce del giorno la quantità di fossili è ancora più impressionante, ce ne sono milioni con molte varianti per forma e dimensione. Passano pochi minuti e arrivano tre pastorelli, su queste montagne c’è sempre qualcuno anche nei luoghi più isolati, uno dei tre suona un tubo di plastica a mo’ di flauto, ci godiamo un po’ il posto e poi si carica e si parte. Un bimbo ci indica la giusta via, il viottolino diventa mulattiera quando incrociamo un pastore che ha in grembo un agnellino appena nato, dopo un’ora di discesa imbocchiamo la pista che ci porterà a Anefgou, seguendo il fiume. E’ già da una mezz’ora che la roccia di prevalenza è il granito, i fossili sono scomparsi, ma ci sono tanti cristalli di quarzo, i più appariscenti sono alcuni verdi. Incontriamo i primi cedri dell’Atlas e ci sono enormi coti rotondeggianti sparsi lungo i pendii ripidi delle montagne, il paesaggio è cambiato totalmente, è tutto molto più verde, vediamo una baita in perfetto stile alpino, e alcuni altri edifici simili, ma ancora nessuna persona. Il fondo valle è coltivato, nei pressi di Anefgou incontriamo le prime persone, il paese è mimetizzato con le rocce giallastre della montagna alle sue spalle, guadiamo il oued e entriamo nel villaggio sotto gli sguardi “corleonesi”degli schivi abitanti. Mi dirigo verso la scuola per chiedere qualche informazione e la giovane maestra mi affida a un bimbo che ci accompagna assieme al fratello più grande all’hotel cafè di famiglia, l’unica struttura “ricettiva” del paese. Si passa davanti ai prati del paese dove ci sono tutti gli uomini sdraiati al sole che dormicchiano. Hammed ci porta a casa, l’hotel è una stanza con dei materassini, il bagno è la stalla che ospiterà anche Tambone, scarichiamo il bagaglio e ci fermiamo, dopo una siesta mangereccia, the e uova, facciamo un giro del paese, le donne sono più belle del solito, sono ingioiellate ed hanno gi occhi truccati, le bimbe hanno le trecce e alcuni bimbi hanno una cresta punk. Ci sono tante persone, è un villaggio che non sembra per niente islamico, c’è un grande gruppo di donne e ragazze, almeno trenta, ma ci fanno capire che non siamo graditi, giriamo fra le case che qui hanno ampie scale esterne in legno, il cui spazio sotto viene usato come riparo. Facciamo un giro e si rientra, Hammed ci apre il negozio, compriamo sardine e biscotti e torniamo a casa. Come sempre si fa amicizia coi bimbi, Hadda, la piccola sorella di cinque anni è l’attrice protagonista della situazione, qui comanda la mamma, una donna autoritaria e di poche parole. Ci viene a fare visita un anziano barbuto con un tonacone bianco, ha un’aria contrariata ,vuole vedere i documenti e non gli torna che siamo arrivati con l’asserdoom (il mulo). È il responsabile del paese e mi fa scrivere i dati anagrafici su di un pezzo di cartone, poi lo sento brontolare con il padrone di casa, pochi minuti e arriva un ragazzo che si presenta come responsabile della polizia che mi richiede le stesse cose poi va via soddisfatto. È ormai buio quando il silenzio viene rotto bruscamente dal rumore di un’auto accompagnato dal suono ipnotico del canto urlato delle donne e poi il rumore di una grande corsa collettiva. Andiamo a vedere che succede, tutto il paese sta andando verso lo stesso punto, c’è un fuori strada parcheggiato, gli uomini incappucciati e le donne che cantano sbattendo la lingua, nella concitazione casco nel canale dell’acqua proprio mentre passa un feretro coperto da un telo bianco portato da uomini che risalgono da dietro il villaggio verso la casa dove si è radunato il paese. Gli uomini intonano un canto di cerimonia, sul tetto della casa e intorno ci sono centinaia di persone, i falò nelle viuzze rendono tutto molto suggestionante, vorrei fare delle foto, ma non me la sento, c’è un’atmosfera che è un misto di eccitazione e cerimonia liturgica. Ci raggiunge Hammed, anche lui è suggestionato da questa situazione, mi parla di un muto e di persone che hanno problemi, i canti luttuosi di una donna con un infante sulle spalle e gli sguardi ostili delle persone ci invitano a lasciare il luogo. Rientro con una grande curiosità per questo evento che non ho capito, ma che mi ha suggestionato. In tarda serata ci fa visita un altro pseudo poliziotto che ci dice che domani lo dobbiamo seguire al commissariato di un paese vicino perché non è normale che degli stranieri vadano in giro per cosi tanto tempo con un mulo, dopo una mezzora di risposte calme, alzo la voce e gli dico che io non vado con nessun poliziotto, come d’incanto si normalizza tutto, mi dicono che va tutto bene, mi chiedono scusa per il disturbo e mi dicono che domani posso andare dove voglio . Si viene a sapere cosa è successo: è morta una giovane donna incinta.
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Partiamo di buon’ora, la padrona di casa ci raccomanda prudenza e i suoi attendenti non si capacitano sul perché voglia passare dalla montagna invece che dalla pista di Imilchil, ma tutto sommato sono molto gentili, ci preparano una grande colazione e ci regalano un pane caldo. Appena partiti un grande falco bianco volteggia sopra le nostre teste, è una giornata bellissima il sole e l’assenza di vento fanno salire rapidamente la temperatura.Stamani Tambone non vuole andare, la prima ora è sempre una battaglia ma stavolta è proprio una guerra e spiegagli che l’omo è superiore alla bestia come mi dicevano i vecchi della Bonalaccia è una gran faticata. Dopo un paio di chilometri due donne che stanno lavorando nei campi mi invitano a compartire con loro la colazione, latte, pane e arance. Stanno zappando il terreno liberato dalla neve per prepararlo alla semina, nei campi si sono portati i figli più piccoli, la più piccina è una bambina di pochi mesi tutta imbacuccata nelle coperte e posata sul terreno sotto lo guardo vigile della sorella che avrà al massimo due anni. Ripassiamo davanti al villaggio semi deserto, dove una donna sta cocendo il pane, poi nel deserto appare in lontananza una bicicletta come un miraggio, che si rivela reale dopo qualche minuto, si ferma incuriosito a scambiare qualche parola sorpreso più di noi dell’incontro, poco prima del lago rincontro il bimbo di ieri sera oggi in compagnia di altri due colleghi che mi mostrano alcuni fossili molto belli. Arrivati al lago vediamo nel fango le nostre impronte e abbiamo un ulteriore conferma che non c’è né gite né villaggio di cui parlava la guida, sono segnalazioni che possono costare caro e mi confermano ancora una volta che tutte le informazioni vanno sempre verificate . Il lago è bellissimo, azzurro come il cielo con il riflesso delle vette innevate nelle acque immobili, ci fermiamo un po’ per goderci lo scenario immersi in un silenzio assoluto. Ripartiti dopo poco incontriamo qualche casa, ma sembrano tutte deserte, disabitate, la vegetazione è quasi assente. Continuiamo a salire, la pista è solo una piccola traccia che si mimetizza nel terreno cromaticamente uniforme, da una casa isolata ci viene incontro una donna con un bimbo sulle spalle, il piccolo è malato, ha la testa piena di bolle e pustole e il collo gonfio e pieno di ematomi, dagli occhi gonfi e lacrimosi si capisce che sta veramente male, la donna mi chiede qualcosa per curarlo una crema, delle pasticche, ma io non ho niente e soprattutto non sono un medico, non so cosa fare gli dico di andare ad Imilchil dove c’è una specie di ospedale, mi dice che c’è gia stata e gli hanno dato una crema ma non ha funzionato, la esorto a portare il bimbo giù ma non mi sembra di averla convinta. Il problema della sanità qui è enorme, i medici sono pochi e male attrezzati, non hanno i mezzi per spostarsi e anche se li avessero non possono lasciare scoperti i luoghi principali per andare a soccorrere le persone che vivono isolate, poi qui la gente è totalmente fatalista se uno si ammala e perché allah ha voluto così. La pista si divide in due, ma la mamma di prima ci insegue e ci indica la via per Midelt. Siamo dentro un grande deserto di pietra, a sinistra una montagna di rocce chiare a forma di semicerchio, non c’è pista, ma c’è un gregge e il pastore mi indica la via. Siamo su un grande altopiano circondato da montagne, quasi senza rendermene conto mi trovo a camminare dentro una grande necropoli con centinaia di tombe, sicuramente non è un cimitero mussulmano anche perché nelle vicinanze non c’è nessun paese, tante tombe a cassetta e alcune a tumulo, molto simili a quelle del Piano alle Sughere ma in uno spazio molto più esteso che si confonde in una distesa di pietre squadrate che mi fa venire in mente “le Mure”. È un contesto imponente e apocalittico che evoca epiche battaglie fra grandi eserciti, dimenticati protagonisti di un passato mai scritto. Ci sono tanti fossili soprattutto Ammoniti, la pista indicatami segue il corso secco dell’oued, sale lenta e sinuosa, allora decido di tagliare a sinistra salendo un monte di pietraie scure. Il percorso è ripido e instabile, Tambone scivola e si accascia sopra il tagrart, per fortuna un pastore in alto mi vede e mi viene incontro aiutandomi a ricaricare e indicandoci la via di Tirrhist. E’ quasi il tramonto, si sale sempre di più, il terreno ora è morbido, siamo sui tremila metri, c’è la neve intorno, in basso si vedono alcuni pastori nomadi che si stanno spostando verso i rifugi per la notte. Nella valle è scesa l’ombra, in alto c’è ancora il sole, incontriamo un bimbo pastore quasi in vetta, siamo sul culmine, è una montagna che ci regala un panorama maestoso, uso spesso questo termine, ma qui è assolutamente appropriato. Il bimbo solitario intona un canto berbero sul tramonto, anche a me viene di stonare un canto di gioia per glorificare la bellezza del posto. Siamo sul passo alto, le montagne che sembravano lontanissime sono quasi tutte sotto di noi, a ovest il plateau e il lago di Isli, a levante, sotto di noi, il villaggio di Tirrhist che sembra un presepe con la campagna coltivata a terrazzi che evocano le risaie del sud-est asiatico, poi apparentemente infinita la catena del Medio Atlante fino alle vette lontane del Masker. Siamo su una montagna di fossili di conchiglie, se si arrivava una mezza milionata di anni fa c’era anche da rimedia’ un cacciucchino, invece ci tocca mangia’ scatolette di tonno. Appena sotto la vetta a est c’è un rifugio, altri ripari si trovano più in basso, siamo a tremila metri e siamo già sottozero, metto Tambone a riparo nella “stalla” e poi si monta la tenda, ne blocco i bordi con lastre di fossili, e poi mi godo il panorama, lo scenario con le stelle che cominciano a illuminarsi e la neve che riflette le luce gelida della notte è di quelli indimenticabili.
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Dopo qualche giorno di sveglie all’alba una dormitona ci voleva, andiamo a piedi alla vicina Imilchil, così si riposa anche un po’ Tambone che sta mangiando felice l’erba sul bordo del lago.
Imilcil è la porta verso il deserto ed è famoso per il Mousseum (il mercato degli sposi) che si tiene qui a settembre, per l’occasione qui si radunano tutti i nomadi e gli abitanti dei villaggi alti, prima che la neve li isoli per l’inverno. il Mousseum è un occasione ottima per accoppiarsi per gli scapoli dei villaggi isolati. L’evento risale al periodo coloniale ed era stato istituito per aggiornare l’anagrafe, oggi è diventato un evento turistico, lo si capisce dai tanti alberghi, ora deserti, e dai mille richiami all’evento. Facciamo scorta di viveri e si rientra velocemente approfittando di un passaggio con un mitico Bedford rosso che sono la colonna portante dei trasporti in Marocco. Il camionista è un allegro vecchietto che parla francese, il camion ha due enormi tachimetri (uno è una sveglia modificata) che non funzionano e un interruttore da casa per le luci. Si prepara il bagaglio e si parte, salendo in direzione del lago di Isli la pista cammina in mezzo a questa pianura in quota, tutt’intorno montagne brulle e in alto la neve, si incontra un villaggio, ma è deserto, sono i villaggi dei nomadi che durante la stagione fredda vengono abbandonati, guardo meglio e una casa è abitata, forse sono i primi ritornati. Salendo incontriamo un bimbo pastore che pascola le sue pecore in un terreno apparentemente sterile. La strada sale costantemente anche se in maniera quasi impercettibile, la giornata è bellissima ma gelida e ora che sta andando giù il sole il freddo diventa intenso, il terreno è sterile e bagnato in pratica è fango tenuto assieme dal gelo, è quasi notte quando arriviamo al lago di Isli su cui si affacciano i picchi innevati e un deserto in quota, della piccola gite di cui parlava la guida non c’è traccia. È molto bello, ma il terreno è bagnato e precario, ricco di canaloni e smottamenti in caso di pioggia o neve può essere molto pericoloso e poi fa veramente tanto freddo, decido di tornare indietro e dormire in un posto più caldo e sicuro. Si Cammina a ritroso sotto una stellata che illumina la steppa per un paio di ore e poi si ritorna al castello solare, che si vedeva stranamente illuminato da qualche chilometro, sono arrivati un gruppo di fuoristradisti olandesi che hanno animato la struttura, c’è ancora una camera libera, quindi per stanotte si dorme fra le mura poi domattina si riparte per Isli e le grandi montagne.
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