AuthorUmberto

5 Marzo 2008: Tabant – Ait Wangdal – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

 

Dalla luce che entra dalla finestra sembra proprio che sia una bella giornata, oggi bisogna partire davvero. C’è una luce fortissima, durante la notte è nevicato più in basso dell’ultima volta e la valle sembra rivestita di carta stagnola, tanta è la luce. Andiamo a vedere dei francesi, che in realtà sono belgi, ma dormono ancora, gli lasciamo un biglietto con il nostro numero telefonico e andiamo da Beljik a finire il lavoro. Ci troviamo davanti alla porta di casa, lui sta andando a lavoro e noi rimaniamo come padroni. Mentre si scarica le foto cerco di leggere la posta e le notizie dell’Elba. Come al solito è tutto più lungo del previsto, ma ormai ci siamo. È arrivato anche Beljik che ha voglia di chiacchierare di religione. Beljik per certi versi è un po’ come Mohammed di Agadir Bou Acheiba, è un mussulmano convinto e mi fa un gran sermone sulla perfezione della legge coranica, è un brav’omo e si vede che la sua fede gli da forza e tranquillità come lo si vede anche in qualche cristiano o buddista. In questi tre mesi è aumentato il mio rispetto per questa religione e ho veramente voglia di leggere seriamente il Corano per conoscere in maniera più approfondita la materia. Sono sempre stato affascinato dalle religioni, io non credo nelle verità assolute e nemmeno che si possa dare la colpa o il merito a entità superiori per quello che ci capita, penso che dio sia uno dei frutti più spettacolari prodotti dalla mente dell’uomo, in grado veramente di gestire i destini di milioni di persone. La discussione va per le lunghe, sono quasi le tre e ci dobbiamo vedere con i belgi che nel frattempo hanno telefonato e poi c’è anche da partire. Andiamo al pullman blu dove ci sta aspettando la famiglia dei giramondo, ci accolgono sulla loro casa mobile con la quale sono in viaggio da due anni. Hanno attraversato tutta l’America, dalla Patagonia all’Alaska, poi sono tornati in Belgio e ora sono venuti in Marocco e fra tre settimane finiranno il loro viaggio. Passiamo una mezz’oretta insieme, ci invitano a restare un po’ con loro, mi dispiace declinare l’invito, ma è il momento di partire. Lasciamo il paese fra il solito brusio di commenti e ci avviamo verso la pista sterrata in direzione di Ifrane. Camminiamo attraversando la stretta valle con una serie quasi ininterrotta di case lungo la strada, poi quando comincia fare buio ci fermiamo davanti a una scuola, vado a chiedere informazioni e trovo un giovane maestro che mi dice che se voglio ci possiamo fermare nell’aula vicino alla strada. Per me è una soluzione ideale: fuori c’è il posto per l’asino e dentro c’è la corrente, così posso ricaricare le batterie, ci sono i banchi per mangiare e scrivere e c’è anche la televisione con l’impianto satellitare perché questa è l’aula che usano gli insegnanti come loro base. Sistemiamo il bagaglio e poi mi guardo un film di guerra americano coi sottotitoli in arabo.
   

4 Marzo 2008:Tabant – Marocco

Image

Image

Image

 

Oggi dovevamo partire, ma c’è ancora da inviare un sacco di cose e nei prossimi giorni sarà impossibile farlo. È da giovedì sera che siamo ospiti di Mohammed e Farida sono una coppia di anziani che ci hanno quasi adottato, hanno trasformato la loro casa in una gite d’etape, la più antica della valle, esiste dal 1985, e siamo stracoccolati, un po’ perché gli piace questa storia del viaggio con l’asino, un po’ perché siamo gli unici ospiti. Stamattina abbiamo fatto la solita grande colazione sulla terrazza che si affaccia nella valle e siccome doveva essere l’ultimo giorno qui ci siamo fatti le foto insieme e Mohammed ci ha portato un saccone di noci e del pane fresco da mangiare durante il viaggio. Siamo nuovamente da Beljik che ci da una piacevole notizia, in paese è arrivato un pulmino con una famiglia di francesi babbo, mamma e quattro figlioli che da due anni sono in giro per il mondo e stanno per rientrare in Francia. Beljik li ha conosciuti e ci fa vedere il loro sito, pur essendo un viaggio diverso dal nostro, ci sono delle affinità. La cosa ci incuriosice e domattina, se non sono ancora partiti, li andremo a trovare.
   

3 Marzo 2008: Tabant – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

 

Al mattino il cielo è grigio e sulle vette sembra nevicare, meglio così perché questa giornata la devo dedicare a scrivere. Tabant è un posto immerso nella natura e nel passato lo si percepisce anche dai suoni che si ascoltano dall’interno di una stanza: lo scorrere dell’acqua dei canali sempre più forte per lo scioglimento delle nevi, le folate di vento violento che improvvise scendono nella valle, il suono degli zoccoli degli animali frenetico e tintinnante quello degli asinini, lento e dimesso quello degli asini, forte e deciso quello dei muli. Sono in una stanza decorata con i tipici disegni berberi dalle forme geometriche e i colori sgargianti, fra cuscini e coperte e mi sembra di essere un nobile berbero nel suo castello di fango. Nel pomeriggio il cielo si apre e si vede bene che è scesa tanta neve, il manto bianco è più basso di almeno cinquecento metri. Scendo in paese per vedere se riesco a usare internet, la bottega è aperta, ma sta per chiudere, per fortuna c’è Beljik, un corpulento ragazzone vestito con un tunicone da marabutto, che ha una specie di telefono satellitare con cui si connette alla rete, che mi invita a casa sua. Si vede che è la casa di un appassionato di tecnologia, ci sono diversi telefoni e tastiere, un grande computer e la televisione è collegata ad un’antenna parabolica orientabile che si collega a una miriade di canali. Devo spedire tante cose, ma non posso resistere dal controllare il risultato della sfida con la Juventus su Fiorentina.it e faccio bene! Perché le notizie e le foto della vittoria in trasferta mi mettono ancora più di buon umore. Dopo aver cenato Mohammed, l’anziano padrone di casa, tira fuori una vecchissima carta della regione macchiata e consumata ma molto bella e ricca di dettagli, dove possiamo vedere molto bene il percorso dei prossimi giorni, ricco di valichi di alta quota.
   

2 Marzo 2008: Tabant – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

È il giorno del grande souk, si sente il brusio del mercato anche dalla camera. Appena esco rimango impressionato dal numero di asini e muli parcheggiati ai margini del souk, sono diverse centinaia di animali arrivati per lo più al mattino presto dai villaggi più isolati. Questo è un vero souk di montagna non ci sono oggetti per turisti, la gente dalle valli porta prodotti alimentari e artigianali e oggetti da riparare. Nel parcheggio degli asini ci sono i maniscalchi, entrando il souk è diviso per settori: nella zona alta ci sono i macellai con le carni esposte sui banchi e sotto la macabra esposizione di teste e pelli di capre e pecore a testimoniare la freschezza dei loro prodotti, poi c’è la zona dell’abbigliamento, la via sottostante è quella della frutta e della verdura, è la parte più colorata e frequentata. Proseguendo si incontrano i calzolai, in assoluto i più richiesti, tutti hanno scarpe da cucire e risolare, lavorano a un ritmo impressionante è uno spettacolo vedere con quale abilità piantano i chiodi nelle suole. È il festival del riciclo, ci sono contenitori ricavati da vecchi copertoni e bidoni, le lamiere più disparate trasformate in mangiatoie, anche le selle e le shuarì sono fatte con materiale di recupero, ma gli articoli più spettacolari sono le stufe, sono tutti pezzi unici, le più ambite sono quelle ricavate da scaldabagni bucati, hanno uno sportello per la legna e quello per il recupero della cenere, tutto ritagliato e ricavato da materiale in disuso. Sicuramente il materiale che si trova solitamente da noi fuori dai cassonetti qui verrebbe esposto come merce di pregio. Anche il modo di comprare è singolare, dopo il solito mercanteggiare per il prezzo, la merce acquistata viene nascosta sotto i vestiti e poi caricata sugli asini, perché in base ai principi della legge coranica è disdicevole ostentare la merce acquistata, in special modo la carne. Intorno a mezzogiorno il souk comincia lentamente a svuotarsi, gli abitanti dei villaggi più lontani caricano le merci acquistate nelle shuarì sopra i propri animali e intraprendono la via del ritorno, anche i banchi cominciano a smontare, cominciano ad entrare nelle vie i vecchi Bedford rossi su cui vengono caricati le merci e le persone che provengono dai villaggi collegati con la strada. Le donne e i vecchi vengono fatti accomodare sulle balle, mentre gli uomini, ma soprattutto i ragazzi, si posizionano nei posti più assurdi e pericolosi, il più ambito sembra essere il tetto della cabina, ogni camion porta almeno cinquanta persone. È ormai sera il souk è finito, le vie sono sporche ma è tornato il silenzio, c’è un’atmosfera di “scampato pericolo” come quando l’Isola ritorna lenta dopo l’invasione dei turisti d’agosto.
   

1 Marzo 2008: Tabant – Igoudament – Tabant – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

Sveglia alle 6, colazione e partenza. Attraversiamo i campi ancora ghiacciati incontrando i bimbi che dai villaggi circostanti stanno andando a scuola a piedi. Raggiunto il villaggio di Ajt Imi iniziamo a salire lungo un viottolo che fiancheggia un corso d’acqua, poi risaliamo da destra un pendio ripido seguendo le tracce di asini e muli fra piante di ginepro e leccio. Man mano che si prende quota la vegetazione si dirada e rimangono soltanto i ginepri, questi sentieri sono frequentati prevalentemente oggi e domani dalle persone che scendono con i muli dai villaggi lontani per andare al grande souk domenicale di Tabant. Intorno ai 2500 metri ci sono dei rifugi in pietra e dei chiusi dei pastori. Le “abitazioni” hanno la base rettangolare e hanno l’interno tutto annerito dal fumo. La salita si fa sempre più ripida e il terreno molle per la neve appena sciolta, man mano che si sale i ginepri, tutte piante secolari, diventano sempre più radi per poi essere sostituiti da cuscini di ginestra aspaloide (prunelle). Qui il sentiero non esiste, ormai si cammina nella neve, ma per la forte pendenza e per il sole fa un gran caldo, gli ultimi cinquanta metri prima di raggiungere la cresta sono i più impegnativi perché c’è tanta neve e si sfonda fino ai fianchi. Raggiunto il crinale a 2900 metri il panorama è eccezionale e spazia su un orizzonte di centinaia di chilometri, l’Atlante è veramente grande. Risaliamo il crinale che alterna zone rocciose a pianori dove per il disgelo si sono formati dei piccoli acquitrini. In lontananza si vede il Monte M’Goun 4068 metri, seconda vetta dell’Atlante, noi saliamo fino alla vetta dell’ Igoudamen 3520 metri, si sta benissimo non c’è vento e fa anche caldo, però sono quasi le tre e bisogna iniziare a scendere. Il primo tratto è il più impegnativo, c’è veramente tanta neve umida, poi il terreno diventa pantano e si scende ripidamente sfruttando come sostegni i cuscini di ginestra e le rocce affioranti. Attraversiamo un altopiano con più di un metro di neve e poi iniziamo una divertentissima discesa da pendii ripidi e morbidi che ci fanno perdere velocemente quota. Intorno ai 2500 metri uno spettacolo meraviglioso, entriamo in un bosco di ginepri enormi sicuramente plurisecolari, i tronchi giganteschi dalle forme contorte hanno dimensioni incredibili, è difficile dare misura a forme così irregolari, comunque i più grandi hanno un diametro alla base superiore ai dieci metri. Man mano che si perde quota i ginepri diventano più piccoli e numerosi per effetto dell’uomo che ne usa il legno e delle capre. Incontriamo un pastore con il suo gregge, è la prima persona che vediamo da quanto abbiamo lasciato il villaggio di Ajt Imi. Scendendo entriamo in una gola e il paesaggio all’improvviso cambia, tutto diventa arido e giallo, il sentiero è disegnato nella roccia e a passo sostenuto ci porta fino al greto secco di un fiume. È ormai buoi quando entriamo in paese dove incontriamo dei ragazzi che giocano a pallone. Tabant si sta preparando al souk, nelle vie del centro c’è movimento, intorno alle bancarelle in allestimento, ho fame e il profumo di legna bruciata amplifica ancora di più la voglia di cena.
   

29 Febbraio 2008: Tabant – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

Ancora una giornata bellissima, il cielo è azzurro intenso senza nemmeno una nuvola. La valle di Tabant è molto bella incastonata fra alte montagne dalle vette innevate, ha una grande pianura tutta coltivata e alterna specchi di terreno verdi ad altri arati, al centro scorre un torrente e tutto intorno canali d’irrigazione che ora sono particolarmente ricchi d’acqua perché la neve delle montagne si sta sciogliendo. All’ingresso della valle c’è una collina che assomiglia a un cono rovesciato, sulla sommità un monumentale granaio fortificato che è un po’ il simbolo di questa zona, è unico perché di forma circolare, era una struttura comunitaria dove si accumulavano i raccolti per difenderli in caso di assalto. Decidiamo di salire, per arrivare bisogna attraversare vari corsi d’acqua sopra dei ponticelli di tronchi. Salendo la fortezza somiglia tantissimo al Volterraio e anche le rocce lo ricordano. In vetta il panorama è veramente superbo, si vede la strada che abbiamo fatto ieri e la valle che dovremmo percorrere nei prossimi giorni. Il Volterraio marocchino è fatto di terra e nonostante la forma circolare l’abbia reso più resistente al vento rispetto alle tradizionali strutture a base quadrata, non raggiunge i due secoli di storia. Seduto di fianco alla porta del granaio c’è un anziano signore, recita qualcosa scorrendo tra le mani una specie di rosario di legno, è piccolo piccolo ha la barba bianca ed è vestito di blu. Mi fa festa e mi vuole toccare, mi rendo conto che è praticamente cieco, fa per aprire la porta del granaio, ma gli dico di aspettare perché non sono solo. Arrivata Serena le fa una gran festa e poi entriamo nel granaio, c’è un giaciglio, forse lui dorme proprio qui, facciamo un giro del granaio e saliamo su una scala scavata in un tronco fino al tetto di terra. È un posto eccezionale, la collina non è altissima rispetto al piano della campagna, che comunque è superiore ai 1850 metri, saranno quattrocento metri, ma l’orizzonte è veramente molto ampio si ha la sensazione di essere su un faro che controlla il più importante valico di montagna della zona. Probabilmente in estate è un luogo visitato quotidianamente da turisti, ma in questo periodo ci siamo solo noi e fa un certo effetto lasciare quest’uomo da solo. Scendiamo dall’altro lato e andiamo a fare un giro per la campagna, nella zona più paludosa gli uomini tagliano i giunchi, ci sono tantissime cicogne che fanno i nidi sugli alberi più grandi e sopra i muri più alti, sono parte armonica del paesaggio come i contadini, gli asini e le mucche e si muovono tranquillamente fra i coltivi. Torniamo nel paese, mi hanno detto che c’è internet, c’è tanto bel materiale da spedire, in realtà non c’è un internet point, ma il gestore di una piccola fotocopieria che ha un portatile con la connessione, però oggi non va, quindi decido di andarmi a fare i capelli in una microscopica barberia. Il tempo è stabile, anche il padrone di casa ci dice che durerà, domani voglio provare a salire fino alla vetta del Igoudamen una montagna di 3520 metri che domina dall’alto questa valle.
   

28 febbraio 2008: Ait Boualli – Tabant – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

La giornata è ancora più bella di quella precedente, l’ideale per fare una lunga marcia fino a Tabant, che prevede il superamento di un impegnativo passo. Scendiamo la valle fiancheggiando il fiume, lungo la strada ci sono diversi duuar su entrambi i lati del fiume, caratterizzati da grandi Kasbah a testimonianza della grande importanza strategica di questa valle, unica via d’accesso verso le fertili pianure della regione di Marrakech. Lungo la via incontriamo un gregge magistralmente condotto da un minuto bimbo pastore che avrà non più di cinque anni, ma che con portamento da adulto conduce sicuro il suo gregge. Camminiamo insieme fino al guado e poi continuiamo a scendere fra paesaggi che acquistano colori e forme più familiari, i pendii sono ricoperti da grandi pini d’aleppo e lecci e le montagne ricordano i colori delle montagne corse nella zona del Calanches. La pista si sta trasformando in strada, ci sono operai e un paio di ruspe che stanno allargando la via, ce ne avevano parlato alla scuola ieri con entusiasmo perché alla fine dei lavori arriverà anche internet. È il progresso che avanza con i suoi pro e i suoi contro, sono comunque contento di aver visto queste valli senza mezzi a motore. Mentre stiamo per iniziare l’ascesa verso il passo un’immagine forte “dell’incontro di due epoche”: un anziano contadino con un aratro di legno trainato da due asini sta arando un terreno vicino al fiume, mentre dei tecnici giunti qui con un’auto studiano su una carta la nuova strada, incrocio lo sguardo del “capo” e vedo in lui la consapevolezza che quest’opera cancellerà per sempre queste immagini medioevali. Segagnana è in crisi tenta più volte di tornare indietro e devo continuamente urlargli “HERRA!!” per non farla piantare. Tutti i berberi comandano le loro bestie così, ma io lo dico all’elbana e tutti ridono e mi pigliano pel culo, comunque fra un paesaggio sempre più maestoso e spoglio raggiungiamo il passo sotto l’occhio curioso dei pochi pastori. Arrivati sulla vetta nel vento gelido ci attende una pattuglia di gendarmi che controlla il bivio, qui la pista finisce e incrocia la strada che a destra scende verso Tabant, mentre a sinistra porta a Azilal il più grande centro della zona. Ci chiedono i passaporti e ci fanno un sacco di domande, mi chiedono anche il nome del mi babbo e della mi mamma e nel modulo mezzo di trasporto scrivono asino, sono incuriositi e anche affascinati dalla nostra “impresa” e ci raccomandano attenzione e prudenza. Ci attendono ancora quindici chilometri di cammino, ma tutti in discesa e su strada. Dopo qualche chilometro incontriamo tre escursionisti in montain bike, primo incontro “occidentale” da diversi giorni. Poi iniziano i piccoli villaggi, sulla destra si apre una campagna coltivata, mentre a sinistra una alta e impervia parete di roccia da dove escono intrepidi ginepri e ardite palme nane che mi ricordano le pareti di calcare fra Nisportino e Monte Grosso anche se qui è tutto molto più grande, e ogni tanto si vede saltare qualche scoiattolo di barberina. Arriviamo a Bou Goumez, è un bel villaggio, ma dopo l’esperienza vissuta negli integri duuar incontrati da Imi Nifri a qui, sembra un po’ finto. Questo è il punto di partenza per l’escursioni sul Monte M’Goun, seconda vetta in Marocco dopo il Toubcal, ci sono scritte in francese e negozi di souvenir e tutti dicono Bonjour Bonjour. Sicuramente il turismo escursionistico ha portato dei grossi benefici alle persone, però sono sempre più consapevole che leva spontaneità e dignità alla gente. Penso che la sfida sia quella di sviluppare il turismo escursionistico conservando e valorizzando la storia e le caratteristiche di ogni piccola comunità, deve essere il turista che si adatta al luogo che visita e non viceversa, nel vantaggio reciproco, perché la bellezza sta proprio nella diversità. Il sole sta tramontando ma non è freddo e si sta bene, Segagana è cotta incespica anche un paio di volte, i cippi che indicano i chilometri si avvicinano sempre più lentamente. Mancano due chilometri al paese e ormai è notte, la strada ritorna sterrata, entrando in paese è quasi tutto chiuso e buio. Alla fine del paese troviamo una gite d’etape, bussiamo e ci apre un affascinante anziana signora vestita elegantemente con la fronte e il mento tatuati. Ci sistemiamo in una camera al piano terra, mentre il marito porta Segagnana al meritato riposo. Dopo aver mangiato insieme all’anziana coppia chiudiamo questa bella giornata. 
   

27 febbraio 2008: Eurarn – Ait Boualli – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

La luce forte ci fa capire che il tempo è bello, mi vesto e esco a fare qualche foto, quando rientro è tutto pronto per una colazione a base di riso. Sarebbe il momento giusto per partire, ma l’asino è chiuso nella stalla e Fatima in pratica ci obbliga ad andare a casa sua per una seconda colazione, aspettiamo in sala insieme alla nonna, a una bella ragazza con i terribili segni di una grande ustione che le ha mutilato la mano sinistra e tutta la famiglia in una stanza che sta diventando sempre più fumosa. Mi sento un po’ sotto sequestro, fuori c’è una luce bellissima, ma Fatima e Mohammed ci tengono tantissimo ad offrirci questa seconda colazione. Finalmente arrivano le frittelle di un tipo mai visto prima, una specie di wafer morbido all’uovo, nel frattempo è arrivato anche “Schiena Bin Laden” (Mhand) e le mangiamo tutti insieme. Finalmente riesco a spostarmi nella stalla con Mohammed che mi chiede di essere fotografato abbracciato alla sua pecora preferita, è grande la gratitudine verso questi animali che in pratica mantengono la famiglia. Con l’asino davanti casa carichiamo i bagagli nella shuarì, i fratelli Hangun legano la shuarì alla berbera, il carico è sicuramente più fermo e stabile, ma Segagnana non gradisce lo strizzamento di pancia e manifesta il suo disappunto con una sfolgorante scarica di curegge, lo spettacolo meteoritico diverte tutta la “piccola comunità” radunata intorno a noi. Attraversiamo i tre duuar alti, la Kasbah, granai, lavatoi e pollai, passiamo a fianco di un enorme albero con un tronco più grande del più grande castagno della Madonna del Monte. Sento piangere, mi affaccio e vedo un bimbo pendicone da un buscione e la sorellina nel pianello di sotto, recupero il bimbo mentre arriva un uomo che nella foga di aiutare la bimba inciampa e gli tombola sopra, per fortuna nessuno si fa male e ci salutiamo. Scendiamo fra i terrazzamenti sempre più ampi coltivati a grano fino alle scuole dove prendo un altro contatto per Base Elba. Come sempre siamo accolti con grande entusiasmo, e testimoniamo l’avvenuto contatto con una foto di gruppo con insegnanti, Segagnana e tanti bimbi. Scendendo una giovane ragazza con una neonata sulle spalle fa amicizia con Serena, in un paesaggio caratterizzato da netti cambiamenti di colore con le rocce e il terreno che cambiano all’improvviso dal rosso, al verde, al giallo. Arriviamo nel primo pomeriggio a fondo valle è il centro più importante della valle di Ait Boualli, qui tutti lo chiamano il souk per il mercato che vi si svolge il sabato. C’è una piazzetta polverosa circondata da un porticato e alcuni edifici rossi, complici il caldo e la luce accecante l’atmosfera è quella di un western di Sergio Leone. Ci fermiamo nella gite d’etape per una doccia e risistemare gli zaini. Il padrone è un marocchino ma sembra un tedesco, nell’aspetto assomiglia al babbo di Zighe, mi chiede se stasera abbiamo voglia di mangiare pesce, io gli dico di si immaginandomi una bella grigliata, ci salutiamo dandoci appuntamento per la cena. Qui a fondo valle il sole cala presto, fa freddo anche per il vento e tutti stanno rientrando verso i villaggi. Dalla montagna rientrano uomini sui muli e donne a piedi che per guadare il fiume si tolgono le scarpe e si tirano su i vestiti fino alle ginocchia.  Anche i bimbi che escono dal turno pomeridiano della scuola si avviano verso le loro case. La cena è una delusione tremenda sono due sardine in scatola (una per uno) arrostite, per fortuna che siamo stati ospiti dei generosi berberi dei villaggi alti, se no sarebbe stata fame. 
   

26 febbraio 2008: Eurarn – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

Mi svegliano le pecore col loro belare, poi suona anche la sveglia delle sette, ma non ho voglia di alzarmi, fa freddo sto proprio bene nel sacco a pelo. Serena mi dice che è una bella giornata e che sono già tutti svegli… mi devo alzare. Appena aperta la porta è entrata Farida, la padrona di casa. Dopo una pisciata sul muro del vicino rientro e trovo una meravigliosa sorpresa: una grande ciotola di legno d’olivo piena di riso in bianco condito con olio d’oliva, è da più di un mese che ho voglia di mangiare riso in bianco e nel posto più inaspettato vengo accontentato. Il posto è bello e affascinante sia per i duuar, piccoli villaggi che compongono Ait Boualli, ricchi di strutture affascinanti, che per l’aspetto paesaggistico con le sue montagne e colline colorate, le frane, gli aspri pendii e le grotte, merita una giornata d’approfondimento. Ci incamminiamo verso monte, incontriamo un paio d’asini e poi due donne che stanno andando sulla montagna a fare la legna, hanno una piccozza ciascuna sulle spalle e due piccozzini nella cintura del vestito, salgono velocissime canticchiando, mostrando una forza straordinaria. Il paesaggio è bellissimo, siamo circondati da friabili montagne rosse, gialle e verdi. Arrivati sulla prima sella finalmente incontriamo la neve, è poco più di una chiazza in una zona d’ombra, ma abbastanza per divertirsi un po’ a camminarci sopra. Siamo avvolti dal silenzio interrotto soltanto dai colpi di piccozza delle donne incontrate prima e dal canto di una bambina che sta scendendo col proprio asino carico di legna, è un canto che viene dal passato, richiama ritmi e riti tribali, è da un paio di giorni che si sentono questi canti provenire dalle montagne e dai viottoli che l’attraversano, canti che sembrano chiedere protezione all’imponenza di questa natura e che fanno compagnia in questa vastità. Gli alberi di leccio e gli arbusti di ginepro sono messi a dura prova dalle capre, ma non demordono e i loro tronchi sono ricoperti da piccole foglie spinose fitte fitte che disegnano forme rotondeggianti a difesa della linfa del tronco. È una terra dura da vivere questa, per gli uomini, per le capre e per le piante, ma anche per le rocce e per i pendii delle montagne messi a dura prova dalle temperature rigide e dall’inclemenza del tempo, ma è anche un luogo di orizzonti ampi, colori cangianti, silenzio e aria pura, dove respirano bene i polmoni e si allargano anche sereni pensieri che spaziano liberi verso gli orizzonti innevati. È impressionante vedere come sia tutto coltivato anche i pendii più alti e rocciosi, dove non è pietra è coltivo e fra le rocce le capre e le pecore, controllate dai pastori che vigilano silenziosi sulla voracità delle loro greggi tenute a bada da fischi e lanci di pietre, in alcuni punti i coltivi sono circondati da barriere di piante spinose a mo’ di rotoli di filo spinato. Saliamo sulla vetta di una montagna friabile per ammirare la valle sottostante da una prospettiva privilegiata e lo spettacolo ripaga la fatica, decine di guglie di terra e pietra di una serie infinita di toni di rosso, ocra, verde e giallo guarniscono le ripide e scarne valli che confluiscono verso il fiume. Il tempo si incupisce, in lontananza si vedono piovaschi e buriane di neve, mentre sopra di noi scende una grandinina rada. Da qui si ha una percezione chiara della vastità dell’Alto Atlante e della grande quantità di neve che contiene, la grande preziosa risorsa del Marocco che ha permesso a questa terra di sviluppare una civiltà plurimillenaria, penso anche a quando tra pochi giorni attraverseremo gli alti passi innevati. Scendiamo attraversando un’altra zona coltivata e poi, dopo aver superato il rudere di quella che credo potesse essere un’antica costruzione militare, saliamo sulla vetta più alta della zona dove complice una momentanea schiarita ci fermiamo un po’ a goderci il sole caldo. Siamo proprio sopra il duuar, circa seicento metri più in alto, è una montagna caratterizzata da forme fantasmagoriche delle rocce, dove spicca un grande arco naturale di pietra e terra sotto il quale ci sono due piccole grotte protette da muri a secco che ricordano i rifugi sotto roccia della montagna elbana. Scendendo verso valle si incontrano delle grandi grotte scavate naturalmente nella roccia ora più compatta, sopra una di queste spiccano due grandi nidi di rapaci simili a quelli del falco pellegrino, ma più grandi, forse nidi di aquile o avvoltoi. Arriviamo in paese insieme alla pioggia, pensavamo di partire nel primo pomeriggio, ma la bellezza del luogo ci ha spinto a camminare tutto il giorno, quindi passeremo un’altra notte a casa Hangun. Scendendo incontriamo il padrone di casa, ci intendiamo con un cenno, prima di rientrare andiamo a comprare qualcosa da mangiare. Il negozio incontrato ieri è chiuso, proseguiamo verso il duuar più a valle, il tempo brutto ha spinto tutti a rientrare in anticipo in paese, incrociamo una bella bimba che sta riportando il suo gregge di pecore all’ovile sotto casa, passiamo sotto un tunnel fatto di travi in legno, sopra il quale è costruita una casa di fango. Troviamo un negozio ma chiuso, chiedo a un bimbo dove si può trovare un negozio aperto e lui mi dice di aspettare, bussa alla porta della casa accanto e dopo pochi minuti esce il padrone del negozio che ci apre con la torcia presa nello zaino perché il temporale ha fatto saltare la corrente. Li chiamano negozi ma sono totalmente diversi da quelli che conosciamo noi, sono come piccole cantine dove c’è accatastata un po’ di roba: sapone, biscotti, lana, farina, scatole di sardine, corde di tutto un po’. Compriamo un po’ di dolci, due chili di pasta e due di riso che qui non vengono venduti in scatola ma ci sono due grossi bidoni aperti tipo quelli che si usavano un tempo a vendemmia, il contenuto viene messo con una sassola dentro dei sacchetti e poi pesato sulla bilancia, da un lato la merce dall’altro i pesi di varia misura, poi viene fatto il conto in franchi, che però non esistono, e convertito in dirham. Fatta la spesa il padrone del negozio ci invita a casa per un the. La casa è una grande sorpresa, all’esterno è fatta di fango e pur essendo molto più grande della “nostra”, non è molto diversa, ma l’interno è molto più lussuoso e curato: le pareti sono tutte dipinte di bianco e celeste e sul pavimento ci sono le piastrelle e c’è una grande sala con bei tappeti e grandi divani e le finestre dai vetri policromi. Ci viene offerto il solito the accompagnato da noci, mandorle, pane, olio, burro e alcuni dolcini che con la fame che ci ritroviamo apprezziamo tanto. Dopo le solite foto coi figli il padrone di casa ci invita a rimanere a dormire lì, ringraziamo, ma spieghiamo che siamo già ospiti da un’altra famiglia. trekking intorno al mondoTutta questa ospitalità verso sconosciuti mi fa venire spesso in mente la traversata in canoa dall’Elba a Roma fatta in compagnia di Elias pochi giorni prima di partire, durante la quale siamo stati fermati più volte dai carabinieri accusati di vagabondaggio e ogni volta che abbiamo cercato alloggio in albergo i proprietari hanno sempre voluto essere pagati in anticipo e qualche volta non ci hanno nemmeno voluto accogliere, chiaramente sempre a pagamento e dietro presentazione di documenti. In particolare mi viene spontaneo il raffronto con l’arrivo a Roma quando tutti gli alberghi dicevano di essere completi e se non era per Serena che era venuta a Roma che a un certo punto è andata da sola a prenotare una camera anche per noi, ci toccava dormire fuori col rischio di essere arrestati per vagabondaggio.
Rientriamo a casa con tutta la famiglia che ci sta aspettando, le donne di casa fanno una grande festa alla pasta e al riso. Ci spostiamo nella casa del fratello e facciamo la seconda merenda con the e uova al pomodoro, facciamo conoscenza anche con la nonna, è una situazione stranissima per essere qui in Marocco, sono l’unico uomo in mezzo a tante donne, sono tutte di buon umore, anche Farida che sta allattando con molta naturalezza la piccola Aziza. Fatima, la padrona di casa, anche per il fatto che il marito è spesso fuori a lavorare, rispetto a tante donne incontrate è molto più emancipata, vuole che la seguiamo con la macchina fotografica e ci porta a vedere il tesoro di famiglia: è una vacca incinta, ce la mostra con grande orgoglio e noi e tutta la famiglia ci facciamo le foto con la mucca. La grande stalla che ospita la mucca, il ciuco, le galline e le pecore di famiglia sarà anche per questa notte la casa di Segagnana che se la sta passando proprio alla grande. Torniamo alla nostra base, tutti vogliono vedere le foto, quindi le scarichiamo nel computer e facciamo l’ormai rituale proiezione. Sono tutti interessati alle foto fatte in giornata e ci insegnano i nomi di tante località, ma le foto che interessano di più chiaramente sono quelle con le persone di casa.
Regaliamo una penna a ogni bimbo e su un foglio scrivo in italiano i nostri nomi e i loro chiedendo di scriverli in arabo, è bello vedere quanta gratitudine e interesse ci siano per una semplice penna e un foglio di carta e quanto impegno ci sia nello scrivere e nell’imparare e poi sono molto orgoglioso di aver imparato a scrivere qualcosa in arabo (copiando). Arriva anche uno zio, anche lui vuole le foto, poi vengono fuori vecchie foto di famiglia, fotografo anche queste e le scarico nel computer così facciamo anche la proiezione delle vecchie foto di famiglia. Prometto una volta arrivato a Beni Mellal di stampare tutto e inviarlo per posta qui. È tardi e tutti hanno sonno anche noi e poi non ho né sistemato le foto né scritto niente, ma ci trasferiamo nuovamente nell’altra casa per la seconda cena, tajine davanti alla televisione… 
   

25 febbraio 2008: Ait Brahhal ‚Äì Eurarn – Marocco

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

Image

 

 

Durante la notte il freddo si è fatto sentire, sono ancora rintanato nel sacco a pelo quando sento il passo dei bimbi intorno alla tenda, apriamo e ci troviamo davanti le due sorelle di ieri e il fratello più piccolo che ci hanno portato caffelatte olio e pane. La loro casa non è distante, sarà circa a mezzo chilometro, ma il dislivello è notevole, saranno quasi cento metri molto ripidi tra cespugli di ginepro e leccio. Scaldati dal latte cominciamo a prepararci per la partenza, per prima cosa sciolgo le zampe all’asina e gli do un po’ di fieno, poi inizio a smontare la tenda mentre Serena prepara gli zaini. Dopo una mezz’oretta dalla prima colazione ritornano i bimbi, questa volta sono in quattro, c’è il fratello grande, quello di ieri sera, ci portano pane caldo e burro, ricambiamo regalandogli un pile, una collana, una fascia e tutto il mangiare che abbiamo: un barattolo di marmellata e un po’ di biscotti. Passa un’altra mezz’ora prima di partire, nel frattempo i bimbi sono tornati, questa volta sono due, ci accompagnano fino alla pista poi ci chiedono di andare a casa sua, noi li salutiamo e proseguiamo per il nostro cammino. Il paesaggio è maestoso ed ogni volta che il sentiero entra in una nuova gola le montagne sono sempre più alte e l’ambiente selvaggio. Camminiamo per un’ora immersi nel silenzio tra frane e alberi di leccio semi-spogli per la voracità delle capre che pascolano queste montagne. Il crinale sopra di noi ricorda il Monte Calanche, ma è enormemente più grande. La prima presenza umana della giornata sono un gruppo di donne stracariche di legna che stanno camminando curve verso il loro villaggio, nonostante il peso e il fondo instabile del sentiero, appena vedono la macchina fotografica iniziano a correre. Continuiamo a salire il fianco destro di una lunga valle, sopra di noi la neve e sotto un grande strapiombo che termina nel oued, da cui risale il fragoroso suono delle sue rapide. Arrivati al culmine iniziamo a scendere ripidamente e incontriamo un bimbo pastore con le sue capre, il sole è caldo, ma quando si entra nelle gole fa freddo, nei punti dove batte poco il sole si vede ancora la neve. È un ambiente aspro, le pendici della montagna sono aride e quasi inaccessibili, ma nonostante questo il sentiero è contornato da terreni coltivati, con tanti muri di contenimento per cercare di contrastare l’instabilità del terreno che è caratteristica di questa zona. Scendiamo fino a guadare il fiume e poi risaliamo, ormai siamo circondati da cime innevate e da villaggi che non esistono sulle mappe, la vegetazione è formata quasi unicamente da ginepri e lecci che hanno nelle capre il loro nemico, qui i lecci hanno le foglie particolarmente spinose e hanno l’aspetto di cespugli di spine dalle forme morbide, quasi sempre rotondeggianti. La montagna e il sentiero sono fatti di argilla rossa che rende il cammino ancora più impegnativo specialmente per Segagnana che si impantana un paio di volte, si incontrano soltanto pastori, quasi sempre ragazzini o persone molto anziane, tutti molto schivi e silenziosi e danno l’impressione di essere sempre assorti nei loro pensieri. Arriviamo al punto più alto della giornata, è difficile capire la quota, ma dovremmo essere sui duemilacinquecento metri, a un certo punto si apre un paesaggio magnifico la grande catena dell’Atlante tutta innevata si apre davanti a noi che siamo immersi in una serie ininterrotta di colline rosse che ricordano il Monte Calendozio, ma con un estensione di decine di chilometri. È un paesaggio fantastico che inizia con le colline rosse per tuffarsi in valli verdi e poi risalire su montagne rigogliose che finiscono su altopiani e vette innevate.
Vediamo le prime case a destra e a sinistra del fiume, i villaggi hanno le stesse tonalità di colore della terra, decido di andare verso sinistra dove ci sono tre villaggi in sequenza abbastanza grandi all’interno dei quali spiccano due Kasbah, una diroccata, ma una ancora integra, sopra i villaggi una montagna ocra ricca di grotte. L’ingresso del paese è fra i mandorli ancora in fiore, è sicuramente il villaggio più suggestivo tra quelli finora visitati, è molto grande ma sembra quasi disabitato. Il sentiero è molto stretto e fiancheggia grandi case costruite di pietra, legno e fango, dalle aperture a volte si affacciano persone, a volte pecore, a volte galline, senza soluzione di continuità. Come immersi in un sogno attraversiamo i villaggi, il profumo della legna che arde rende tutto ancora più suggestivo. Il sole sta per tramontare e comincia a fare veramente freddo, cerchiamo qualcosa da mangiare e un posto dove dormire, una casa o un punto dove montare la tenda. Troviamo un piccolo negozio dove vendono principalmente lana e saponi, da mangiare hanno soltanto biscotti e una specie di nutella bianca e nera fabbricata in Olanda apposta per il Marocco. Ci procura anche un po’ di pane rimediandolo in una casa. Cerchiamo da dormire ma ci dicono che nel villaggio non c’è possibilità di alloggiare, quando ormai stiamo per lasciare il paese veniamo chiamati da un giovane uomo che ci invita a casa sua, ancora una volta saremo ospiti. La casa è la più povera tra quelle che abbiamo visto finora, come del resto anche il villaggio, ma è bellissima. Si comunica con i gesti e le espressioni, qui nessuno, nemmeno i giovani e i bimbi, parla francese e neanche arabo. Scarichiamo i bagagli nella “sala” e mentre Serena fa conoscenza con la famiglia, io seguo Mohammed, il fratello di Mhand, che ci offrirà la sua stalla per Segagnana, la stalla è in un posto favoloso proprio sotto alla grande kasbah diroccata. Facciamo merenda con latte caldo, pane e olio, mai così gradito e poi con l’aiuto dei biscotti e delle foto iniziamo a fare amicizia coi bimbi, dopo un the Mohammed ci invita a mangiare a casa sua e insieme al fratello ci spostiamo di pochi metri per entrare nell’altra casa. Il motivo di questo trasferimento è che qui c’è la televisione, ambizione e vanto di tutte le famiglie dei villaggi berberi. Mentre prendiamo l’ennesimo the il gatto di casa gira fra il tavolo e il braciere Mhand per scacciarlo lo manda con la coda dentro il braciere, la povera bestia parte con la coda fumante fra le risate generali e il puzzo di pelo bruciato che invade la stanza. Mohammed si è tolto l’abito tradizionale e si presenta per salutarci con una rifrangente tuta da lavoro, stile protezione civile, va al lavoro a fare il turno di notte sulla strada che stanno costruendo per collegare il villaggio, così mi sembra di aver capito. Senza il gonnellone sembra molto più magro. Mangiamo il tajine tutti insieme, poi guardiamo un po’ di televisione e torniamo alla nostra casa per dormire.