Finalmente spedisco i testi per il sito nuovo che stiamo preparando, per me è un passo importante, mancano ancora tante parti, ma la struttura principale è ormai pronta, grazie al prezioso aiuto di Serena riesco a spedire e sistemare anche un bel po’ di foto.
Sto cominciando a preparare i primi due “servizi importanti”: quello sulle zone desertiche del Marocco e quello sulla traversata dell’Atlante che è appena iniziata.
Ormai sono in Marocco da quasi due mesi e quello che inizialmente mi sembrava stranissimo, ormai è diventato quotidiano: i barbieri ambulanti, le insegne dei dentisti con i denti cariati, le botteghe dei fabbri con i mantici a mano, i “predicatori” che chiedono l’elemosina, i ristoranti dove si mangia con le mani e si rutta liberamene (ma non si deve assolutamente toccare il cibo con la mano sinistra!) e gli urlati richiami alla preghiera del Muezzin che mi sembravano tutti uguali, ma che ho imparato a riconoscere.
La luna sta crescendo, mi immagino i prossimi giorni con le montagne innevate illuminate dalla luce bianca del suo disco magico
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AuthorUmberto
La giornata è grigia e ventosa, meglio così perché devo passarla tutta a scrivere.
Serena ritorna con un po’ di dolcini buoni e coi pantaloni egregiamente rattoppati dal sarto. Segagnana si lamenta ragliando, forse si sta annoiando per questa lunga sosta, credo che non sia mai stata così tanto tempo senza fare niente, comunque se la sta passando di molto bene, è diventata la mascotte dell’albergo.
Come a Tiznit anche qui si creano degli incontri quotidiani: la bottega del fabbro dagli occhi a mandorla, la latteria dove preparano uno yogurt con la macedonia buonissimo e il bar per il the con le stampe della Gioconda, La Primavera del Botticelli e la televisione fissa su un canale di documentari sugli animali.
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Siamo qui da appena due giorni, ma ormai ci riconoscono tutti, siamo gli italiani con l’asino. Ieri Serena nel mercato ha individuato un sarto-calzolaio e oggi decidiamo di affidargli i miei pantaloni strappati che saranno pronti domani. Passo quasi tutta la giornata a scrivere, esco che è già notte e le viuzze del paese sono tutte affumicate dalle braci dei banchetti alimentari. Dietro un banchetto c’è un microscopico fondo su due piani, con una scala stretta stretta ed un soffitto così basso che se stai dritto batti la testa, però è un posto simpatico con un ottimo rapporto qualità-prezzo. Prima di rientrare ci concediamo il classico the. |
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Decidiamo di rimanere qui qualche giorno prima di partire per un lungo tratto di oltre duecento chilometri nelle zone più isolate dell’Atlante. Mi devo mettere in pari con un sacco di lavori e ho bisogno di internet. Compriamo un po’ di fieno per Segagnana e facciamo un giro per il paese. Demnate è un paese in grande espansione, la parte antica è circondata da mura in pisé ed è caratterizzata dai tre archi della porta principale. Fino alla nascita dello stato di Israele la popolazione era formata per un terzo da ebrei che vivevano in armonia con i mussulmani senza essere confinati nella mellah (il ghetto), come invece succedeva nelle altre città marocchine. Demnate è il punto di riferimento per tutti i piccoli villaggi che si trovano intorno, qui ci sono le scuole superiori, gli uffici amministrativi e tanti negozi, per le valli circostanti è un po’ come Portoferraio per l’Elba.
A un certo punto ci troviamo in mezzo a un grande fiume di persone: è un funerale. Il feretro è una semplice cassa di legno coperta da un drappo nero con scritte dorate, ma la cosa che ci colpisce di più è che al corteo partecipano solo gli uomini. Mentre si rientra veniamo chiamati per nome, è Youssein l’amico di Hammed che venerdì ci ha accompagnato nel trekking notturno, lui è qui per studiare. È strano sentirsi chiamare per nome in un luogo così lontano da casa, ma è bello e ci fa tornare il sorriso dopo il funerale.
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Prima colazione a casa Jabir con uova, frittelle e sckif che, contrariamente al nome, è di molto bono! È una specie di budino salato fatto con il latte bollito che, come dice Fatima, la padrona di casa, serve perché oggi dobbiamo camminare tanto. Poi Hammed e Mohammed, che in pratica è l’autista dello sceicco, ci accompagnano tagliando dai campi alla “Kasbah Aghoulit”. Lo Sceicco Abdeljalk ci accoglie nella sala con la piccola figlia di 2 anni con una pomposa colazione: dolci, frittelle, marmellata, miele, olive e l’immancabile the. Davanti a una grande televisione che riceve un canale europeo. Il cugino mi racconta orgoglioso la storia plurisecolare della famiglia e dell’antica Kasbah, l’unica della zona, è una delle più antiche della regione, mi spiega che il titolo viene tramandato da padre in figlio ed è il padre che decide quando e a chi conferire il titolo, sopra lo Sceicco c’è soltanto il Prefetto della Provincia che è nominato direttamente dal Re e ha facoltà, in caso di mancanza, di togliere il titolo. Anticamente lo Sceicco era nominato direttamente dal Re e la sua è una dinastia che nasce da nomina Reale. Gli ultimi sei Sheikh Aghoulit sono stati: Mesoud, Ahmed, Abdelkhalek, Mohamed, Salah e Abdeljalk l’attuale padrone di Kasbah. Lasciato il castello di fango torniamo a “casa” per caricare i bagagli nella schiarì, salutare e partire. Arriviamo insieme a Zaccaria il bimbo di quattro anni che da solo con il mulo è andato alla sorgente a fare rifornimento riempiendo d’acqua due otri più alte di lui. Sono stati solo due giorni ma molto intensi, mi sembra di salutare gente di famiglia, l’ultimo sguardo è per Zaccaria il piccolo omino di casa che si prepara a diventare capofamiglia che mi saluta con portamento da grande e lacrimoni da bimbo. Lasciato il villaggio attraversiamo dei campi di grano verde percorrendo un viottolo per un paio di chilometri e poi ci inseriamo sulla strada che ci porterà a Demnate. La strada oggi è molto trafficata soprattutto da furgoni che rientrano dal Souk con incredibili carichi di merci e persone, in lontananza prima si vedono apparire le balle sopra i tetti e poi i mezzi con la gente da tutte le parti: sopra il tetto, nei cassoni, sulle balle e anche spiaccicati sul portellone posteriore. Nei campi ci sono tante donne che zappettano mentre dai sentieri laterali alla via scendono asini stracarichi di frasche di leccio. Arrivati in un tratto pianeggiante l’attenzione è colta dal rumore di verricello con il motore a scoppio messo sul tetto di un piccolo cantiere dove stanno “gettando” un solaio, sarà un 60 metri quadri ma ci lavorano più di venti persone, anche se in verità almeno dieci sorseggiano the, che naturalmente viene offerto anche a noi. Il tempo minaccia pioggia e l’asina si pianta dopo un po’ di tentativi morbidi gli tiro du’ calci che Segagnana “apprezza”, come aveva detto il precedente padrone, infatti riparte spedita. L’ultimo tratto è in discesa e finisce proprio dentro il paese, arriviamo assieme alla pioggia. Decidiamo di fermarci nel primo albergo che incontriamo, gli spiego della ciuca e mi dice di entrare con Segagnana. Scarico l’asina e eseguo ma è un casino, spaventata dalle mattonelle lisce l’asina si blocca e non vuole entrare, mi viene in soccorso uno dell’hotel, lui tira e io spingo, la bestia terrorizzata la stiamo spostando come fosse una slitta, è una scena divertente anche se un po’ crudele, alla fine del corridoio, in piazzale finalmente si rilassa e si rimette a camminare. Oggi c’è la finale della Coppa d’Africa, da buon africano acquistato vado al bar per vedere la partita, giusto in tempo per assistere al goal dell’Egitto sul Camerun che conquista il prestigioso trofeo, per la gioia di tutti i marocchini presenti. |
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Quando apriamo la porta della camera la luce è già forte, c’era attesa per questo momento: subito Hammed entra con due secchiellini di acqua calda e un asciugamano, io col mio secchiello sono andato a lavarmi nel pollaio, poi dopo una robusta colazione partiamo come promesso per andare sulla vetta più alta della zona. Attraversato il villaggio diventiamo cinque, camminiamo lungo un viottolino stretto e sinuoso fiancheggiato dal canale che porta l’acqua dalla sorgente ai campi, contornato da grandi mandorli fioriti. Dopo venti minuti di cammino guadiamo un torrente e andiamo a vedere la bella cascatella di Imuzar che si tuffa in una stretta gola rossa.
Continuando entriamo in quella che qui chiamano foresta, in realtà una macchia di piccoli lecci a cespuglio, escono tre donne, ognuna delle quali con un enorme fascio di rami di leccio verde, fa impressione vederle scendere dalla macchia e poi risalire piegate dal peso del carico. Salendo si domina sempre meglio la valle Asif con i dieci piccoli villaggi e le centinaia di grotte, è un posto bello e sconosciuto inesistente sulla guida e sulle cartine che ho. Mi appunto una serie di nomi di valli e paesi per cercare di costruire una mappa. Salendo incontriamo un uomo che taglia la macchia, ai lecci si uniscono i corbezzoli che in questo periodo qui hanno le bacche mature, le piante sono tutte sofferte, è una macchia bassa e rinsecchita, difficilmente le piante superano il metro e mezzo di altezza, anche le bacche dei corbezzoli sono piccole come le unghie delle mani. Arrivati sul crinale, dove si incontrano chiusi e caprili uguali ai nostri, c’è un punto (Sidi Busma) che sembra proprio Monte Orlano. Il tempo diventa più grigio e fa sembrare più vicina la neve lontana, arrivati al culmine il paesaggio si apre sul lago del Barrage con le sue rocce rosse.
Hammed è un tombola sassi peggio di Orestino, quando vede una cote pendicone non resiste e gli dà la via, una è passata tra un uomo che faceva la legna e il suo asino. Scendiamo da una strada diversa e prima di arrivare al paese incontriamo le donne che lavano al fosso. Il fosso è il punto di ritrovo delle donne, si sente un gran chiacchiericcio che si miscela al suono del torrente nel movimento di colori delle vesti e dei panni stesi. Continuiamo lungo un sentiero che fiancheggia il torrente principale ricco di mulini ad acqua ormai abbandonati, di cui sono rimasti le macine e i canali forzati. In alto nella roccia sono scolpite centinaia di grotte naturali, probabilmente abitate in epoche molto lontane e usate dai guerriglieri marocchini durante la guerra di indipendenza, sono molto belle e suggestive, ricche di stalattiti e muschi, alcune sono sfruttate come stalle. Rientriamo a casa nel tardo pomeriggio, le donne di casa Jabir hanno preparato un ricco cous cous apposta per noi. Serena monta l’alto mulo e con tutto il paese spettatore parte alla volta della sorgente sicura sul mulo che conosce bene la strada. Fatto rifornimento la mulerizza riparte pei viottoli di paese.
Prima di cena guardiamo le immagini della giornata con tutta la famiglia, tutti vogliono essere fotografati, faccio un sacco di scatti dove sono tutti seri, sembrano le foto vecchie della famiglia Segnini che Zia Alvia conserva gelosamente.
Hammed tira fuori le scatole con le foto di famiglia, le più buffe sono quelle del babbo da giovane che sembra Jimmy Hendrix sulla lambretta; ora il babbo fa il camionista in una cava lontana e a casa non ci viene quasi mai. Hammed mi da vestiti del babbo e mi vesto da marocchino fra l’approvazione divertita delle donne della famiglia Jabir, i bimbi cominciano a tastarmi la pelata, comincia sempre così, dopo poco è già una grande battaglia Jabira, Hadigia, Zaccaria, Houssein si scatenano in una masa a otto mani devastante, il gioco più divertente è il lancio in alto con l’atterraggio sul materasso, per darmi più slancio punto i piedi sulla sponda del letto ma esagero e la schianto, attimo di gelo e poi si ricomincia…
Hammed insiste sul volere andare a lavorare in Italia e mi chiede di aiutarlo, ha bisogno di una famiglia italiana che lo ospiti in maniera da ottenere il certificato per uscire dal Marocco.
È una “mezzamestola” ma sarebbe disposto a fare qualsiasi lavoro, mi spaventa questo entusiasmo, dice che vuole lavorare per mandare i soldi a casa e poi tornare, ma a pappagallo, è accecato dal miraggio di 1000 euro al mese, comunque anche la famiglia vedrebbe di buon occhio la cosa. Penso all’Isola e alla mediocrità sociale e morale, diretta conseguenza del benessere portato dal turismo.
Finita la cena arrivano Mohamed il fratello di 23 anni in compagnia di un importante cugino.
La “mia” camera diventa la stanza degli uomini, la cucina quella delle donne.
Il cugino è nientepopodimeno che lo sceicco di questa giurisdizione, è venuto a controllare gli intrusi nei suoi possedimenti, in realtà è molto curioso e ha voglia di chiacchierare, parla discretamente italiano perché prima di “entrare in carica” ha fatto per molti anni il cameriere in un ristorante italiano a Casablanca, conosce il nome di oltre venti tipi di pizza e un casino di sughi.
Mi racconta di italiani coinvolti in loschi traffici che frequentavano il ristorante e di società miste italiane/marocchine che “aiutano” a raggiungere l’Italia e a trovare lavoro.
Si parla di tante cose italiane e marocchine fino a tarda notte, poi lo sceicco mi da appuntamento per domattina alla Kasbah di famiglia per colazione.
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Stamattina Paglicce è intero come uno stoccafisso, in questo stato non può partire, andiamo dal “veterinario” l’ambulatorio è un magazinetto accanto alla moschea con un po’ di pinze e martelli e un’inquietante sega. Il dottore gli fa un incisione con una lametta sulla spalla sinistra e poi un massaggio col sale, un breve collaudo e dice che è pronto per partire, ma afferma anche che a Fes non ci arriverà mai è troppo giovane e poi è un asino di pianura.
Dalla macchia arriva un boscaiolo con un’asina, si ferma per il cambio ferri, in brevissimo tempo nasce una trattativa e facciamo lo scambio che sembra accontentare tutti, faccio il classico giro di prova, battezzo l’asina Segagnana e si parte.
Mohamed ci saluta affettuosamente, ci augura buon viaggio e ci raccomanda di farci sempre ospitare dai buoni mussulmani che incontreremo lungo il percorso.
Prendiamo la strada della montagna, quella che passa dal Gran Barrage, la strada è asfaltata, ma non ci sono macchine, per la verità non ci sono nemmeno altri asini. Segagnana viaggia tranquilla, la strada cammina sul margine destro di una stretta e profonda valle, dopo pochi chilometri incontriamo una prima diga che forma un lago marrone. C’è un gran sole, ma la strada è ombreggiata da pini d’aleppo, la vegetazione è simile alla nostra e la terra rossastra, a tratti quasi viola, ricorda le miniere del riese. Cominciamo a salire in direzione del Gran Barrage, una delle più grandi dighe del Marocco, molto importante per la produzione dell’energia elettrica e per l’irrigazione della campagna. Vicino alla diga c’è un piccolo villaggio ed una scuola, qui la strada lascia il lato destro della valle e attraversa la sommità della grande diga, il panorama a monte è superbo: c’è un grande lago azzurro in cui si tuffano montagne rosse e verdi e in lontananza le vette innevate, è un paesaggio nuovo, ampio e rilassante. Percorriamo tutta la diga per poi iniziare a salire lungo una pista contornata da cisto, rosmarino e pini d’Aleppo, si sale molto fino al passo che sfiora i 2300 metri.
Dal culmine si estende un altopiano dove incontriamo un anziano pastore con un piccolo gregge di pecore e capre. A sinistra si apre un grande panorama quasi desertico dominato da varie tonalità di ocra, a destra è tutto più verde e lussureggiante con in alto le vette innevate. Segagnana in discesa ha proprio un bel passo, scendiamo velocemente tra colline color vinaccia. Arrivati quasi a fondo valle la campagna si fa coltivata e di tanto in tanto il verde è interrotto dalle vesti colorate delle donne nei campi. Incrociamo qualche asino e poi il primo villaggio che è poco più di un ammasso di sassi e fango, ma è il comportamento della gente che è molto diverso da quella incontrata fino a qui: nessuno si avvicina, anzi le donne e i bimbi scappano come impauriti. La strada, ormai sterrata, sembra svanire nel nulla, il paesaggio è molto bello caratterizzato da grandi piante di olivi, a un certo punto incrociamo un torrente che forma una piccola cascatella dove una bambina con un contenitore di plastica tagliato sta riempiendo d’acqua due otri poggiate sulla schiena del suo asino. Le faccio qualche foto suscitando l’ira di un bimbo pastore che nel frattempo è arrivato con le sue pecore. Da qui il sentiero ricomincia a salire ripidamente, vengo fermato da alcune persone, uno è il responsabile di zona che è stato avvisato del nostro passaggio, vogliono sapere chi siamo, dove stiamo andando e dove passeremo la notte, la discussione si prolunga, per fortuna mi viene in mente di tirare fuori il passaporto e si risolve tutto con un augurio di buon viaggio. Continuiamo a salire tra case sempre più diroccate da cui si affacciano bimbi curiosi e spaventati, è una serie ininterrotta di piccolissimi villaggi. È difficile trovare un posto per accamparsi, anche perché i pochi pianelli sono tutti coltivati. Il sole è ormai tramontato quando arriviamo in un villaggio straordinario, ci sono delle grandi grotte naturali collegate tra loro, alcune usate come stalle e sopra un paese abitato di case di pietra. Anche sotto la strada si intravedono tracce di centinaia di grotte.
A fianco dell’unica piccolissima moschea della zona c’è un microscopico emporio gestito da un anziano signore che si sta preparando a chiudere, gli chiedo se in zona è possibile montare la tenda o se c’è un alloggio per noi e per l’asino, mi dice di attendere e chiama a fare da interprete un ragazzo dall’aria sveglia che traduce: “ ok à la maison!”. Gli chiedo se devo seguire lui o il negoziante, subito indica l’anziano, poi gli si accende un lampo negli occhi e mi dice che si va a casa sua, con due parole spiega il cambio di programma all’uomo e andiamo. È ormai notte, entriamo nella macchia da un viottolino stretto e si inizia a salire ripidamente tra teppe e saltini, oltre a Hammed, il ragazzo traduttore, ci sono altri due ragazzini che ci aiutano a portare l’asina carica in salita, in realtà fanno tutto loro anche perché Segagnana è molto più decisa e ubbidiente ai loro comandi. La salita dura una ventina di minuti, sembra di andare verso il nulla, ma quando la macchia si dirada un pochino una stellata meravigliosa rende tutto magico. Ma l’atmosfera di sogno raggiunge l’apice quando arriviamo alla casa, Hammed apre il portone e entriamo in casa direttamente con la ciuca, scendiamo la shuarì, poi attraversiamo un piccolo cortile interno e, fra i tanti occhi incuriositi di bimbi e donne, entriamo in cucina. Dalla cucina si passa nella stalla delle mucche e poi in quella del mulo dove Segagnana troverà il meritato riposo. Hammed mi offre un bicchiere di latte appena munto, è caldo e denso, sembra formaggio. Mi sembra di essere in un sogno, il sentiero fra le stelle è stato come una macchina del tempo, questa è una realtà che ho conosciuto solo nei racconti e poi è una casa piena di donne e di bimbi. Ci invitano a scendere nella sala dai muri disegnati con fregi rossi che sembrano graffiti, in questa atmosfera da presepe spiccano come schegge di futuro la televisione con l’impianto satellitare e una ragazzina con l’I-pod. L’anziana nonna fa gli onori di casa, ci fa sedere sul divano e ci porge una morbida coperta, ha gli occhi giovani e due fregi berberi tatuati sul mento. Ci gustiamo un ottimo the accompagnato da noci e biscotti insieme a tutta la famiglia. Gli racconto un po’ del viaggio e dell’Isola d’Elba, è un modo di conversare molto diverso da quello a cui siamo abituati, basato più su gesti e sguardi piuttosto che sulle parole. Hammed è affascinato dall’Italia, soprattutto dai racconti dei favolosi guadagni che si fanno in quel paese e sogna di venire a lavorare in Italia. Io provo a smontarlo con argomentazioni varie, per un ragazzo che lavorando un mese da manovale riesce a guadagnare 50 dirham (meno di 5 euro) un lavoro da 1.000 euro al mese è visto come il paradiso.
Iniziamo a mangiare, un grande tajine ricco ed invitante, ho fame e mangio tanto, anche la carne che insistono per farmela mangiare tutta a me. Racconto dell’emozione del cielo stellato e Hammed mi dice che, se vogliamo, finito di mangiare facciamo un giro. Prima di uscire vado a controllare Segagnana e in cucina vedo che i bimbi e le donne che non erano a tavola con noi, stanno mangiando i nostri avanzi… mi sento un po’ una merda.
In compagnia di Hammed e del suo amico Youssein andiamo a fare un giro per ammirare la volta stellata, saliamo fino alla sommità della collina dove ci sono le scuole, tre edifici con le porte aperte. Entriamo a vedere queste aule scarne, penso a Base Elba, domani cercherò di capire meglio, ma qui è veramente difficile stabilire un contatto anche con la posta tradizionale.
Dopo un’ora e mezzo di suggestivo cammino rientriamo a casa, ci viene data la stanza più bella.
E mi addormento colmo di gratitudine per la famiglia Jabir “ i signori della reggia fra le stelle”.
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Colazione spettacolo co’ le frittellone e il caffelatte poi salutiamo tutti e si parte, Omar mi dice che Paglicce ha un problema alla gamba posteriore sinistra e che a Fes non ci arriverà mai. Il ciuco parte col ritmo lento della sera prima, ma poco prima di Sidi Rahhal Paglicce drizza le orecchie e parte al galoppo dietro a un’asina, l’illusione di un ciuco prestante dura solo qualche minuto poi sarà un costante arrancare. Contornati da grandi risate finalmente attraversiamo il paese del marabutto volante, le montagne innevate lentamente si avvicinano, nei campi il grano ha preso il posto degli olivi, fa molto caldo e l’asino si lamenta, ci fermiamo sotto un albero in mezzo a una dolce campagna.
La strada è quasi tutta dritta, si attraversano un paio di paesini e ogni tanto si incontrano delle greggi di capre e pecore.
Paglicce è sempre più in crisi, ogni volta che incontriamo un asino raglia come un disperato. Il panorama è dominato dai campi di grano verde attraversati di tanto in tanto da piccole strade sterrate dove passano carri con enormi carichi di erba che da lontano sembrano montagne in movimento.
Arriviamo ad Agadir Bou Acheiba che il sole è gia tramontato. Lascio l’asino esausto a Serena e vado a comprare qualcosa da mangiare, provo a chiedere un po’ di informazioni , attirato dal movimento mi viene incontro un distinto signore vestito di bianco che parla francese, mi da il benvenuto e mi chiede dove siamo diretti, per poi invitarci a casa sua per la notte, ringraziando per la gentilezza declino l’invito e chiedo se posso montare la tenda sotto gli olivi all’inizio del paese, la risposta è affermativa. Ci dirigiamo verso gli olivi, ma Mohamed al Rafia ci raggiunge sulla via e ci invita nuovamente, questa volta dicendo che è meglio evitare di dormire sotto gli olivi.
Mi sa che la tenda la monteremo poche volte in questa parte del viaggio.
Mohamed è un personaggio illustre ad Agadir tutti lo salutano con rispetto. Arrivati alla casa ci presenta Fatima la moglie, scarichiamo il bagaglio e portiamo Paglicce nella casa del cugino.
La prima cosa che mi colpisce nella casa è la libreria piena di testi, sono tutti libri di religione, dice il padrone di casa, mentre ordina alla moglie di prepararci il the, “questa moglie parla solo berbero, non conosce una parola di francese”, dice con tono di scusa “la mia prima moglie, sì che era una donna! La madre dei miei otto figli, purtroppo è morta e questa l’ho presa per compagnia”. Mohamed è molto incuriosito dal mio viaggio ed è una persona con cui è molto piacevole conversare perché parla di se con sincerità e trasporto. Ci racconta della sua infanzia caratterizzata dalla rigida educazione della moschea, di cui però va molto fiero “sono rimasto orfano di mamma a tre anni e sono stato portato alla Moschea dove ho iniziato a studiare il Sacro Corano e sono uscito a quattordici alla morte di mio padre. Ho lavorato per la Compagnia nazionale dell’energia elettrica, avevo l’ufficio a Marrakech, ma ho girato tutto il Marocco e grazie alla mia buona conoscenza del francese sono stato spesso a contatto con gli europei soprattutto quelli che venivano qui per le centrali elettriche”. Quando parla del Sacro Corano gli si illuminano gli occhi e afferma felice che è per volontà di Allah che questa sera noi siamo suoi ospiti. Biasima il comportamento del negoziante a cui avevo chiesto informazioni per non averci offerto subito ospitalità, come deve fare ogni vero mussulmano. Gli chiedo della storia del marabutto volante Sidi Rahhal e lui mi risponde secco che chi ha scritto questa cosa non conosce il Corano, perché nessun uomo vola, solo il Profeta l’ha fatto una volta e su un cavallo alato. Mentre parliamo suona alla porta un uomo che ci viene presentato come il responsabile di zona del governo venuto a controllare i nostri documenti, Mohamed gli spiega del nostro viaggio e gli parla con toni enfatici del mio interesse per la religione mussulmana, poi mi dice: “vedi lui è un marabutto. I marabutti sono uomini come gli altri, solo che conoscono meglio le scritture perché le hanno studiate”. Mohamed chiama Fatima a farci compagnia perché è arrivata l’ora della preghiera. Fatima è una donna buona mi ricorda Maria di Peppe, anche lei prega sei volte al giorno, ma sembra che lo faccia per fare contento il marito. La serata prosegue davanti al classico tajine, mi parla di Omar Bin Laden uno dei figli di Bin Laden che sta facendo un viaggio simile al mio, ma a cavallo insieme a una donna inglese, non è il primo che mi dice questo e poi mi cicchetta perché mangio con la mano sinistra. Al Rafia è un vero mussulmano che rispetta e conosce a memoria il corano e lo riconosce come unica legge, non riconosce nessun valore alla politica dei politici, ”la retta via destra è quella che ci ha insegnato il Profeta non conosce né dubbi né incertezze, al contrario dei politici sono così… e mima una linea contorta ondeggiando mano e braccio a destra e a sinistra.
Gli chiedo chi è Gesù per il mondo mussulmano e finalmente ricevo una risposta esaustiva. Questo Mohamed è un personaggio che mi affascina, è brillante e coerente, la consequenzialità fra pensiero, parole e azioni per me è l’unica unità di misura dello spessore delle persone. Ogni tanto affiora un po’ di malinconia per i familiari lontani, soffre per la mancanza di internet che non gli permette di comunicare frequentemente con gli otto figli sparsi per il mondo. Il rintocco delle undici del grande orologio di sala dice che è arrivata l’ora di andare a dormire anche perché la prima preghiera è alle quattro del mattino e la seconda alle sei.
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Carichiamo i due zainoni, la tenda e l’orzo nella shuarì e si parte.
Di buon passo arriviamo al paese dove facciamo rifornimento di acqua e frutta, tutti ci guardano e ridono, questo anomalo viaggio col ciuco sembra divertire tantissimo. Proseguiamo in direzione di Sidi Rahhal, paese che prende il nome da un famoso marabutto volante, protettore dei malati di mente, vissuto nel XV secolo. La strada che collega i due paesi è circondata da campagne coltivate e ricca di canali per l’irrigazione, in lontananza si vedono le vette innevate dell’Atlante. Paglicce comincia a rallentare, ci fermiamo per farlo mangiare e riposare all’ombra, ma quando si riparte va meno di prima. Il tramonto si avvicina velocemente, ma Sidi Rahhal è ancora lontano, è una zona ricca di olivi e in questo periodo qui raccolgono le olive. Un colonnino bianco ci segnala che mancano ancora cinque chilometri a Sidi Rahhal, ma comincia a imbrunire e a calare la temperatura, il grande oliveto mi sembra un buon posto dove piazzare la tenda. Nel cortile di una casa a fianco della strada si affaccia una giovane donna vestita di bianco, ha una bella faccia luminosa e curiosa, le chiedo se ci possiamo accampare vicino alla sua casa, rimane un attimo perplessa poi mi dice di attendere. Ritorna in compagnia di un uomo a cui ripeto la richiesta, l’idea della tenda non gli piace tanto, però a fianco c’è la casa del cugino che ci può ospitare. Mentre discutono Paglicce crolla e chiude la questione, scarichiamo il ciuco, lo sistemiamo in giardino e portiamo il bagaglio in casa. Veniamo accolti con grande ospitalità e fatti accomodare nella stanza più bella. Sono curioso di vedere come sarà la cena, finora nelle case marocchine ho sempre trovato una netta divisione tra uomini e donne. Omar, il padrone di casa, è un omone dalla faccia buona e i piedi enormi, il vestitone lungo che porta lo fa somigliare a un frate, ci dice con tono di scusa che la sua è una famiglia piccola una moglie e solo tre figli, due femmine e un maschio. Come temevo mangiamo separati, ci offrono il meglio che hanno: lenticchie, pomodori, olive, carote e patate. Dopo mangiato Omar ci invita nella stanza della televisione con tutta la famiglia, la conversazione è tutta incentrata sulla coppa d’Africa, poi mi metto a giocare coi bimbi più piccoli a cuscinate.
Prima di andare a letto il pavimento della “nostra” stanza viene trasformato in un lettone, penso a come verrebbero accolti due marocchini mai visti prima da noi se si presentassero a buio sull’uscio di casa co’ un asino e du’ cestoni.
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E’ una giornata bellissima, attraversiamo il fiume e ci dirigiamo verso il grande souk. Lungo la strada incontriamo decine di asini, uno stracarico ci sviene proprio di fianco, il vecchio che lo conduce cerca di farlo rialzare a legnate mentre bestemmia in arabo, ma la povera bestia non reagisce, allora mi chiama chiedendomi aiuto per togliere la shuarì (due grandi cestoni che si mettono a cavallo della sella), finalmente l’asino si rialza, gli rimettiamo la shuarì sul groppone, l’uomo mi ringrazia e riprendiamo il cammino verso il souk. E’ un souk molto grande e vero, pieno di persone e di merci di ogni tipo, qui non c’è traccia di turisti, si vendono attrezzi per la campagna e per l’edilizia, ci sono fabbri che forgiano e raddrizzano sappe, picconi e forconi. All’interno del souk ci sono tanti ristorantini da campo, all’aspetto sembrano dei pollai scalcinati, ma i profumi che escono dai pentoloni fanno venire fame. Il souk è ricco di cose interessanti, ma noi siamo qui per l’asino e iniziamo la ricerca del mercato degli animali. La ricerca non è poi così facile, finalmente troviamo un piazzalone pieno di asini e muli, entriamo convinti che sia il mercato degli asini, ma è solo il parcheggio. Mentre curiosiamo tra le bestie si avvicina un signore vestito di bianco dalla faccia gentile che ci chiede in francese cosa stiamo cercando, ci spiega che gli animali sono stati portati via perché è troppo caldo e ci invita a seguirlo verso le stalle. Finalmente ci siamo, sento che è la volta buona. Un tipo cicciotello con la faccia furba mi fa vedere un po’ di asini dicendo di sceglierne uno, scelgo un giovane ciuco nero, ha le gambe storte e una faccia simpatica che mi ricorda Gianfranco Paglicce e poi ha già la sella. Mi invita a provarlo, fra le risate generali parto e mi infilo subito dentro una stalla. Chiudo l’affare e andiamo alla ricerca di ciò che manca: la shuarì, le corde e l’orzo. Grazie all’aiuto di Mohammed tutto si conclude velocemente, ci salutiamo e finalmente con Paglicce addobbato con una vivace shuarì gialla, torniamo fieri alla base. Siamo l’attrazione del souk, lungo la strada di ritorno siamo accompagnati da un gruppo di una dozzina di bimbi. Sono contento, Paglicce con Serena sul groppone trotta che è un piacere, mi sembra di aver fatto un ottimo affare. Leghiamo Paglicce sotto un olivo e ci mettiamo a guardare contenti il percorso sulla carta: finalmente domani si parte per la traversata dell’Atlante. È ormai sera quando decidiamo di andare in paese per mangiare e inviare le foto di Paglicce. Tutto ‘nfanato dalla voglia di da’ la notizia mi dimentico la torcia, ci incamminiamo lungo un bel viottolo circondato da olivi che dopo una ventina di minuti sbuca sulla strada principale a un paio di chilometri dal paese. Mentre si cammina al buio Serena sparisce in una buca, vedo solo i capelli, cerco di tirarla fuori ma metto un piede nel vuoto, mi cappotto e tombolo giù pe’ un teppone, mi fermo una quindicina di metri più giù, rido però so tutto tronco, che figura di merda! Mi sgroviglio dai buscioni e torno sulla strada da Serena che sta piangendo dalle risate. Con passo claudicante raggiungiamo il paese ormai semi-deserto, mangiamo una grigliata di carne in un tipico ristorantino marocchino, poi internet e dopo rientriamo a piedi con una certa tendenza a camminare a centro strada. |
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