AuthorUmberto

Domenica 29 marzo 2009 da Siwa a Bahariyya – Egitto

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I rifornimenti ai posti di blocco Sahariani
Dormono tutti al fonduk, si caricano gli zaini sul cassone insieme alla pala, le tavole anti insabbiamento, la tanica del carburante, un po’ di legna e le immancabili coperte. Apro la stanza dove dorme l’autista, mi sembra che non ci sia nessuno, poi guardo meglio e il tappeto arrotolato in fondo ha due appendici che sono i piedi del driver, arriva Grraziaa!!! anche lui autista ma da buon Siwano solo per giri a corto raggio, stamani è stranamente pimpante e con la sua classica espressione da fulminato allegro entra nella camerata del collega Beduino gli urla qualcosa e lo sveglia. Tempo un quarto d’ora si parte, per prima cosa andiamo a prendere un Siwano a casa sua che si piazza nel cassone e si mette a dormire, poi si va dalla polizia per fare i permessi, i militari ci consegnano un grande sacco e uno scatolone di cartone pieno di viveri. Lasciata la caserma si parte alla volta del palmeto a fare un po’ di legna per il the, la ricerca è lunga e sembra infruttuosa, solo qualche steccolino, ma poi l’autiere si stufa di raccattare bricioli, prende un lungo ramo secco di olivo e lo carica nel cassone. Si parte passando dalla via per Dakrur incontrando tanti bimbi che stanno andando a scuola, un ultimo sguardo alla montagna dei fantasmi e poi si imbocca la strada che taglia la laguna, la via asfaltata prosegue costeggiando il lago di Zaytun fino al primo posto di blocco della polizia, quello che martedì era il limite invalicabile e che si può varcare solo con il permesso speciale rilasciato dai militari. Consegnamo un po’ di viveri del sacco, Mustafa da dietro lo schienale del sedile tira fuori anche un po’ di pane e lo regala ai poliziotti che contraccambiano regalandoci due rametti di basilico, un soldato con un cencio in capo si tuffa sui viveri mentre un paio di altre guardie spostano i fusti vuoti che ostruiscono la carreggiata e si inizia la traversata del deserto. È da subito un ambiente totalmente arido, pochi chilometri e la strada diventa pista, ci insabbiamo un paio di volte, pala, tavole sotto le ruote e via, nella prima ora di chilometri ne facciamo davvero pochi, la pista sabbiosa si alterna all’asfalto della strada in costruzione, che una volta ultimata collegherà l’oasi di Siwa a quella di Bahariyya. La strada principale è circondata da lingue di asfalto steso senza massicciata per permettere ai mezzi di avanzare, c’è anche un  impressionante frantoio per macinare la pietra nel deserto e fare la breccia, i cantieri sbucano dal nulla e la gente vive dentro baracche arroventate, le dune invadono spesso i tratti già ultimati di carreggiata e le piste laterali di servizio si deformano, spesso risultano impraticabili, sono diversi anni che stanno lavorando a questa strada nel tentativo di asflatare il deserto, l’impresa da qui appare titanica e anche i mezzi meccanici per quando enormi sembrano poca cosa al cospetto della potenza e della dimensione del deserto. Arriviamo al secondo posto di polizia, una baracchina sgarrupata coi pannelli solari per fornire l’energia elettrica, solita distribuzione di viveri ai militari nelle cui facce abuliche è dipinto l’isolamento. Lasciata la postazione di controllo si avanza cercando una deviazione sul lato sinistro della strada per raggiungere come concordato un importante sito, trovato l’imbocco procediamo per una pista disegnata dentro una depressione bianca fino ad arrivare a vedere una montagnola candida che si eleva precedendo una sottostante pianura dove spiccano alcune palme, sullo sfondo la vegetazione si fa più fitta e si ha la percezione di uno specchio d’acqua, il posto è molto bello ed è anche un importante sito archeologico in cui si trovano numerose sepolture che dovrebbero risalire al periodo Romano, ma Mustafa ha furia e dà segni di insofferenza anche nel vedermi fare le foto. Il terreno è disseminato di piccoli dischi sottili di roccia grigia a forma di moneta, una volta ripartiti il beduino si rilassa, ritorniamo sulla strada principale e si prosegue verso oriente, gli unici mezzi che si incontrano sono quelli che lavorano al cantiere stradale, il caldo comincia a diventare pesante e la caligine disegna confini indefiniti sull’orizzonte, si cominciano a vedere anche delle grandi dune in lontananza, hanno colori più sbiaditi rispetto a quelle Libiche, si viaggia a una media di cinquanta chilometri all’ora, forse meno, avanzando per lo più sulla massicciata del futuro stradone. Per raggiungere il terzo posto di polizia si fa una deviazione di qualche centinaio di metri per arrivare alla postazione baracca che man mano che si entra nella profondità del deserto diventa sempre più fatiscente. Per farsi scorgere dai “guardiani” Mustafa deve suonare più volte, poi un ragazzino assonnato fa capolino e di seguito altri tre, attratti soprattutto da Serena che guardano come fosse un miraggio, solita distribuzione di viveri e si riparte. La monotonia della pista si interrompe quando la pista si incunea in una depressione da cui si elevano tante montagnole scure che si innalzano dal bianco come ruderi di gigantesche piramidi, è un paesaggio estremamente suggestivo con la strada che si infila sinuosa fra le gibbosità, le montagnole hanno i fianchi erosi tanto da creare delle sagome da grandi funghi, sotto una di queste un gruppo trasportato da un paio di fuoristrada si è fermato a fare la pausa pranzo. Poco dopo anche noi ci fermiamo sotto un grande panettone di roccia, per i beduini la sosta pranzo è un rito irrinunciabile, si sveglia anche il Siwano e comincia a spezzettare la legna per fare il fuoco. Approfittando della sosta saliamo sul più alto di questi cocuzzoli, il panorama è bello e surreale, scende verso sud nella depressione di Bahrein, siamo a circa centoquaranta chilometri da Siwa, qui un tempo c’era  una rigogliosa oasi, oggi c’è solo un po’ di verde e qualche cespuglio sofferto di palme, poi la grande conca che da l’illusione di essere ricoperta d’acqua si spenge  indefinita nelle grandi dune del mare di sabbia. Ormai è poco più di una chiazza di sterpaglia in mezzo al niente, ma fino a pochi decenni fa era un’irrinunciabile tappa intermedia per le carovane che da Siwa avanzavano verso l’oasi Bahariyya. Bahrein è balzata all’attenzione delle cronache archeologiche nel 2003, quando un gruppo di italiani ha portato alla luce un importante tempio risalente al Periodo Faraonico, il santuario era dedicato ad Amon e fu costruito per volere del Faraone Nactnanebo I (380 – 360 a.c.) Il luogo del ritrovamento dovrebbe trovarsi ad una cinquantina di chilometri da qui ed è improponibile chiedere a Mustafa di raggiungerlo, anche perché non essendo pista battuta sarebbe necessario un fuoristrada, il rimpianto di non poter raggiungere i resti del tempio è mitigato dal fatto che i blocchi superstiti del tempio ancora ricchi di pigmenti colorati sono stati trasportati a Marsa Matruh in un deposito della sovrintendenza archeologica in attesa di restauro. A quanto affermano gli archeologi la maggior parte dei blocchi del tempio fu distrutta nei primi secoli dopo cristo, quando i blocchi di calcare vennero smantellati e cotti nelle fornaci per fare la calce. Il mutare delle rotte commerciali e probabilmente anche il peggiorare delle condizioni climatiche, portarono gli abitanti ad abbandonare l’oasi intorno al quinto secolo e da allora Bahrein non è più stata abitata stanzialmente.
Ci sono fossili ovunque, conchiglie e coralli e migliaia di piccoli dischi grigi che sembrano monete,
il suolo è formato da calcare bianco e basta smuovere la superficie e tutto calcare del terreno per trovare una polvere bianchissima di gesso, tutto originato dai sedimenti organici depositatasi sul fondo di quello che un centinaio di milioni di anni fa era un mare, un anticipo del famoso Deserto Bianco che dovremmo visitare nei prossimi giorni.
Tornati al “campo base” si mangia e si chiacchera, la classica conversazione essenziale “io Beduino lui Siwi, io arab” “io no arab io Siwi different, different language” “questo in Siwi si chiama… in Arabo…. in Italiano…” e via elencando pane, pomodori, formaggio, peperoni, conchiglie, lucertole e mosche e ognuno mentre enuncia il suo idioma si dimentica quello dell’altro. Immancabile rito del the e si riparte, qualche decina di chilometri e si arriva al quarto controllo di polizia, è più grande degli altri, ci sono tanti cani, gli unici che si accorgono del nostro arrivo, in una delle baracche i soldati sbracati sulle brande rimangono immobili anestezzati dalla calura, in questo sorprendere i guardiani mi sembra di rivedere la motovedetta che porta i viveri a Montecristo, lasciamo altri viveri e si riparte, la scena si ripete più volte, ogni volta si devia e si suona per svegliare i militi, per quanto atteso il pik up con il convio coglie sempre impreparati, persi nell’ozio forzato di queste postazioni di controllo sperdute e lontane anche dall’unica strada da dove normalmente non passa nessuno. La via continua a scendere dentro una depressione che sembra non finire mai circondata dai paesaggi surreali di queste lande aride sotto il livello del mare, la discesa si interrompe in un inaspettato lago dove si sviluppa un grande e rigoglioso canneto che con i suoi colori vivi ci rammenta che sotto questa apparentemente infinita distesa di arsura sterile, si trova una delle più grandi riserve di acqua dolce del pianeta. Si procede spediti, Mustafa guida con aria annoiata tenendo la testa inclinata e gli occhi semichiusi con lo sguardo fisso sull’orrizonte, la monocromia alienante del paesaggio abbiocca aiutata dalla calura, guardando nello specchietto retrovisore la strada sembra evaporare dopo il nostro passaggio, poi come fosse un miraggio appare una macchia arancione  indefinita, all’inizio sembra un’illusione di vapore, ma poi prende velocemente la forma di un camion che poderoso avanza e ci raggiunge, mentre ci affianca ci si scambia i saluti, proprio come quando si incontra una barca in mare aperto. Ogni tanto la pista viene invasa dalla sabbia, per tre o quattro volte Mustafa con abilità se la cava per un pelo, ma poi la rena prende il sopravvento e ci  piantiamo. Spalando e mettendo le tavole sotto le ruote si acquista poco e il pikup ogni volta affonda di più fino a che non si insabbia anche il telaio e si pianta definitivamente. Il posto è favoloso e l’idea di passare la notte qui mi alletta, soprattutto per la vicinanza alla dune, dopo una mezz’oretta  arrivano due fuoristrada per turisti senza passeggeri e dopo un’ora di manovre varie e tentativi falliti si supera l’ostacolo e si riparte, peccato perché sarebbe stato stato un posto bello per bivaccare. Ancora un po’ di passaggi critici con accumuli di sabbia sulla via, poi Mustafa dice “finish after no problem”, il paesaggio diventa sempre più bello con le dune alte a poca distanza che cominciano a prendere forma più definite con l’abbassarsi del sole, entriamo in una pianeggiante distesa bianca e poi ancora dune e forme surreali. Altro posto di blocco dove i protagonisti sono un cucciolo di cane e un uccellino giallo con cui gioca. I paesaggi diventano sempre più belli e si miscelamo con i miraggi che si inghiottono la strada, al tramonto raggiungiamo un altro posto di blocco e poi si scende ancora nella depressione, arriviamo all’ultimo posto di blocco che si iniziano a vedere le luci di Bahariyya. In perfetto stile beduino Mustafa guida a fari spenti, ma la via è ben visile perché illuminata dalle tante stelle, con il ponere del sole c’è stato un cambio drastico di temperatura e ora complici anche gli spifferi fa veramente freddo, sono circa le dieci quando si entra dentro Bawiti il paese principale dell’oasi, dopo l’ultimo controllo nella caserma del paese finalmente il nostro autista ci consegna i passaporti custoditi segretamente sotto il tappetino della pedaliera del guidatore.
È un brusco risveglio, siamo tornati in Egitto, siamo assaltati da una nuvola di persone che si fiondano addosso come le zecche cercando di accaparrarsi le prede europee, manca la magia di Siwa. Circondati da questo flusso epilettico di “amici” ci spostiamo seguendo un cartello di un hotel “no, no lì troppo caro!” ma finalmente si dileguano. Si tratta e ci si piazza.
Arrivando ho visto dei fuoristrada con le targhe dell’organizzazione del Rally dei Faraoni la cosa mi incuriosisce e vado a cercare un internet per saperne di più.
A differenza di Siwa, internet qui è lento e va collegato al telefono, ma dal web una gradita sorpresa, le modifiche al sito grazie a Miki sono on line, le notizie del giorno sono: vince la Brown al debutto e la Ferrari fa schifo, segna Pazzini il sampdoriano e Berlusconi si autocelebra al congresso di fondazione del popolo …  il rally dei Pharaoni passerà di qui però a settembre.  

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Sabato 28 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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La Tomba di Alessandro Magno ?
Ultimo giorno a Siwa. Fra tutti i misteri di questa oasi uno dei più intriganti è legato alla Tomba di Alessandro Magno, la storia tramandata ci racconta che la salma del Faraone Macedone fu portata secondo le sue volontà ai Sacerdoti del Tempio dell’Oracolo di Amon a Siwa, i religiosi però si rifiutarono di accogliere il corpo del sovrano defunto nel Tempio e i soldati di Alessandro furono costretti a cercare un altro luogo per dargli sepoltura. Dove, non è mai stato specificato. Già durante i giorni di permanenza ad Alessandria ci siamo imbattuti  in diversi luoghi che venivano raccontati come presunte tombe di Alessandro ma in realtà mai nessuno ha trovato documenti o incisioni che certificassero la sepoltura del primo Faraone Macedone. Nel 1995, suscitando grande clamore, l’archeologa greca Liana Souvaltzis dichiarò al mondo la scoperta della tomba di Alessandro Magno nell’Oasi di Siwa, nei pressi del villaggio di Maraqi. Dopo anni di ricerche, grazie alla collaborazione del marito un egitologo egiziano esperto in scrittura geroglifica, decifrò delle iscrizioni che asserivano che il Sepolcro di Maraqi era la tomba di Alessandro il Grande, la notizia fu accolta dal mondo dell’archeologia in maniera discordante, chi la considerò una grande scoperta, chi una farsa, purtroppo le autorità egiziane, con la grezzaggine che gli è propria, risolsero bruscamente la diatriba che stava nascendo revocando il permesso di scavo all’archeologa greca e chiudendo il sito alle visite.
Oltre le notizie estrapolate da internet, quello che ho trovato è una vecchia cartina dove è indicata la tomba e qualche racconto, c’è anche chi ha partecipato allo scavo e in diversi affermano di conoscere la sepoltura, ma nessuno è disposto a parlarne più di tanto e tantomeno ad accompagnarci, soprattutto perché non vogliono problemi con le autorità, ma anche perché c’è la consapevolezza che il mistero che circonda la tomba alimenta la curiosità intorno all’oasi.
Decido comunque di andare alla ricerca della misteriosa sepoltura che dalle indicazioni raccolte dovrebbe essere ad una quindicina di chilometri da qui, poco oltre la sponda sud occidentale del Birket Siwa.
A Siwa continuano la cementificazione, stamani è arrivato un altro autotreno carico di cemento e sbarre di tondino di ferro per le armature, ormai il morbo del calcestruzzo sembra inarrestabile… Salgo sulla collina dietro Shali per avere una visione d’insieme del territorio da qui a Maraqi e vedo che oggi si costruisce anche sul lato opposto, c’è un nuovo cantiere dove si sta facendo la gettata del solaio al primo piano, c’è una squadra di una quindicina di uomini che lavora di gran lena, gru e betoniera a scoppio e l’ambitissimo carrellone basculante con le ruote piene che se lo passano da un cantiere all’altro. Gli africani per quel poco che ho capito in quest’anno e mezzo di permanenza nel continente, magari non brillano di iniziativa, ma sono dei gran lavoratori, secondo me come attitudini assomigliano tanto ai nord italiani, tipo i bergamaschi e i veneti, insomma a quelli razzisti della lega. La sabbia non è certo un problema in un cantiere dentro il Sahara, ma la breccia sì e per averne un pochina bisogna frantumare a colpi di mazza la preziosa roccia bianca che si cava dalle montagne dall’altro lato del lago, per guardare meglio il cantiere mi sposto su una cote spianata e ci trovo la testa di un gatto mutilata e dello sterco secco, un’altra traccia evidente di magia nera che evidentemente qui ha ancora seguaci, oltre al tetro cimelio esoterico da questa posizione si ha comunque una bella visione dell’oasi, con il palmeto delimitato dal deserto e dal lago.
Si inizia a camminare dentro l’oasi in direzione ovest, poi il palmeto comincia a diradarsi e si inzia a vedere bene il deserto, il paesaggio ombreggiato del palmeto ha lasciato il posto a una steppa salmastra di giunchi e palme secche, in poche centinaia di metri il terreno cambia divenendo fangoso e circondato da canali, alcuni dei quali confluiscono in una lunga pozza alimentata anche da una gorgogliante sorgente dove nuotano  tanti piccoli pesci. Si prosegue dalla strada dopo le pompe di drenaggio che attraversa il lago a poche decine di metri dalla sponda merionale del Birket Siwa e avanza come un miraggio in direzione dell Adrar Amellal. Nel bassofondale salmastro ci sono numerosi fenicotteri, il sale brilla ovunque, sulla strada, negli accumuli intorno agli steli dei giunchi che sbucano dall’acqua e nella forma più spettacolare delle rose di cristalli che di tanto in tanto affiorano dalle sponde. Nel lago sguazzano diverse specie di volatili acquatici e Serena presa dalla voglia di riprendere da vicino i pacari, finisce nelle sabbie mobili e s’incazza con me perché prima di aiutarla ad uscire gli faccio un po’di foto. Si prosegue ancora un po’ ma poi la strada finisce, ci sono solo poche decine di metri di melma e poi la strada riprende il suo percorso, ma il rischio di rimanere piantati nelle sabbie mobili è troppo elevato e quindi si torna indietro, vuol dire allungarla di almeno una quindicina di chilometri ma la giornata è ancora lunga e c’è tutto il tempo per farlo, voltiamo le spalle all’Adrar Amellal che ormai era vicino e ritorniamo sui nostri passi fino alla zona delle pompe, si segue il canale sul lato sud finché non si spenge nella sabbia e poi si comicia a piegare verso ovest. Fa caldo, si cammina ai bordi del deserto fra cespugli rinsecchiti e giunchi, ogni tanto delle palme cespugliose, sempre più piccole, fino all’ultima ormai secca intorno alla quale si concentrano insetti e piccoli rettili tanto da farla sembrare una metafora dell’oasi. Avvicinandosi alle sponde del lago le croste di sale riaffiorano nel terreno, ci sono nuovamente le palme e i tamerici, poi solo giunchi che crescono fra le piccole dune, a volte il terreno salmastro diventa acquitrino e bisogna fare attenzione perché le sabbie mobili non sono facili da identificare. L’assenza di vento rende il lago una meravigliosa lastra liquida di un intenso azzurro mare, che si ammira magnificamente salendo sul culmine delle dune che poi sinuose si tuffano nel lago oggi specchio meraviglia in cui si riflettono le sagome delle montagne che chiudono il lato nord del bacino. Il bordo del lago segue un disegno ondulato che spesso si distende in piccole spiagge anticipate da una macchia cespugliosa di tamerici e adornate di giunchi e piccole palme, le dune in questo tratto sono relativamente alte e spesso svelano pozzaloni di acqua dolce trasparente e senza tracce di sale, sono queste le zone più ricche di vita e la sabbia è disegnata dalle tante tracce di animali, insetti, rettili, piccoli uccelli, che ogni tanto fanno capolino sulla sabbia calda, tutte le creature hanno movimenti frenetici quando camminano sulla superficie calda della sabbia, specialmente le lucertole che sfrecciano veloci come creature virtuali dentro un videogioco. È un concentrato di vita questo incontro fra le sabbie del Sahara e il lago salato, un paesaggio inusuale e superbo, saturo di colore e dominato dalla montagna bianca dall’Adrar Amellal, i tanti picchi che ci circondano fanno pensare a quote elevate ma in realtà siamo dentro ad una depressione e stiamo camminando a una ventina di metri sotto il livello del mare. Le dune qui vicino al lago sono più vegetate, si attraversa uno stagno secco ricoperto da vigorose spighe rosse e da un erba dalle inflorescenze viola, poi la zona torna più umida e ricompaiono i classici pennacchi dei cannicci, è un girare intorno a stagni, pozze e dune, peferisco allungare il percorso per girare intorno ai pozzaloni dove gli sprofondamenti sono sempre in agguato. Fa ancora tanto caldo ma comincia ad essere mitigato da un accenno di brezza e poi ora il paesaggio comincia ad essere esaltato da una luce che mam mano che il sole si abbassa sta diventando sempre più bella, Adrar Amellal come un gigantesco tempio che si erge dalle sabbie e ci fa da faro in questo avanzare sinuoso, mentre le grandi dune del mare di sabbia occidentale si ergono maestose in lontananza. Incrociamo una pista e poi degli impianti di irrigazione che si distendono nel deserto, la zona della presunta tomba di Alessandro Magno non dovrebbe essere lontana. Come un miraggio comincia a prendere forma un rudere fra le sabbie che si confonde nella luce accecante dell’ovest, è come una torre e avvicinandosi si vede che è costruita con mattoni crudi che mi ricordano la Piramide Nera di Dahshur, ma è molto più modesta e sicuramente più recente e quel che rimane è una porzione di una robusta muratura ora alta una dozzina di metri la cui parte bassa è costruita in pietra e da cui si intuisce che partivano più pareti. Davanti alla “torre” c’è la la pianta di un tempio in pietra, le tracce di uno scavo archeologico e delle grandi lastre ben squadrate di pietra, è un sito grande ma non enorme sarà mille metri quadradrati, si capisce anche che è stata accostata sabbia allo scavo per chiudere un probabile ingresso sotterraneo, comunque da quello che si vede niente può far pensare che questa sia la Tomba di Alessandro Magno.
Siamo ormai ai margini dell’oasi che si sviluppa sul margine occidentale del lago, ancora qualche piccola duna e altri impianti di irrigazione a goccia circondati da tante tracce di animali evidentemente attratti dall’acqua, poi un’ultima duna e si scende fra canneti, pozze e coltivi fino ad arrivare dentro un villaggio di mattoni crudi ormai abbandonato, siamo dentro l’oasi di Maraqi. Anche qui ci sono vasche e canali ricchi di zanzare e garzette e anche grandi palme, il terreno diventa compatto e dopo un paio di chilometri si entra nel villaggio abitato di Maraqi, la sorpresa e la curiosità nei nostri confronti è tanta, la senzazione di essere visti come alieni respirata tante volte nelle zone più isolate dell’Alto Atlas marocchino fa strano, perché siamo a meno di venti chilometri da Siwa, è un villaggio molto povero e come tutti i posti ricchi di squallore materiale eccelle in generosità che qui si manifesta negli inviti a prendere un the. Lasciamo il villaggio fra la perplessità degli uomini che, visto l’approssimarsi del tramonto si volevano adoperare per cercarci un passaggio fino a Siwa, ritorniamo verso il lago passando a fianco alla montagnola posizionata fra Maraqi e l’Adrar Amellal anche questa ricca di decine e decine di sepolture, le camminiamo intorno dal lato meridionale per poi ritrovarsi nella zona degli ecolodge. Come sempre anticipando di poco il ponere del sole, gli stormi delle garzette si involano dal lago verso i palmeti, sono tante e volando basse disegnando una surreale nuvola bianca riflessa nel lago che non riesco a fotografare. Il sole infuoca l’Ovest, da qui lo vediamo scendere dietro canne e giunchi dai pennacchi diventati di fuoco, mentre la sua luce calda illumina la sagoma ora rosa dell’Adrar Amellal che si riflette maestosa nell’immobilità del lago. Aten tramonta in un’esplosione d’arancio e subito la temperatura si abbassa, un arbusto ormai secco emerge parzialmente dalle acque vitree, sui rami il sale ha disegnato delle algide sculture barocche che sembrano annunciare la risalita dal fondo di una pallida fata. L’atmofera di fiaba è bruscamente violentata dall’arrivo di una nuvola di fameliche zanzare bianche che ci invitano a riprendere il cammino lungo la strada rialzata, intorno fra i canneti gli uccelli pescatori sono in piena attività e fra loro anche il minuscolo martin pescatore, poi sulla laguna cala la notte e il silenzio è interrotto di tanto in tanto solo dal saltare dei pesci, mentre nel cielo si accende una grande stellata che si riflette nel lago. Ritornati sulla strada asfaltata un gippone ci offre un passaggio fino ai limiti dell’abitato di Siwa che raggiungiamo passando dai vicoli interni per incontrare un’ultima volta le donne avvolte nei tarfoulet e poi ceniamo per l’ultima volta a Siwa. C’è un’atmosfera mista di gioia per il proseguire del viaggio che riprende dinamicità e di malinconia per lasciare un luogo speciale e non omologato, come già altre volte sale su un magone di lutto per la percezione netta di un prossimo repentino cambiamento che cancellerà per sempre questa magia fatta di tradizioni e ritmi morbidi. Salutiamo Silvia e Daniela, ringraziandole per il preziosissimo aiuto che ci hanno dato per “Base Elba” e per il piacere di riparlare italiano dopo tanto tempo e poi un ultimo giro notturno dentro Shali, splendida e decadente musa di sale e fango.

   

Venerd?¨ 27marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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Shali, la Meravigliosa Fortezza del Sogno
Il cielo viola comincia a schiarirsi nell’immobilità che precede l’alba e la sagoma nera dell’oasi prende la forma sfrangiata delle palme, a oriente tutto si inizia a tingere d’arancio preparando la scena al Sole che tremolante e infuocato sbuca già padrone e incendia tutto. All’improvviso il silenzio si interrompe nel fragore del battito d’ala di centinaia di garzette, che all’unisono s’involano verso i laghi regalando lo spettacolo magnifico delle eleganti sagome nere che si stagliano nel cielo arancione, un lungo attimo di meraviglia che svanisce nella luce del nuovo giorno.
È arrivato il tempo di lasciare Siwa, nel pomeriggio al fonduk incontro un autista beduino che nei prossimi giorni va a Baharyya con il suo pick-up; tratto, troviamo l’accordo sul prezzo e si decide di partire domenica.
Mi immalinconisce l’idea di lasciare Siwa, il timore che in tempi brevi la magia che si conserva in questo scrigno di palme e sale scomparirà per sempre, è più di una sensazione. Nel cantiere della piazza le armature delle fondamenta sono già state smantellate e le tavole sono pronte per diventare gli stampi per le colonne, è arrivata anche una ruspa gigante che fa bella mostra di se all’ingresso del paese.
Come tanti occhi le mille crepe e le finestre di Shali sembrano osservare tutto e tutti, anche le nuove case in blocchetti che stanno crescendo sul lato di tramontana. Entriamo fra questi vicoli sabbiosi che si allungano fra ruderi ormai abbandonati e case ancora abitate, in un misto di kirshif, calcestruzzo, mattoni crudi e blocchetti di calcare, nella via si incrociano solo due donne che camminano avvolte nel classico Tarfoulet per celarsi ad ogni sguardo e poi si entra nella fortezza, che con le ombre lunghe del tardo pomeriggio acquista ancora più fascino. Camminare fra queste mura dalle forme indefinibili è uno stupore continuo che si rigenera all’infinito, mille figure di mostri benevoli appaiono e scompaiono disegnati da speroni di sale e ombre cangianti e anche gli elementi più banali come le finestre e le ringhiere di legno di olivo, sembrano possedere anima, movimento e personalità. La grande torre diroccata è lo scorcio a me preferito, ti guarda da ogni angolo presentandosi sempre in forma diversa, da lontano ti scruta con il ghigno minaccioso di un gigantesco demone dalla testa coronata, poi sembra voltarti le spalle ma riappare subito dopo più alta e slanciata nelle sembianze di un polifemo urlante, per poi trasfigurarsi nel volto rugoso di un anziano guerriero che stanco di orrore si guarda intorno cercando quiete e chiedendo clemenza.
Man mano che il sole si abbassa i colori di Shali si scaldano acquistando tonalità fulve e le forme surreali di kirshif si tingono di vitalità tonificandosi in un’onirica muscolatura che gli dona un’illusione di movimento e così la sezione di un palazzo diventa  un gigantesco sacerdote fantasma dagli occhi di cielo, che allargando le braccia celebra afono un rito ancestrale controllato dallo sguardo serio della sua ombra di gufo. La mente vaga senza corpo fra i mille anfratti di questa illusione reale dove ogni forma può essere tutto e il contrario di tutto, come la parete del bastione principale, dove l’erosione ha scolpito il volto di uno spettro benevolo che dietro un’espressione di apparente pacatezza cela misteriose facoltà sovrannaturali, forse da bocca della verità oppure una porta spazio temporale. Shali è più di un cumulo di antiche ed uniche architetture di sale e fango, è più di un dedalo di friabili carrugi misteriosi, cangianti e spettrali, il suo fascino trascende dal razionale, va oltre; le sue forme distorte e in continuo mutare sono qualcosa di simile alla materializzazione di un groviglio di pensieri astratti, Shali è l’Oasi della Fantasia.
Passo a salutare Mohamed che nel suo studio rudere sta disegnando una complicata trama di china animata da centinaia di sguardi, l’estro gli scintilla negl’occhi mentre con fare beffardo e benevolo
mi mostra la sua opera, “Occhi di Gufo” è parte di Shali e il suo talento si specchia in lei.
Mentre gironzolo quasi mi scontro con l’ansimare di un turista che preso dalla frenesia di fare le foto al tramonto dal punto più alto si è perso nel labirinto di kirshif, Serena gli indica la via e lui ci si fionda, passano pochi attimi e ripassa fulmineo e concitato controllando l’orologio, è andato via senza nemmeno avere atteso la Posa di Sole, probabilmente è qui con un gruppo di passaggio e deve partire, spero per lui che un po’ di magia gli sia rimasta impressa negli scatti.
Scendendo verso sud  nella parte bassa della città fortezza ci sono ancora delle case abitate e dalla finestra di una di queste si affacciano due bimbi, mentre la sorella più grande domina la sua curiosità rimanendo nell’ombra. Vinta la timidezza il frugolino passo di fulmine scende in strada per vedere le foto dentro il visore della camera, poi facendosi coraggio mi chiede una penna che non ho, cerco di mitigare la sua delusione con la promessa di tornare. Usciti da Shali in uno spiazzo fra le case a ridosso della fortezza, delle  ragazzine velate giocano a pallone ma quando mi vedono scappano e si nascondono nelle abitazioni gridando no foto, sono ancora bimbe ma ormai già promesse e farsi fotografare è considerato assai disdicevole. Come ogni venerdì anche stasera c’è tanta gente intorno alla moschea, però solo uomini e bambini, ci sono anche due piccoli amici vestiti a festa che stanno giocano di fianco al luogo di culto, uno dei due è albino e finalmente ora che il sole è tramontato può giocare liberamente anche lui. Sono tanti gli albini a Siwa, appartengono alle famiglie più ricche dell’oasi e si occupano di commercio, qui non ci sono discriminazioni nei loro confronti come invece purtroppo succede in altre parti dell’Africa.
Gli albini Siwani sono ricchi e rispettati ma rimangono comunque dannati, la loro pelle senza melanina li costringe a vivere nell’ombra e i loro occhi che non sopportano il sole sono sempre strinti e sofferenti, come i pipistrelli solo ora con l’arrivo del crepuscolo serale si  possono muovere liberamente. Anche qui come in tutte le piccole comunità, spesso i figli nascono da unioni fra parenti, specialmente se ricchi, e questo probabilmente spiega l’alta percentuale di albini fra i benestanti dell’oasi. La natura è spietata e severa con l’avidità umana che si illude di coniugare la felicità con la ricchezza, quanta sofferenza ha generato e genera la bramosia di possesso e quante menomazioni immolate in nome di un potere vano, effimero e transitorio.
È ormai calata l’oscurità quando ritorno dentro la fortezza  per onorare l’impegno e gustarmi la corsa gioiosa verso il babbo che rientra dalla campagna mostrando fiero il suo pennarello, e anche lo  sguardo radioso di una bimba dalle lunghe trecce felice perché il suo babbo al rientro dalla campagna la fa salire sul carretto carico di canne, le ultime case abitate dentro Shali sono fra le più povere dell’oasi ma regalano scampoli preziosi di massima umanità.
Arriva la notte e riprende l’opera distruttiva delle pale meccaniche, nel vecchio agglomerato davanti alla piazza di nuovo rumore, polvere sospesa e odore di nafta, illuminato da fanali e riflettori il braccio meccanico dello scavatore si muove come un drago impazzito ruotando irrequieto il suo”collo” e ogni volta che la benna tira giù un vecchio muro, insieme al tonfo si ha un’esplosione di polvere che la luce dei riflettori enfatizza rendendo la scena  ancora più demoniaca. C’è suggestione ma senza armonia, l’aria è pesante e non solo di polvere, si respira il disagio delle coscienze, chi lavora non vuole pensare, chi passa non vuole vedere, tutti vorrebbero dimenticare questa notte ma nessuno ha le palle di fermarla, nemmeno io che mi limito ad essere il fotografo di un’esecuzione.   
 
   

Gioved?¨ 26 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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Il mitra, la falce e la betoniera
Il cielo è terso e la temperatura sta aumentando rapidamente, con le bici andiamo al tempio Umm Ubeyda, il tempio secondario di Siwa dedicato al culto di Amon, risalente al tardo periodo Faraonico fu costruito durante il regno di Necnanebo II, sovrano della trentesima dinastia; del monumento rimane poco, un pilone restaurato con bassorilievi che conservano ancora un po’ di colore e rovine sparse tutt’intorno, si vede però ancora molto bene la grande strada cerimoniale che un tempo collegava questo luogo di culto con il tempio principale sulla collina di Aghurmi. Il tempio si era conservato piuttosto bene fino alla fine dell’ottocento, come testimoniano le cronache e i disegni lasciatici dai viaggiatori dell’Ottocento, ma nel 1896 il governatore Ottomano stanziato a Siwa lo usò come cava per costruire il proprio palazzo, smantellandolo completamente. Si prosegue fino al tempio dell’Oracolo ma sta arrivando un pullman di turisti e allora si gira dalla parte opposta dove si sviluppa il villaggio ancora abitato, da qui il tempio dell’Oracolo assomiglia tanto al castello del Volterrio, si affaccia al centro della parete a strapiombo e domina dall’alto con le mura restaurate del Santuario e della Sala delle Profezie, i suoi blocchi di pietra sembrano pronti a sfidare l’avanzare dei secoli più della collina stessa; al contrario il malridotto rudere del torrione della vecchia Aghurmi costruito con argilla, sale e pietrisco, sembra temere anche il posarsi dei falchi. Il cielo terso e la luce bella esaltano il volo elegante dei falchi che nelle fenditure della rocca hanno costruito diversi nidi, ai piedi dello sperone due bimbi stanno lavorando sodo spostando sassi con una carretta, non vogliano essere fotografati e per farmelo capire bene si nascondono dietro la carriola. Torniamo alle bici e ripassando davanti all’ingresso “ufficiale” del tempio dell’Oracolo, ritroviamo i turisti che stanno risalendo sul bus, c’è una guardia armata vestita stile Blues Brhoters con tanto di occhiali a specchio, che con cipiglio da rambo e mitra in mano vigila sulla sicurezza del gruppo per difenderlo dai pericolosi frequentatori dell’oasi, forse da noi, o più probabilmente dal contadino che sta passando con la falce in mano e che impassibile a tutto questo trambusto sta andando verso una palma isolata in cerca di datteri. Andiamo verso i margini dell’oasi in direzione delle prime dune dove si trova l’albergo in cui lavora un ragazzo Siwano conosciuto a internet che parla italiano, per chiedere se c’è la possibilità di rimediare un passaggio per Bahayya. È una grande struttura che fa il verso senza riuscirci all’architettura Siwana, la cosa come pensavo non è fattibile con i nostri bubget, qui sono impostati sui viaggi organizzati e gli equipaggi sono stabiliti in anticipo, e poi anche se ci fosse posto come mi spiega un responsabile “non possiamo mettervi insieme a loro con tutto quello che pagano”.
Ritornando verso Dakrur si incontra un altro stabilimento in corso di ampliamento dove imbottigliano l’acqua, nonostante sia notte ci sono ancora uomini e bimbi che lavorano nei campi intorno a Dakrur.
Grazie a internet parlo con Nicol e Sofia che ogni volta mi sembrano tanto più grandi, che mi raccontano della scuola e delle lezioni di danza, fondamentalmente è questa la grande differenza rispetto ai viaggiatori del passato, questa possibilità di comunicare in tempo reale da quasi tutti i luoghi. Un aspetto assai meno piacevole di questa globalizzazione è la continua trasformazione di Siwa, che da qualche giorno ogni notte si trasforma in un cantiere edile, una squadra di una trentina di ragazzi sta gettando le fondamenta di un nuovo palazzo, anche questo in una posizione paesaggisticamente sciagurata, lavorano con grande lena impastando sabbia e cemento con una betoniera a scoppio e poi riempiono le fondamenta spingendo un carellone con la culla basculante, c’è grande eccitazione perché si guadagna bene e si intravedono miraggi di prosperità, e invece si sta distruggendo un qualcosa di unico, che se conservato sarebbe ricchezza economica e culturale.       
 
   

Mercoled?¨ 25 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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Lo sciopero delle garzette
Mi sveglio all’alba per fotografare la partenza delle garzette dalle palme dell’oasi sul sorgere del sole. Il sole sorge e anche bello, ma le garzette non hanno nessuna voglia di partire, alle sette e mezzo ormai il sole è altissimo e sono sempre sulle palme. È una giornata siwana passata per lo più a scrivere e incontrare persone in piena armonia con il lento stile siwano. Consolidiamo i due preziosi contatti per Base Elba, Daniela ci porta le foto che Athar ha fatto a scuola con la sua digitale e poi andiamo da Mohamed che stasera si incontra con un po’ di bimbi in una casa Siwana e ci ha invitato ad andare con lui. Passiamo una bella serata in compagnia di un gruppo di bimbi e ragazzi ospiti di una famiglia che apprezza il lavoro che questo artista sta facendo per i bimbi dell’oasi. La lezione di questa sera consiste nel creare un libricino origami, inventarsi una storia e disegnarla cronologicamente dentro il libro, ognuno partecipa a modo suo, i piccolini disegnano liberi sui fogli, le bimbe più precise eseguono in maniera rigorosa il modello del maestro, mentre i ragazzi più grandi, forse inibiti da noi, ci mettono un po’ prima di cominciare ma poi si mollano, anche il capo famiglia partecipa al workshop, come lo chiama Mohamed, solo le donne non si vedono, si intravedono solo le sagome velate nella penombra della stanza adiacente, dopo un paio d’ore con le mani tutte colorate e con un disegno regalatomi da Miriam ce ne torniamo felici a casa.                
 
   

Marted?¨ 24 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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Laghi e Sorgenti fra Siwani e Beduini pensando a Cambise e al kayak
All’alba dal palmeto sorge un sole infuocato e le garzette s’involano verso il lago. Anche stamani fa freddo ma non c’è vento, ci troviamo in piazza con Roxy (che in realtà come quasi tutti si chiama Mohammed) un ragazzo con cui abbiamo concordato un giro in motocarro per raggiungere i villaggi di Zaytun e Ain Safi. Sono le sette quando si parte, il triciclo di fabbricazione cinese accusa la temperatura bassa e c’ha messo un po’ prima di mettersi in moto, si attraversa il villaggio mentre i bimbi in divisa si preparano per andare a scuola e poi si passa dalla strada rialzata che divide la laguna di Aghurmi dal lago di Zaytun, che visto dal basso non ha confini definiti e sembra un mare. La strada costeggia il lato nord del bacino in direzione est e dopo pochi minuti ci si ferma alla prima pozza di acqua dolce Ain Qurayshat, che si trova proprio al confine con la laguna salata, la vasca contornata da palme e alimentata da una sorgente tiepida è bella, profonda e isolata, si prosegue per quattro o cinque chilometri e si arriva alla famosa sorgente di Abu Shuruf considerata dai Siwani quella con l’acqua più pulita. È più grande dell’altra e anche questa è tiepida, al suo interno ci sono centinaia di pesci, i più grandi sono lunghi una quindicina di centimetri, però il contorno non è un gran che, a pochi metri dalla sorgente c’è uno stabilimento per l’imbottigliamento dell’acqua che con i suoi pozzi ha fatto seccare tutte le palme qui intorno. Mototopo Roxy cerca una sorgente a suo dire bellissima, ma nonostante le informazioni chieste a un paio di contadini, sbaglia strada più volte e comincia ad agitarsi, da buon Siwano non ama i grandi spostamenti e da quando abbiamo lasciato la sorgente di Abu Shuruf si sente un po’ spaesato, la sensazione è che sia una delle prime volte che oltrepassa la famosa vasca. Per noi in realtà è una fortuna perché sbagliando via si vede di più e poi gironzolando finiamo in un tecnologico cantiere agricolo ai margini del deserto dove stanno piantando gli olivi nella sabbia grazie all’installazione di un impianto a goccia che si alimenta da un pozzo, fa un certo effetto vedere questi sottili tubi di polietilene che si perdono nel deserto con a fianco le piantine di olivo e tutt’intorno solo sabbia e polvere.
Passiamo davanti all’insediamento beduino di Ain Safi per poi arrivare dopo qualche chilometro al villaggio abbandonato di Zaytun. La zona del paese è totalmente spoglia di vegetazione ed è circondata solo dall’aridità del deserto. L’insediamento è costruito con il solito impasto di sale e fango, all’interno più o meno al centro c’è un interessante e misterioso tempio in pietra a pianta rettangolare, probabilmente risalente al periodo Faraonico, l’edificio si è ben mantenuto e conserva completamente la copertura, all’interno è annerito e si capisce bene che in periodi recenti è stato usato come abitazione. Tutt’intorno al tempio il villaggio si sta rapidamente sgretolando e soltanto pochi tetti che sono fatti con cannicciati ricoperti di fango, sono rimasti a coprire i tronchi di palma e i cannicci penzolanti creano degli affascinanti giochi di ombre nelle mura sgretolate. Sparse per le case ci sono tante tracce di vita quotidiana, dalle  piccole macine a mano a un frantoio, che fanno pensare ad un abbandono piuttosto recente, ovunque nelle abitazioni si aprono grandi crepe, uno degli edifici più suggestivi che probabilmente era la  moschea, è un grande stanzone con il tetto crollato che conserva dei grandi travi di tronco di palma poggianti su robuste colonne poste all’interno e nel fianco di una parete il rudere ha una piccola abside completamente staccata dal resto della muratura.
Ritorniamo da Roxy che ci aspettava sulla via e si prosegue lungo una pista per paio di chilometri arrivando in una grande necropoli dentro il deserto, è un sito molto esteso che dovrebbe risalire al periodo Romano, ci sono centinaia di tombe alcune hanno ingressi importanti con architravi lavorati e all’interno si sviluppano con più stanze, dentro ci sono decine di scheletri e anche qui come nella necropoli vicino al lago di Siwa, molti scheletri sono praticamente integri. La sabbia ha ricoperto quasi tutto ma si capisce bene che questa era una collina, intorno affiorano anche resti di murature importanti, forse dei templi. Ancora una grande necropoli a testimoniare che un tempo questa zona era molto popolata, poi qualcosa di grave deve essere successo, guerre o epidemie o più facilmente le condizioni ambientali si sono modificate velocemente riducendo le risorse idriche, guardando la grande desolazione che ci circonda rimane difficile immaginare grandi insediamenti umani nel passato. La desertificazione è un processo assai veloce e in queste settimane Siwane tante cose ci hanno fatto capire che l’azione dell’uomo, anche quella apparentemente più marginale, può incidere in maniera profonda sui delicati equilibri idrici di questo ambiente, rendendo sterili e inabitabili aree fertili, ma anche come abbiamo visto poco fa rendere fertili zone aride. Sicuramente le dinamiche del pianeta, così delicate e collegate fra di loro, in questi ambienti estremi si leggono meglio e questi luoghi aiutano a ragionare in maniera globale valutando sempre causa ed effetto di ogni azione. È un po’ di giorni che penso, senza avere nessun elemento che me ne dia fondamento, a la causa della scomparsa di questa grande popolazione che gli storici mi sembra di capire collegano alla fine dell’Impero Romani, e se fosse legata a un aumento spropositato della popolazione? Magari legato a un improvviso incremento collegato con la famosa armata di Cambise che invece di essere scomparsa nelle sabbie del Sahara come ci racconta la storia, si era pacificamente dispersa nella fertile depressione Siwana e che magari nei secoli a seguire, anche a causa delle richieste di derrate alimentari da parte di Roma, l’agricoltura si sia sviluppata così tanto da rendere sterile questa grande area, seguendo le stesse dinamiche che oggi stanno portando ad aumentare la salinità del lago di Siwa? Tutte domande che vorrei fare a chi studia la storia e la geologia di queste terre e spero in futuro di averne occasione.
Ritornando verso Ovest si entra nel villaggio beduino di Ain Safi, i Siwani rispettano i Beduini ma ci tengano a marcare le differenze e ha non mischiare le etnie e assolutamente non gradirebbero una comunità beduina all’interno dell’oasi. I Siwani sono di ceppo Amazigh (berbero) e i beduini sono di origine Araba, i primi da secoli contadini e stanziali, i secondi da altrettanto tempo pastori e nomadi; e da che mondo è mondo contadini e pastori non si sono mai potuti vede’, che sia all’Elba, in Corsica, in Sardegna, sull’Atlas o nel Rif, nella steppa di Sirte o nella depressione di Siwa, la solfa è sempre quella. I coltivi sono un pascolo ambito per le greggi e i contadini hanno sempre visto i pastori come vagabondi e potenziali razziatori.
È un insediamento recente di poche case, quasi tutte di fango e sassi, che sorge in una zona estremamente brulla, nonostante ci sia una conduttura che porta l’acqua non ci sono ne frutteti ne orti, fra le abitazioni ci sono un paio di essenziali fonti (tubo e rubinetto) per l’uso domestico. Si riconosce subito un villaggio beduino, ci sono le greggi di capre e anche qualche pecora, le donne sono velate ma vestite in maniera più povera rispetto alle Siwane e si muovono nel vento che alza la polvere e fa svolazzare le loro vesti. Si vede solo un uomo nel villaggio e sembra felice della sua scelta di diventare un beduino stanziale, anche perché si sta costruendo una casa con i blocchetti di pietra bianca. I beduini a differenza dei Siwani, che sono contadini e preferiscono lavori statici, non sanno e non amano coltivare la terra e ormai impossibilitati alla vita nomade ambiscono a fare tassisti o camionisti, attività che più si confanno alla loro indole errante. Come avevamo già visto in Libia e nella zona mediterranea dell’Egitto, i governanti non amano le popolazioni nomadi e spingono in tutti i modi per farle diventare stanziali con incentivi e sovvenzioni per costruire villaggi e deterrenti e limitazioni per scoraggiare, se non addirittura proibire, la vita nomade.
A poca distanza dal villaggio c’è una micro oasi, una specie di stagno dove si concentra la vita animale, ci sono tanti volatili e per la prima volta vedo gli ibis neri, c’è anche un grande falco che volteggia sullo stagno a caccia di prede, ai margini della pozza pascolano gli asini dei beduini con le zampe anteriori legate fra loro, come usavano fare anche in Libia, dentro il laghetto c’è anche un isolotto con un po’ di arbusti secchi e due dromedari, anche loro con le zampe legate, che mangiano polvere e legna secca. È molto bella questa macchia di verde in mezzo al niente brulicante di vita, si avanza ancora un centinaio di metri e ci fermiamo a una sorgente caldissima dove da un tubo bucato esce una nuvola di vapore, l’acqua sgorga dal terreno con una grande potenza e fra i giunchi si vedono gorgogliare le polle, anche qui ci sono tante canne, giunchi e piccoli tamerici e un rigagnolo di acqua calda e rossa che va ad alimentare il vicino stagno. Tornati sulla strada asfaltata avanziamo nuovamente verso est fino ad arrivare a un controllo di polizia posizionato sul limite percorribile senza l’autorizzazione per attraversare il deserto, da qui inizia la pista che attraverso 350 chilometri di Sahara conduce fino all’oasi di Baharyya. Roxy si prende un po’ di informazioni e poi si ritorna verso ovest, gironzolando un po’ tra deserto e palmeti e fermandosi di tanto in tanto a vedere acque sorgive a volte fredde a volte calde, che alimentano le piscine che servono per irrigare. Si incontrano delle piccole oasi veramente rigogliose, con grandi palme circondate da fitti canneti che spesso nascondono le vasche, ci sono anche pozze scavate di recente con gli escavatori e canali di drenaggio che evidenziano uno strato di argilla grigia che segna il limite delle acque superficiali, come avevo già visto nella zona del lago di Malaki, con questi canali profondi invece che drenare il terreno si rischia di portarci dentro il sale e renderlo sterile. Speriamo che la saggezza antica dei coltivatori non venga spazzata via da mezzi meccanici e bramosia; e che al contempo invece si sposi con i nuovi sistemi di irrigazione a goccia, come fa ben sperare una piccola vasca tradizionale di acqua fresca e pulitissima, che collegata ad un impianto a goccia irriga un coltivo. Ci fermiamo a vedere un grande impianto di pompaggio sul lago di Zaytun, anche qui ci sono tanti pesci, il lago è già in gran parte secco e bordato da grandi placche di sale, verso l’interno si estende in un suggestivo scenario formato dal fondo di fango salmastro arricciolato in forme geometriche e poi in pozze sempre più ampie che regalano effetti miraggio, fino a perdersi nell’orizzonte di dune sabbiose. Rientriamo verso Siwa ripassando dalla strada che attraversa il lago salato, è uno dei tratti più belli con gli isolotti di fango che sbucano da tutte le parti e i grandi cristalli di sale che si addensano sul terreno ai margini dell’acqua. A Roxi il lago salato proprio non piace, lo considera inutile e dannoso, gli spiego che lo trovo bellissimo e che mi ricorda il mare e che se fossi un Siwano organizzerei dei giri con le canoe nei laghi principali per visitare i tanti isolotti, mi dice perplesso che non avrei concorrenza perché nessun Siwano farebbe mai una cosa così stupida, anche in questa conversazione ci ritrovo qualcosa di familiare e già sentito.
Rientrati a Siwa, tempo di mangiare qualcosa, andiamo a vedere un bel tramonto da una nuova angolatura e poi si passa a salutare Mohamed nel suo studio dentro la vecchia città.

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Luned?¨ 23 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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È Piovuto
È piovuto veramente e stamattina le vie sono con le pozzanghere e senza polvere, Shali è piena di magia con le mura bagnate che riflettono la luce, i colori dei bastioni si sono saturati con la pioggia e le mura da biancastre sono diventate giallo ocra, acquistando però anche tante sfumature, i bordi superiori delle pareti impregnati d’acqua sono diventati marroni e disegnano una frastagliata ondulata cornice su tutto il complesso. Entrando dentro Shali si ha la percezione netta della sua fragilità e del suo continuo cangiare, è bastata una pioggerellina di qualche ora per sciogliere un po’ di kirshif e plasmarlo in nuove forme, sempre più fantasmagoriche e lontane dalla sagoma  originale. Anche il grande minareto della vecchia moschea oggi è diverso, le sue alte pareti irregolari e sinuose hanno colori più marcati che ne esaltano la forma originale, il minareto sale verso il cielo come il collo di un enorme giraffa con il mantello pezzato di sale lucente e fango intriso di acqua. Mentre si cammina Shali si sgretola e si sfalda sotto i piedi, le murature sono intrise d’acqua e si sciolgono all’interno, i ruderi ormai senza più tetti sono destinati a diventare una collina informe di fango, se piovesse intensamente per un paio di giorni sarebbe la fine. La millenaria fortezza ormai senza manutenzione rischia di scomparire per sempre e quello che è peggio è che l’unica preoccupazione della gente sia quella di cementificarne il circondario, il rischio di venire qui fra qualche anno e trovare una collina informe circondata da palazzine in cemento armato è purtroppo assai verosimile.
L’aria è di un fresco pungente, ma la pioggia ha lavato anche il cielo e il panorama dal culmine della fortezza è superbo in tutte le direzioni, sembra tutto più vicino del solito. Appollaiato sul moncone di un trave di palma, un falco immobilizzato dal freddo mi osserva con sguardo da saggio, anche i piccoli “mola mola” sono accorsi dentro le mura a visionare gli effetti della pioggia dentro Shali. La luce, i colori e le forme stamani sono belli più che mai dentro la fortezza di fango e sale, che oggi più che mai ci ricorda la natura transitoria e mutante di ogni cosa.
Fa veramente freddo e per scaldarci entriamo in un barettino per prendere un the caldo, è il ritrovo dei poliziotti che se ne stanno tutti qui imboscati, a Siwa si fanno vedere poco, solo quando arrivano i gruppi dei turisti organizzati. I Siwani non li hanno in grande simpatia, i militari sono tutti egiziani e li considerano stranieri, un vero Siwano non farebbe mai il poliziotto e a Siwa comunque, nonostante siano presenti tutte le varie cariche dello stato, l’autorità più importante è ancora lo sceicco.
Ritorniamo nella zona degli scheletri vista ieri, sono bastati pochi millimetri di pioggia e quello che ieri era un terreno crocchiante oggi è un pantano rosso e appiccicoso. La necropoli ha diversi pozzi che permettono di entrare nelle sepolture, fa impressione vedere questi scheletri integri e dalle ossa si vede che erano uomini piuttosto alti, i tanti crani dopo un po’ che ci sei in mezzo non fanno più impressione, diventano una delle tante forme della natura, come le rocce o i blocchi di sale, quello che fa impressione è quanta differenza ci sia fra un cranio e l’altro. Dal palmeto arriva un Siwano con un carretto, è gentile e curioso,  gli chiedo delle tombe e del paese ma mi dice solo che sono morti tanto tempo fa e che il paese è abbandonato, ride perplesso delle mie domande idiote, come se non si vedesse che questi sono morti e che il paese è abbandonato. Il concetto di storia qui, ma un po’ in tutto il Nord Africa, è diverso dal nostro, quello che conta è il presente, il passato è come un unico grande periodo che va da ieri in poi e il futuro lo conosce solo Allah. Questa semplificazione storica che nell’ignorare il passato accomuna tutti è tipica della cultura islamica, secondo me è uno degli aspetti che ne spiega meglio la diffusione.
È entrato un vento teso e secco che sta asciugando rapidamente tutto, il sole fa brillare le grandi piastre bianche di sale che ricoprono le pozze prima del “mare di fango” da cui spuntano come bolle di pongo color vinaccia, degli scivolosi accumuli di argilla. Ritorniamo nel paese fantasma le cui mura contorte e forate sfidano la fisica, i cani codardi scappano tutti grandi e piccini, meno uno, il cucciolo dormiente, più coraggioso e sereno o forse solo più pigro, che ignorando la nostra presenza al ridosso di un muretto si gode il sole caldo con gli occhi chiusi e il sorriso stampato sul musetto. Il lago da ieri a oggi ha cambiato totalmente aspetto, il vento teso ha alzato le onde che biancheggiano energiche spinte dal ponente. Tornando indietro raggiungiano con una stradina a pelo d’acqua un isolotto verdeggiante ricco di palme rigogliose, dentro è come una giungla con tanti giunchi e canne, all’interno dell’isola-oasi c’è una piscina di acqua calda alimentata da una vigorosa sorgente  che sale bolleggiando fino alla superficie, dando movimento ai toni cangianti di verde e di blu della massa liquida, la vasca alimenta dei canali che irrigano la parte ancora coltivata dove ci sono delle palme stracariche di datteri, è un isolotto colorato e vitale questo, ci sono tanti uccelli, libellule e nei canali più profondi tanti pesci, la vegetazione fitta ripara dal vento, fa caldo e regna il silenzio. Ritornando allo scoperto si vede che il vento sta facendo avanzare delle nuvole di sabbia dal deserto, in poco tempo il cielo diventa fosco e ritorna il freddo.
Al tramonto il cielo è una coltre di polvere infuocata, ma poi tutto si ferma e si accende una grande stellata.  
 
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Domenica 22 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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Gli scheletri misteriosi e l’Insegnante di Marsa Matruh
La mattina se ne va a internet fra Viottolo e invio di bozze a riviste, poi nel pomeriggio si va a fare un giro verso il lago principale. Appena fuori dal paese, vicino a una sorgente incontriamo dei bimbi che stanno caricando l’acqua sui carretti per portarla a casa, mentre altri si lavano nella vasca di acqua calda alimentata dalla stessa sorgente. Avvicinandosi al lago le palme lasciano il posto a orti circondati da canali salmastri, è un ambiente ardito per coltivare, fatto di terreno salmastro e poggioli di terra rossa da dove si vede il lago con gli isolotti sterili e le dune del deserto sullo sfondo. È una giornata fredda e in giro non c’è nessuno, avanzando fra affioramenti di rocce rosse e piccoli laghetti ricoperti da piastre di sale, arriviamo a una piccola collina brulla con tanti loculi, è una necropoli che conserva tanti scheletri, si sviluppa su più livelli e le sepolture sono diverse decine, come sempre è difficile dare una datazione, il deserto e il sale rallentano tantissimo i tempi di decomposizione sui cadaveri rendendo simili corpi che hanno qualche decennio con cadaveri millenari, ma i loculi scavati nella pietra fanno pensare ad epoche precedenti a quella islamica o perlomeno a retaggi di precedenti culti dei defunti. È un sito in completo abbandono e i tanti teschi sparsi intorno alle sepolture fanno pensare più che a scavi di studio a profanazioni o riti di magia nera, il posto è molto interessante e ci voglio tornare per approfondire. Intanto continuiamo a perlustrare, a qualche centinaio di metri in direzione del grande “Birket”c’è un’isola con un villaggio in kirshif abbandonato, per arrivarci si attraversa un tratto di  lago secco il cui basso fondale si è trasformato in un deserto di incartapecoriti lastroni di fango e sale. L’isola fantasma è abitata da un numeroso branco di cani paurosi e afoni, come tutti quelli fino ad ora incontrati in Africa. Il paese abbandonato è spettrale, dei tetti è rimasto solo il resto di qualche trave sbiancato fatto con i tronchi di palma che sbucano dai muri sciolti e deformati e pareti dalle forme incredibili. Era un agglomerato piuttosto grande, con almeno una cinquantina di case e anche qui è difficile capire quando è stato costruito e quando abbandonato, quello che si capisce bene osservando i tronchi secchi delle palme in mezzo all’acqua, è che il livello del lago si è elevato di recente. La luce ovattata, il vento freddo e i nuvoloni grigi che si stanno addensando verso il deserto Libico, danno a questa laguna un aspetto primordiale, sembra quasi che debba apparire un dinosauro da un momento all’altro, invece arriva un tramonto infuocato con il sole che buca le nuvole e trasforma il grigio in arancione prima di scomparire dietro l’Adrar Amellal. Come succede quasi sempre rientriamo che è notte, comunque in tempo per incontrarci con Athar, l’insegnate di inglese delle scuole medie di Siwa con cui abbiamo un appuntamento. Silvia e Daniela si sono date un gran daffare cercando la miglior soluzione per stabilire un contatto di Base Elba a Siwa e dopo che Silvia ha sondato la fattibilità con i dirigenti scolastici locali e con gli insegnanti, abbiamo fissato questo incontro. Athar è di Marsa Matruh, è molto giovane ed è grande amica della sua coetanea Daniela, è una ragazza intraprendente e con idee molto aperte, nonostante l’abito rigorosamente islamico induca a pensare diversamente. Non ha nessuna intenzione di sposarsi, vuole studiare, insegnare e viaggiare. Le faccio leggere il progetto di “Base Elba” in arabo e un articolo che ha pubblicato su di noi un giornale Cairota e qui, dimostrando la vocazione per l’insegnamento, si mette a correggere anche l’articolo dicendo che parla molto bene di noi, ma ci sono tanti errori grammaticali nel testo. La sua famiglia vorrebbe che insegnasse in una scuola più vicina a Matruh ma lei vuole restare qui perché vuole dare un opportunità a questi ragazzi a cui è affezionata e poi pensa che i suoi allievi vivrebbero questo come un tradimento. Il progetto le piace ed è molto contenta di fare da referente per Siwa per iniziare a stabilire un primo contatto. Con la ferma intenzione di arrivare in tempi ragionevolmente brevi a uno scambio di visite, ci lasciamo con l’intento di risentirci a brevissimo e se fosse il caso di andare giovedì insieme a Matruh, dove c’è la sede del governatorato a cui fa capo la scuola di Siwa, per discutere del progetto con i dirigenti della regione. Mi piace il senso pratico e la voglia di concretizzare con dei fatti di queste donne e ripenso alle analisi lucide e spietate che Athar ha fatto sulla società egiziana, sulla politica, l’istruzione, la condizione delle donne, l’islam, mi piacerebbe tantissimo che Athar venisse all’Isola, anche per dare un metro di paragone a tante sue coetanee che si credono emancipate solo perché vanno in giro con le mutande più in su dei pantaloni e si drogano con regolarità. Un confronto di culture e soprattutto di persone che vada oltre gli schemi precostituiti e i giudizi e per questa opportunità devo ringraziare tantissimo Silvia e Daniela, che oltre a stabilire il contatto, mi hanno permesso questo dialogo altrimenti impossibile a causa della mia repulsione verso questa antipatica lingua anglofona, che però nel mondo quasi tutti parlano.  
È già domani da un bel po’ quando si esce da internet e sta succedendo una cosa incredibile: piove a Siwa, è una pioggerellina rada e sottile ma per questa oasi è un evento straordinario.
 
   

Sabato 21 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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Motopia, la Casa della Fantasia
È mattina presto, dormono tutti nella quiete del palmeto solo i gatti sono già svegli, è un’inizio di primavera di solleone e palme in fiore. Attraversiamo l’oasi quieta e laboriosa fino a Dakrur,
cerchiamo e troviamo la scuola della libertà, un arco di foglie di palme si apre su un recinto di colore e una casa di sale senza porte, è il trionfo della fantasia, qui nella rigida Siwa tra tradizioni cupe, regime e islam, a contrasto risplende libera Motopia, la scuola voluta da Mohamed Fawzy, un inno di libertà nella polvere, un apparente caos che emana l’armonia nel suo denso accumulo di sparpagliata creatività, mille disegni e sculture di plastica riciclata, legno, terracotta e filo di rame e di ferro, capanne di fronde di palma, letti, amache, antenne, reti, animali, libri, cd, quaderni, computer, lucidi e mostri benevoli. Non c’è nessuno, si gironzola fra scheletrici Don Chisciotte di filo di rame, disegni a china, acquarelli e totem di bidoni e legni, il fruscio tintinnante delle girandole ombrellate e centinaia di origami multicolori che balzellano appesi al soffitto e poi lenzuoli dipinti con decine di omini dalle mani enormi e tante foto e collage con dentro di tutto un po’. Arriva Mohamed trafelato, era andato a rimediare un po’ di materiale per fare il tetto alla biblioteca di Motopia, è dispiaciuto che non ci sono bimbi ma a quest’ora sono tutti a lavoro, oggi è giorno di festa a scuola e i bimbi aiutano i genitori. Motopia non è ben vista dalla maggior parte dei genitori e nemmeno dalla scuola, che sia Coranica o di stato, ma i bimbi ci vogliono venire e spesso ci vengono di nascosto, per questo è sempre aperta, tutti possono venire quando e con chi vogliono e qui si sta tutti insieme maschi e femmine. Mohamed è una figura leggera, ma ha potenza, coraggio e carisma ed è riuscito ad ottenere la stima e la fiducia anche di un po’ di genitori che sono felici di mandare i figli qui e in altre attività fatte da Mohamed, come andare coi bimbi a dormire nelle dune del deserto… che spettacolo che sarebbe portare qui i bimbi Elbani, sarebbe un’esperienza indimenticabile e lo sarebbe anche per i “grandi” Isolani che le cose le vogliono fa’ ma solo in teoria, sempre frenati da mille paure e finti problemi, ma intanto il contatto è stabilito, questo è uno di quegli incontri speciali che aprono prospettive future importanti.
C’è una festa nella zona del villaggio di capanne costruito sul fianco ovest della collina di Dakrur, quello della grande ricorrenza di Siyaha, ci sono un centinaio di persone, le donne coi bimbi stanno in basso dove ci sono i pentoloni del cibo e gli uomini in alto al fresco delle costruzioni.
Si gironzola per l’oasi fra laghetti e coltivi incontrando tanti bimbi che lavorano e che giocano, facciamo anche un tratto su un carretto guidato da un ragazzino ciccione che ci offre un passaggio. Nel piccolo villaggio ad est delle montagna dei fantasmi, si incontra una bimba pittrice che sta disegnando su un cartone inzuppando uno stecco in un bussolotto di acqua sporca di vernice, è una delle bimbe che frequenta Motopia, insieme a lei il fratellino piccolo e due sorelline più grandi. Mi fermo un po’ a giocare con i colori e piano piano si diventa sempre di più, dietro ogni bimba c’è sempre una bimba più grande, poi una ragazzina e un’altra ancora più grande, un effetto matrioska che finisce nella penombra dentro lo sguardo di una donna velata.
Nella zona della festa c’è una partita di calcio fra donne, sono coreografiche con i veli sventolanti ma quando ci vedono smettono di giocare e fuggono via. La festa sta finendo e le persone cominciano ad andare via salendo sui cassoni dei pik-up, un gruppo di ragazzine si avvicina gioioso, sono incuriosite da Serena vorrebbero farsi qualche foto ma la loro esuberanza è bruscamente interrotta da un paio di adolescenti dal pelo vano, che seri e bacchettoni le mandano via urlando, completamente assorti nel ruolo di castrati e castratori celebrali, il vuoto alienato e severo dei loro sguardi mi fa capire ancora di più le difficoltà incontrate da Fawzy e la sua determinazione.
La via che da Dakrur conduce a Siwa regala sempre grandi scorci di poesia, specialmente se ci si dilunga nei vicoli laterali dove tutto è ancora più morbido e silenzioso e sempre uguale a se stesso. Nella piazza del paese invece la quiete è turbata da due slavate befane che si sono sedute in un cafè a bordo strada esponendo scolli per qui sconcissimi e stanno mandando in crisi il proverbiale autocontrollo dei Siwani, che oscillano con malcelata indifferenza con carretti, moto e biciclette, sfiorando il marciapiede dove sono in visione le pallide membra.
Ritorniamo a Dakrur per il tramonto e poi si ripassa dalla casa della fantasia dove nel frattempo qualcuno è stato a giocare…il sogno di Mohamed è una realtà, una gran bella realtà.
   

Venerd?¨ 20 marzo 2009 Oasi di Siwa ‚Äì Egitto

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Forma e Sostanza
Manca un pezzo di Siwa stamani, ma a breve il vecchio edificio in kirshif verrà sostituito con un palazzo di tre piani come quello degli Albini che devasta la piazzetta di Siwa con la sua architettura scellerata, con le pareti a vetrata che espongono una serie di armadi catafalco dai colori luttuosi. Gli Albini sono una famiglia di ricchi Siwani, con la pelle rosa e i capelli bianchi, che con il sole hanno un rapporto simile ai pipistrelli, sono commercianti di mobili e hanno costruito questa palazzina che fa il verso ai metropolitani grattacieli, è la massima schifezza, specialmente la notte quando con le vetrate illuminate devasta la poesia architettonica del villaggio. Ma come dice Hssein detto “Ggraziaaa” un ragazzo Siwano che bazzica il fonduk alla ricerca di gente da accompagnare con il suo scarcassato fuoristrada “ bellissimo!” Scambiamo due opinioni sui nuovi palazzi ma per lui, come per la maggior parte dei Siwani, questi palazzi moderni sono motivo di vanto e orgoglio e tutti ne vorrebbero costruire  “new Siwa very good , kirshif no good, cemento moolto bellissimo,turist very good , money very good, old Siwa finish, future very good” Se continua così Shali fra qualche anno sarà circondata da una corona di palazzi, a Hssein lo capisco la voglia di moderno e di nuovo è sempre tanta, soprattutto quando cominci a vedere cose mai viste, mi ricordo che  da bimbo ero estasiato dai grattacieli di Portoferraio li vedevo giganteschi e potenti sapevano di tecnologico, mi piaceva sopratutto il grande cartellone pubblicitario che si vedeva dal mare perché sembrava di esse’ in un posto importante come quelli che vedevi dentro la televisione. A ripensarci ora mi viene i brividi, per costruire quelle schifezze che tutte le volte che arrivi a Portoferraio con il traghetto rovinano la magia della meravigliosa panoramica sulle Fortezze Medicee di Cosmopoli, hanno distrutto anche la Fortezza Francese di Forte Saint Cloud… i pensieri mi saltellano continuamente fra presente, passato e futuro, mi sembra che il mondo tutto alla fine sia una ripetizione delle stesse dinamiche, cambiano i luoghi, i tempi e le dimensioni ma la trama è sempre un po’ la stessa, in un’illusione di cambiamento si tende ad omologare sempre tutto e tutti, che questo sia voluto e serva per avere un controllo globale delle masse è più che un pensiero.
Vado in ferramenta a comprare un pennello per pulire il computer che dopo la ventolata di ieri è tutto pieno di sabbia, il negozio è gestito da un Hajj rigoroso, con la classica barba da uomo di moschea, che fedele alla sua immagine di uomo retto, prima di vendermi il pennello mi illustra tutti i modelli e i relativi prezzi.
Il fondouk dei turisti indipendenti è un mondo a se stante, lontano dal turismo organizzato ma anche dalla quotidianità di Siwa, Gandalf il Grigio è quello che gira di più, ma gli altri passano la maggior parte del tempo in questo ostello, mediamente stanno un paio di giorni. I nuovi arrivi sono una coppia di ragazzi americani tutti tatuati che passano il tempo a farsi le treccine, poi c’è Rastasonno un incrocio fra Bob Marley e Pupo, che passa le giornate a dormire sotto le palme e Cannaalvento la sua magrissima compagna sempre infreddolita e fasciata da una sciarpa più grande di lei, che nell’attesa vana del risveglio del treccioso nano, ascolta le ininterrotte chiacchiere di una cinese americana che fa parte di una piccola comitiva multietnica di studenti d’oltreoceano. Permangono la Lollocrucca, Nasorifatto (una inglese di mezza età che non sopporta le mosche) e Sir Sorry il marito, che si scusa con tutti per la moglie che un sopporta le mosche. Nonostante faccia di tutto per muoversi nell’anonimato, spicca il distinto Sir Culay, un aristocratico finocchio inglese che si accompagna con uno stralunato compatriota mascherato da Lawrence d’Arabia, chiude il quadro Golden Durbans un egiziano con un inquietante sorriso di denti d’oro che con un’espressione fra il beato e l’arrapato lancia sguardi sognanti a tutte le donne del fonduk. Questo ostello è frequentato da un micromondo vario, colorato e multietnico, che vive come in una bolla estranea a quello che c’è intorno, li rispetto ma non è il mio modo di viaggiare.
Nel tardo pomeriggio i vicoli dell’oasi acquistano una dimensione di fiaba e dalla veranda di un rudere mi godo i tanti carretti guidati dai bimbi che rientrano con le donne andate a chiacchierare nelle case delle parenti e poi con Serena ci spostiamo nella piazza della moschea principale, vicino alla tomba di Sidi Suleiman, un famoso Marabutto Sufi molto venerato dalla gente dell’oasi. A quest’ora qui si ritrovano gli anziani a chiacchierare, mi piace osservarli mentre discutono disegnando figure astratte nella sabbia con le mani oppure con i sassolini, ogni movimento sembra studiato come a fare parte di un rituale, chissà se alcuni di loro quando erano più giovani sono stati Mugzzabin i danzatori Sufi che per mezzo di balli e di canti ipnotici “Zikr” raggiungono uno stato di trance con cui, dicono, si uniscono ad Allah. C’è chi dice che la forma è anche sostanza, sicuramente la scenografia, i larghi camicioni, le barbe e le movenze lente e danzate aiutano questi uomini a rivestirsi di un alone di saggezza.
Ci spostiamo verso Shali da un vicolo secondario, come per magia si materializza una principessina scalza, è piccola piccola avrà tre anni, ma è già velata, è vestita elegantemente con tanto di ricami dorati e senza emettere suono, con gli occhi ci invita a seguirla nel vicolo opposto fino ad indicarci il campanile di Shali, ci congeda con un sorriso accennato e con passo leggero scompare nel vicolo. La fortezza di sale è sempre meravigliosa e le sue rovine deformate dall’erosione assumono fogge impossibili da descrivere, Shali è un delirio di figure cangianti che ti circonda, i mille volti che si disegnano fra ombre, porte e finestre, sembrano osservarti in ogni mossa e i ruderi più imponenti fanno il verso alle fortezze della fiabe. Uno degli scorci che preferisco conserva una torre che nella forma ricorda la Torre di San Giovanni in Campo e i due edifici dovrebbero essere più o meno dello stesso periodo, due fortezze costruite per difendersi dalle armate islamiche, una di sale, una di granito, una circondata dalla sabbia, l’altra dal mare, una somiglianza di forma e una sostanziale affinità storica.
Il tramonto si avvicina adornato da un cielo di nuvole barocche che fa da sfondo superbo al rientro delle garzette e poi, dopo aver dato sfoggio di potenza perforando con possenti lame di luce le compatte nuvole che fasciavano il cielo ad occidente, il sole posa dietro le dune.
Con l’oscurità Shali acquista magia, fra i bastioni della fortezza di sale filtra una luce, dentro c’è un uomo che disegna con una biro, finalmente incontro Mohammed l’insegnante artista di cui mi aveva parlato con toni entusiasti il francese, ci accoglie con entusiasmo all’interno del suo “studio” ha un volto simpatico, assomiglia a un giovane gufo allegro. I suoi disegni sono originali e complessi, contengono mille occhi e volti che sbucano da tutti gli angoli, mi parla dei suoi progetti, di Motopia e della Casa della Fantasia dove i bimbi si ritrovano per fare arte, si chiacchiera un po’ e ci si da appuntamento a domani.