AuthorUmberto

Marted?¨ 10 marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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L’oasi delle “Lampate delle sabbia”
Giornata ancora più bella di ieri, andiamo in paese per la colazione che qui usa fare abbondante e da consumare con calma come piace a me, mi garbano i ritmi lenti di Siwa e anche l’eccelente qualità di quello che si mangia, la gente delle botteghe è onesta non fa distinguo fra chi è residente e chi no, lo si capisce anche dal prezzo del pane: con un pound (circa 10 centesimi di Euro) ti danno venti pani. Con il convio nello zaino ci si avvia verso il Jebel Mawta “la montagna dei morti”, che dista da qui circa tre chilometri, per arrivarci si attraversa il lato nord del villaggio dove le case tradizionali stanno cedendo il posto alle nuove abitazioni in cemento e mattoni cotti, che ormai tutti i Siwani vogliono. È difficile vedere adulti intorno alle case a quest’ora, gli uomini sono nei campi e le donne stanno in casa, però ci sono tanti bimbi che giocano nelle corti, finché non subentrano fidanzamenti (per le bimbe di solito prima dei dieci anni) maschi e femmine sono liberi di giocare insieme, poi all’improvviso tutto cambia e con l’arrivo dei veli censori si entra di botto nel rigido e bigotto mondo degli adulti. Le case si diradano e aumentano gli orti, da dietro un cespuglio di palme cresciuto a ridosso di un laghetto alimentato da una sorgente termale, compare la sagoma spoglia del Jebel Mawta. Le pendici della piccola collina sono tutte forate, ci sono decine e decine di tombe, alcune, le più elaborate, pur essendo molto più piccole e modeste, ricordano le facciate dei sepolcri di Petra la mitica città dei Nabatei. Cominciamo a gironzolare dentro le caverne, spesso queste antiche tombe hanno diverse stanze e a volte sono in comunicazione fra loro per mezzo di stretti passaggi, probabilmente scavate in epoche successive, forse durante l’ultima guerra mondiale quando la gente per la paura dei bombardamenti su Shali si trasferì qui trasformandole in abitazioni e i soffitti e le pareti annerite testimoniano i tanti focolari che vi sono stati accesi. Per più di tre anni  circa quattromila Siwani hanno abitato in questa necropoli abbandonata che ormai da secoli era stata dimenticata, infatti con la conversione all’Islam e il conseguente abbandono degli antichi culti i Siwani in pochi secoli persero la memoria di queste antiche sepolture che furono riscoperte proprio a causa della guerra. Purtroppo oltre che annerite le tombe furono anche rovinate per staccare le pitture dalle pareti che poi venivano vendute ai militari inglesi tutti  entusiasti per questi souvenir. Non tutte le tombe sono aperte, mi trovo davanti una porta di metallo chiusa con un lucchettone  è una della quattro tombe più famose del sito quelle che conservano le pitture più belle, e per entrare bisogna fare i biglietti, l’ingresso del sito si trova sul lato opposto a noi, dalla parte della strada che arriva a Siwa da Marsa Matrouh. Man mano che si sale ci rende conto di quanto sia vasta la necropoli, secondo gli archeologi che hanno studiato il sito le prime sepolture risalgono alla XXVI dinastia e le tombe più ricche risalgono al periodo Tolemaico e Romano.
Fatti i biglietti i guardiani gentili ma rispettosi delle consegne ci accompagnano chiedendomi di non fare foto, nell’aprire le tombe si sente la voglia di mostrare qualcosa di cui sono fieri, è lontano il mondo dei guardiani bashishari della zona delle Piramidi, qui si respira l’orgoglio e il senso di appartenenza al territorio, questi Amazigh delle sabbie somigliano tanto alle “lampate di scoglio” (Elbani Doc per i continentali) nella consapevolezza compiaciuta di essere nati in un luogo eccezionale. La tomba con i dipinti più belli è quella di un ricco greco del II secolo a.c. un certo Si Amun, ma anche quella di Mesu-Isis più o meno dello stesso periodo ha colori vivi, in particolare un cobra blu che sembra appena dipinto, peggio conservate sono quelle di Niperpathot un sacerdote della XXVI dinastia e la tomba detta del Coccodrillo risalente al periodo Tolemaico Romano, comunque per quanto affascinanti  niente di paragonabile alla grandiosità e perfezione dei dipinti delle grandi Mastaba dell’Antico Regno viste nella zona di Saqqara.
Salutati i guardiani, si continua a visitare la necropoli fino a salire sulla vetta del Mawta dove, complice la bella giornata, il panorama è superbo: spicca il Tempio dell’Oracolo che galleggia come un’astronave sopra le palme della grande oasi Siwana delimitata a Est dal lago di Aghurmi che si perde fra riflessi di sale e miraggi in direzione del villaggio abbandonato di Zeitun e ad ovest dal lago di Siwa dalle cui acque si erge massiccio l’Adrar Amellal, più vicini a noi a meridione le forme indefinibili di Shali e poco più ad est i quattro picchi spogli del Jebel Dakrur, il tutto incorniciato dalle dune dorate del grande Mare di Sabbia che si perdono nell’orizzonte in direzione della Libia. A Nord della collina c’è una piccola base dell’esercito Egiziano che da qui si vede bene,  più che un insediamento militare ha l’aspetto di un museo, specialmente per i cannoni riverniciati che sembrano quelli lasciati qui alla fine della guerra dai militari europei. Per i Siwani che consideravano stranieri anche gli Egiziani deve essere stato uno shock trovarsi all’improvviso invasi da popoli di cui ignoravano anche l’esistenza, i primi ad arrivare furono gli Italiani che a quanto ci hanno detto e da quello che ho letto nel libro di Fathi Malim, hanno però lasciato un buon ricordo se si esclude qualche episodio, così non si può dire degli inglesi che, sempre stando ai racconti Siwani, si dimostrarono assai poco gentili con la gente dell’oasi e soprattutto furono artefici di un episodio che fece arrabbiare molto la gente del posto, che si verificò quando i britannici preso il posto degli italiani, incendiarono e distrussero tutti i mezzi e le attrezzature che le truppe italiche avevano lasciato e da cui i Siwani avrebbero potuto trarre tanto beneficio.
Mentre si scende da questa collina-necropoli che vista dall’alto sembra un grande termitaio, ripenso ai soldati italiani spediti qui durante la guerra d’Africa, a quali emozioni e scoperte andavano incontro questi ragazzi che spesso non avevano  nemmeno vent’anni quando si trovavano di fronte a culture e paesaggi così diversi da quelli di provenienza e a come le guerre per quanto prima sciagura del mondo, siano state comunque anche mezzo di scoperta, conoscenza e confronto proprio per quella parte di viaggio insita nella natura di ogni conflitto.
Prima di entrare nell’oasi assito a una scena cruda e impietosa: un ciuco morente con un vecchio che bastona l’animale ormai agonizzante come a voler bastonare la morte che anche per se sente vicina, nel suo sguardo luciferino e nel ghigno severo l’illusione vana di voler finire lui la Nera Signora, quella stronza e immortale che prima o poi viene a prendere tutti, un’immagine metafora spietata e illuminante di quanto sia stupida, vana e bugiarda la violenza.
Si entra dentro l’oasi che è un labirinto di vie per carretti che girano intorno ai canali e di viottolini che li attraversano grazie a ponticelli fatti di tronco di palma, ci sono tante vasche che vengono usate per irrigare e per lavarsi, ne spuntano da tutte le parti, spesso sono piene di acqua calda e le bollicine che salgono dal fondo fanno capire che si tratta di sorgenti termali, le tante proprietà che dividono il palmeto sono delimitate da fitte staccionate a cui si accede da massicci portoni fatti con tavoloni dello stesso materiale, è almeno dal tempo dei Faraoni che le palme da dattero rappresentano la risorsa più importante di Siwa e nonostante lo sviluppo del turismo e l’installazione nell’oasi di impianti per l’imbottigliamento dell’acqua, è ancora così.
Un grande canale per drenare il terreno scavato con uno scavatore, ci fa ritornare indietro per un tratto, si prosegue per i viottolini ombreggiati fino a sbucare ai margini del villaggio Aghurmi e poi arrivare sul grande lago orientale dell’oasi, che è preceduto da pozze salmastre e canali dove ci sono tanti pesciolini. L’acqua è così salata che i giunchi dentro i fossi hanno fini steli rivestiti di cristallizazioni bianche, mentre si cammina sui grandi piastroni di fango e sale il terreno scricchiola sotto i piedi riportandomi alla mente il letto secco del lago Mandara nel deserto di Ubari in Libia. I Siwani non danno nessuna importanza al lago, lo considerano sterile e inutile e lo usano come cimitero per gli animali come confermano le tante carcasse di animali in salamoia, fra cui uno spettrale asino che sembra mummificato. Si cammina fra i campi salmastri stando attenti a non sfondare nel fango, tutt’intorno la vegetazione è fitta e vigorosa, come una piccola giungla, fa caldo oggi il sole Africano fa sentire la sua potenza e la sua luce accecante è amplificata dal brillare del sale e ovunque risplendono giochi di luce, è un paesaggio psichedelico dominato dal vicino Tempio dell’Oracolo che dall’alto sembra osservare sempre tutto come un entità superiore.
Ritrovato il terreno stabile ci si avvicina un carretto colmo di vestiti colorati trainato da un ciuco stanco, il venditore di cenci che lo guida ha un aspetto truce, è un essere cupo dai modi fintamente gentili, in lui vedo l’orco delle storie paurose che vengono raccontate ai bimbi Siwani, quello che vive ai margini dell’oasi negli angoli ombrosi e silenziosi, il suo sguardo torbido è iniettato di sangue e si ingigantisce malvagio nell’obbiettivo della macchina fotografica, il modo in cui si tocca mentre scompare nel palmeto mi conferma che di orco si tratta.
La via si apre verso il lago fiancheggiata da un largo canale dove ci sono tanti pesci che due uomini con un pezzetto di tramaglio e due canne stanno cercando di pescare, non disdegnano i pesci di piccola taglia ma il loro obbiettivo è un grosso pesce gatto intrufolato nel fondo melmoso. Stendono il tramaglio tra le due sponde del canale e poi con le canne cercano di spingere il nero pesce baffuto nella rete, che per un po’ si prende gioco dei pescatori scavando nella melma, ma l’ostinazione dei due ha la meglio e dopo una lunga battaglia il viscido pesce gatto viene catturato. Ancora qualche decina di metri nel terreno acquitrinoso e poi si arriva alla strada rialzata che risale il lago verso Est in direzione della depressione di Qattara, il lago è grande e la calura ne rende indefiniti i confini, nelle sue acque basse e limpide pedulano alla ricerca di cibo i fenicotteri e le garzette, probabilmente Alessandro Magno quando arrivò a Siwa trovò una situazione ambientale simile a questa e indubbiamente anche per un personaggio abituato a luoghi suggestivi come doveva essere il condottiero Macedone, la vista di un lago salato circondato da palme e dominato da un tempio che sembra galleggiare magicamente sull’oasi, deve essere stata di grande effetto, specialmente dopo una traversata nel deserto di otto giorni. Le corse dei carretti trainati dagli asini mi riportano nella Siwa del presente dove convivono immagini antiche e moderne qui rappresentate dalle solite idrovore che combattono con le acque salmastre della laguna e dalla grande strada asfaltata che attraversa il lago in direzione Nord e poi prosegue in direzione di Ain Safi. L’immagine di questa strada che divide il lago è surreale, per effetto di un miraggio diventa uno specchio luminoso e poi scompare dentro l’altopiano roccioso che si estende a Settentrione di Siwa. Sulla superficie del lago ci sono tanti piccoli iceberg di sale che galleggiano nell’immobilità vitrea dell’acqua intaccata solo dal  beccare furtivo delle rondini a caccia di insetti, il braccio del lago che si estende verso Sud Est in direzione di Zaytun è il più grande dell’Oasi e con il suo azzurro intenso regala dei paesaggi che sanno di mare. Si rientra nell’Oasi camminando in direzione Sud, ai margini del lago con i camion stanno portando sabbia da spargere sui terreni salmastri, la salinità del terreno è il problema principale per i contadini Siwani ed è causato dal loro modo di irrigare, allagando i coltivi, che favorisce lo scioglimento del sale presente nella terra, sale che poi confluisce nel lago e rende sterili i terreni che confinano con il bacino idrico. Un fenomeno che si è molto amplificato negli ultimi anni con l’escavazione di nuovi pozzi che hanno fatto aumentare la disponibilità di acqua, un’ulteriore testimonianza di come siano delicati gli equilibri in natura. Ma spingendosi nell’interno dell’oasi nulla sembra cambiato dai tempi antichi, vita lenta e serena, i contadini cantano mentre potano le palme salendo sui tronchi con grande maestria, mentre i ciuchi dormicchiano all’ombra in attesa del rientro. Si cammina fino a raggiungere una sorgente di acqua calda che sale vigorosa dal sottosuolo, la risorgiva è incanalata in un grande deposito a cielo aperto per farla raffreddare, dal vascone poi esce a pressione da un grande tubo ossidato che finisce in una piccola piscina formando una piccola cascata di acqua che comunque rimane ancora molto calda, con questa temperatura non viene voglia, ma la sera e ancora di più d’inverno deve essere favoloso per lavarsi sotto questo getto. Sulla via del ritorno per Siwa passiamo sotto il Jebel Dakrur, la montagna dei fantasmi, dove nel villaggio omonimo stanno costruendo una piccola nuova moschea, il villaggio è piccolo e in gran parte sembra abbandonato, ma in realtà si tratta della strutture che i Siwani usano durante la festa di Siyaha, la festa più importante dell’Oasi che si svolge ad ottobre nei giorni di luna piena, durante il periodo della raccolta dei datteri e delle olive. La festa ha origini relativamente recenti, fu istituita circa centocinquanta anni fa da un Sufi Siwano allo scopo di sanare le dispute fra la gente dell’oasi e vi partecipano tutti i Siwani maschi che in massa si trasferiscono qui per tre giorni e tre notti, mangiando e festeggiando tutti insieme allo scopo di spianare tutti i disaccordi. Alla festa non possono partecipare le donne, solo le bimbe fino all’età di dodici anni durante il giorno possono venire alla festa di Siyaha, per noi è inconcepibile questa mentalità ma per i Siwani è una grande occasione di festa anche per le donne che nei villaggi senza uomini possono a loro volta muoversi e festeggiare e possono perfino suonare il tamburo.
La luce radente del tardo pomeriggio illumina la polvere alzata dal passaggio di carri e animali, c’è traffico a quest’ora sulla via che riporta a Siwa, passano i carretti guidati dai bimbi che con fare da omo di casa riportano a casa il loro carico di mamme e sorelle velate, prima che gli uomini rientrino dalla campagna, passa anche un convoglio di turisti sui carrettini trainati dai ciuchi, ci filmano, li trovo asettici ormai anche noi li chiamiamo i turisti, sono così puliti da sembrare finti, in un attimo sfilano e di loro rimane solo una nuvola di polvere da cui sbuca un contadino ciclista con bici carica di erba medica. C’è tanta gente lungo la via e anche le botteghe-baracche a quest’ora sono tutte aperte, ma il silenzio rimane sovrano, per i Siwani il silenzio è un grande valore, parlano poco e mai a voce alta, solo quando passa qualche motocarro il silenzio si interrompe, ma poi ritorna sovrano. Mi fermo a fotografare una classica piccionaia in muratura, hanno la forma dei nostri pagliai, quelli che ormai non ci sono più e che vorrei ricostruire quando alla fine del viaggio tornerò all’Elba.
Entriamo dentro la fortezza di Shali avvolti da una luce magica, le ombre lunghe disegnano forme cangianti sulle pareti di fango e sale, arriviamo sul cocuzzolo che domina i ruderi mentre si sta preparando un tramonto infuocato sulla laguna e da Oriente una luna gigante sorge maestosa e veloce si innalza sopra l’Oracolo e lo illumina di luce riflessa. Il Tempio astronave galleggia pallido al centro della scena fra la montagna dei Morti e quella dei Fantasmi, mentre a occidente il sole incendia la laguna e arroventa il cielo, poi tramonta dietro le dune mentre il cielo si pennella di fuoco. Entra la brezza e il crepuscolo diventa notte, ora la luna risplende padrona con il suo cerchio perfetto su una Shali magnifica e spettrale mentre il canto dei tanti muezzin armonicamente musica un infinito istante di poesia. 

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Luned?¨ 9 marzo 2009 Oasi di Siwa ‚Äì Egitto

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La festa del Profeta e unico filo (verde)
Questa mattina il cielo è straordinariamente limpido, c’è un’aria fresca da montagna e come per magia è scomparsa la patina di polvere che avvolgeva tutto da quando siamo arrivati. Mi godo l’oasi osservando i carretti dal tetto della terrazza e le bimbe vestite a festa che non vogliono le foto. Oggi è un giorno di grande festa, è il compleanno di Maometto, vicino alla moschea più grande stanno preparando per la celebrazione della ricorrenza, si vedono passare uomini con grandi bandiere verdi e altri con tamburelli. La luce è molto bella e il cielo terso è azzurro intenso, ritorniamo a visitare la fortezza di Shali. Il sale della struttura del grande minareto brilla riflettendo la luce del sole, così come le altre strutture tutte consumate e rese sinuose dalle rare piogge, Shali sembra un enorme plastico costruico con cartoni bagnati. Salendo sulla fortezza si apre un panorama inedito e molto più ampio, la città vecchia sembra molto più grande, le dune del deserto occidentale sono vicine e grandi e il lago di Siwa sembra un mare con le piccole isole ben definite, così come il Djebel Mawta,  la collina del Tempio dell’Oracolo e il Djebel Dakrur, che si elevano dal verde delle palme come isole galleggianti. Salendo sulla montagnola a ovest della città di sale, il panorama è ancora più bello. Anche vicino alla moschea di Shali ci sono preparativi per la festa, gli uomini dentro i ruderi della vecchia città hanno acceso un focolare dove stanno cuocendo dentro un  pentolone una grande quantità di cibo che sembra cous cous. Ci sono diversi uomini impegnati in questo lavoro, c’è un gran movimento di pentoloni e vasoi ma sempre con calma e in silenzio come costuma a Siwa. La festa alla moschea sembra una cosa soprattutto fra uomini, donne qui non ce ne sono, se ne vede un gruppo dall’altro lato del villaggio fortificato che nell’aia di una casa stanno lavorando in cerchio intorno a un monticello di lana e mi immagino che questo sia un po’ il loro modo di passare questa festa. Scendendo nel paese la vita continua a scorrere come l’abbiamo lascita, via vai di carretti per lo più guidati da bimbi che accompagnano le loro mamme completamente velate e coperte con il Tarfottet e uomini, oggi tutti vestiti a festa con turbanti e camicioni bianchi, che chiacchierano intorno alla moschea. L’atmosfera rilassata di Siwa mi sta contagiando, il caos e la frenesia abbrutente del Cairo sembrano un incubo lontano. Tornato al fondouk mentre aggeggio su una presa elettrica a un certo punto prende fuoco tutto e in un attimo i fili di rame si fondono tra loro, per fortuna che Serena stacca prontamente il contatore. Un’ala dell’ostello è senza energia, dopo un po’ di ricerche insieme a Mohammed, uno dei ragazzi che  gestisce la struttura, si trova il contatore principale, è esterno nella via, proprio sopra una garitta della polizia, provo a salire sul tetto della garitta sotto lo sguardo perplesso del milite, quando Mohammed gli dice del contatore della corrente per paura di essere fulminato si da prontamente alla fuga. Dopo un paio di tentativi a vuoto con un legno di palma si riaccende il contatore e tutto torna regolare e il ragazzo, che mi ha scambiato per un elettricista, compra un paio di prese e una piastra nuova per sistemare il tutto. Non è semplice perché l’impianto è fatto tutto con un filo di un solo colore (verde islam naturalmente) in omaggio alla filosofia dell’inshallah, almeno apparentemente faccio un buon lavoro e Mohammed assai soddisfatto, mentre mi elenca a memoria tutti i calciatori della formazione dell’Italia campione del mondo, mi commissiona un paio di lavoretti.
La luna piena è già alta sopra il Tempio dell’Oracolo mentre il sole comincia ad abbassarsi sopra la fortezza di Shali colorando d’arancio il cielo, è un tramonto reso ancora più bello dalle tante garzette che rientrano dalla laguna verso le palme del villaggio.
 
   

Domenica 8 Marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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L’ecolodge e la mazza da otto chili
Mattina serena e fresca, si prendono le bici e si va verso Adrar Amellal, la montagna bianca con la cima piatta che domina il lago di Siwa sul lato opposto al villaggio. Questa distesa di acqua salata fa venire voglia di mare, mi piacerebbe trovare un barchino per fare una vogata. Dopo qualche chilometro si lascia la strada principale (quella che va a Marsa Matruh) e si prosegue verso ovest sull’asfalto che costeggia il lato nord del lago, i cui confini sono delimitati da grandi zone secche con croste di sale e fango che brillano al sole, mentre più a largo i fenicotteri camminano riflettendosi nelle acque basse e immobili, che si trovano una dozzina di metri sotto il livello del mare. Provo a camminare su questo pavimento di sale, ma dopo qualche metro mi devo arrendere all’effetto sabbie mobili di questo pantano salato. In questa zona ci sono delle strutture turistiche segnalate con la dicitura ecolodge, imbocchiamo una strada che porta a un villaggio di capanne su un’isola di palme secche, a meta via c’è una grande palma finta che nasconde un’antenna e a fianco un gruppo elettrogeno, la strada rialzata prosegue dentro la laguna e la percorriamo insieme a un cucciolo di cane che ci segue. L’ingresso del villaggio è sorvegliato da un hasky impazzito che qualche sciagurato ha portato nel deserto per incatenarlo a un tronco di palma, si riesce comunque a passare. Il villaggio si vede che è nuovo ma è già abbandonato, le padrone sono un gruppo di oche che schiamazza beato nel laghetto di una risorgiva. C’è un pedalò su un carrello e una barca sfondata, evidentemente qualcosa non ha funzionato, mi viene da pensare “e se quando torno all’Elba la trovassi così?”. La laguna è bella anche se un po’ tetra e surreale, la calura e l’assenza di vento rendono tutto velato e senza colore e le piastre di sale lungo le sponde asciutte del lago ne esaltano l’effetto algido. Le palme sull’isola sono tutte secche, forse proprio a causa di questo insediamento totalmente fuoriluogo che nell’aspetto sembra il classico villaggio turistico della Polinesia con le capanne di canne e gli ombrelloni alla Paglicce beach.
Riprendiamo la strada che costeggia il lago, ogni tanto si incontrano delle chiazze verdeggianti con palme, olivi e campi di erba medica, si avanza fino alla grande montagna bianca, un’altra scritta ecolodge, ancora una strada sopraelevata ci porta verso la zona degli insediamenti. È un tratto bello e ci sono tante garzette e alcuni aironi grigi, passa un turista a cavallo totalmente dissonante con tutto il resto: gilet, stivali e caschetto e tutori che lo controllano a vista da dentro un fuoristrada a poca distanza, questa è la zona dei residence di lusso e anche qui nonostante siano tutti vuoti, ne stanno costruendo ancora, la follia globalizzata dell’edilizia turistica non risparmia nemmeno Siwa.
La strada che conduce ai piedi della Montagna Bianca è chiusa da una sbarra e controllata da guardiani che fanno un po’ di storie dicendo che è tutto privato, poi però ci fanno entrare. Arrivati ai piedi dell’Adrar ci troviamo davanti un grande complesso turistico costruito in kershef, arriva un ragazzo che, una volta chiarito che non possiamo andare a giro da soli, ci invita a mettere le nostre bici scarcassate dentro il parcheggio per nasconderle alla vista e poi ci accompagna a visitare il lussuoso resort. Ecolodge spartan chic come lo definiscono, è indubbiamente molto bello e curato, costruito tutto di sale, argilla e legno di palma, ma nonostante la grande cura costruttiva i letti e i tavoli di sale, è senza anima. L’impressione è che tutto questo esclusivo “eco lusso” sia un bluff, anche come affluenza, mi sa che anche qui la crisi è arrivata, io vedo solo cinque o sei pancioni americani all’ombra del palmeto accanto alla piscina, in compagnia dei loro immancabili beveroni alcolici e i fuoristrada con gli autisti a pochi metri. Hanno costruito queste cose per ricconi spacciandole come modelli di turismo ambientale, ma per come la vedo io mi sembra più un capriccio di stile che un esempio di turismo in sintonia con l’ambiente e poi stando dentro questo lagher dorato, dove una camera costa cento volte di più che nel “nostro” ostello, sei isolato dalla realtà del posto e non hai nessun rapporto con la gente che ci vive. Anche se costruito secondo i principi della bio architettura applicati alle tecniche tradizionali di Siwa, sotto la scorza di sale rimane un villaggio turistico e i ragazzi Siwani in elegante divisa da servo, sono qui a confermarlo. Recuperiamo i nostri claudicanti cicli e ritorniamo sulla via, due bimbi hanno lasciato l’asino con carretto sulla strada e con i falciotti stanno tagliando i giunchi nel canale, sono piccoli ma lavorano a capo basso. La strada attraversa un palmeto con gli orti e poi incontra il deserto, anche qui si lavora duro, ci sono tre uomini che spaccano le pietre, battere la mazza sotto il sole cocente nel deserto sa di galera e di inferno e invece è semplicemente lavoro. Qui sabbia non manca ma i sassi sono cosa rara, è molto più facile trovare sale e fango e questo spiega la tradizione costruttiva Siwana, ma oggi la pietra bianca di questa zona è molto richiesta. Gli uomini lavorano seguendo un filone in superficie, usano mazze molto pesanti, da 8 chili, che sono manicate con legno d’olivo, mazzoli, pali di ferro a punta di subbia e zeppe di metallo molto larghe spesse meno di un centimetro, mi piacerebbe fare un filmato e delle foto ma capisco che la cosa li imbarazza e allora saluto e tiro dritto. Il deserto è un mare di conchiglie e coralli ormai sbiancati, ci sono migliaia di ostriche, alcune gigantesche, tante conchiglie a pettine e delle larghe conchiglie bivalve che sembrano cozze giganti. Fa caldo ed è tutto molto fosco e polveroso, un peccato perché la vista sul lago salendo solo di pochi metri, è notevole, la cosa bella è che non si suda per il gran secco. In questo deserto il colore prevalente è il giallo, ma ci sono delle lunghe strisce bianche di sale e varie tonalità di ocra che si scuriscono fino al rosso porpora, le rocce calcaree sono scolpite dal vento che ne ha disegnato le forme stondate. Nelle parti rocciose più alte e compatte ci sono scavate centinaia di tombe di cui nei libri che ho non c’è nessuna menzione, gironzolando dentro una depressione ne troviamo una sessantina numerate, alcune hanno più di una camera, ma la maggior parte sono piccole e spesso l’ingresso è ostruito dalla sabbia, in alcune si vedono le tracce di pitture e in altre si intuisce che sono state scalpellate di recente come per togliere pitture murali, tutt’intorno ci sono tanti resti di ceramica e decine di resti di ossa umane. Riprendiamo le bici e si ritorna verso Siwa, che da qui dista una ventina di chilometri. Avvicinandosi al villaggio principale si ricominciano ad incontrare i carretti trainati dai ciuchi e le moto col cassone, che mi fanno tornare in mente Umberto di Daria che quando ero bambolo con un mezzo simile girava portando le bombole del gas per Filetto e Bonalaccia. E’ormai sera, a Siwa la vita scorre tranquilla regolata dal ciclo del sole e dalle chiamate dei muezzin. Mi piace Siwa e la tranquillità della sua gente anche nei confronti del turismo, qui voglio stabilire un contatto per Base Elba, la comunicazione è complicata, il Siwi è diverso dall’Amazigh di cui in Marocco avevamo appreso qualche vocabolo e la lingua straniera conosciuta è l’inglese che per me è peggio dell’arabo, ma comunque sforzandoci ci si intende sempre.     
 
   

Sabato 7 Marzo 2009 Oasi di Siwa – Egitto

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Il Tempio dell’Oracolo
Ancora una giornata di vento che rende tutto impastato di sabbia e indefinito, concedendo una visibilità assai limitata, è il “Khamsin” il vento di primavera che a quanto ci dicono può durare anche per settimane. Il fonduk che ci ospita è un posto piacevole frequentato da egiziani e turisti indipendenti, è gestito da un gruppo di ragazzi Siwani che passano la maggior parte del tempo sdraiati in un camerone a dormicchiare, la quiete regna sovrana in quest’ostello con la porta sempre aperta, il suo punto di forza è il giardino ombreggiato dalle palme di cui una delle più assidue frequentratrici è una signora australiana di mezz’eta che passa le giornate a scrivere e a leggere in compagnia di una famiglia di eleganti gatti rossi di cui è innamorata. È una tipa molto gentile ed è  sempre sorridente, specialmente quando scrive, poi c’è una coppia di giapponesi, lui sembra un marinaio dell’Arcadia, l’astronave di Capitan Harlock, in libera uscita e suona i bonghi mentre la sua compagna, una fricchettona esile e sempre vestita di bianco, gli danza intorno; la cosa che mi piace è che ognuno quello che fa, lo fa per se, almeno così mi sembra.
Nel villaggio è difficile incontrare delle donne Siwane che camminano per le vie, preferiscono starsene in casa, quando escono si spostano con i carretti o i motocarri guidati dagli uomini, spesso le mamme aspettano sul cassone e mandano i figli a fare le compere, per noi è difficile da comprendere ma a loro sembra che piaccia così, questo è uno degli aspetti che vorrei approfondire nei prossimi giorni. Intanto mi compro “Siwa dall’interno” il libro scritto da Fathi Mandhi un antropologo Siwano, che è stato tradotto anche in italiano.
Nel pomeriggio il vento cala e si va a fare un giro verso Aghurmi per visitare il famoso tempio, la gente ci comincia a riconoscere, sono appena tre giorni che siamo qui ma il posto è piccolo e poi normalmente per uno straniero tre giorni a Siwa sono tanti. Ora che il vento si è quietato i bimbi sono tornati a giocare in strada, due bimbe sorridenti si rincorrono, hanno le trecce lunghe legate in fondo da due grandi fiocchi rossi e vestiti lunghi e colorati che sembrano usciti da un libro di fiabe, poco più avanti c’è un bimbo che gioca spingendo nella sabbia il guscio rigido delle infiorescenze della palma, lo guida con un bastone facendolo scorrere  nelle ondulazioni della sabbia come fosse una barca. Anche le persone anziane sono uscite e se ne stanno appoggiate ai muri osservando e commentando l’andirivieni lungo la via. In una quarantina di minuti si arriva sotto la collina di Aghurmi intorno alla quale si sviluppa un piccolo villaggio molto povero dove abitano prevalentemente gli “Agmage” i Siwani di pelle scura, quelli che un tempo erano gli schiavi dei Siwani più ricchi, quelli che hanno la pelle più chiara e sono di ceppo Amazigh, probabilmente i discendenti dei primi  abitanti dell’oasi. Siamo ai piedi del famoso Tempio dell’Oracolo che si trova sulla sommità spianata di questa piccola collina di roccia chiara dalle pareti verticali, che si eleva dalla depressione dell’oasi come una fortezza naturale, quando la vedi da lontano è come un’Isola e sembra galleggiare sulle palme. Questo luogo è rimasto molto importante anche dopo la fine del periodo classico (faraonico e greco romano) perché che fino a quando non fu costruita Shali la collina ospitava il più importante villaggio dell’oasi, anch’esso fortificato e costruito con blocchi di sale ed argilla, ma è innegabile che il fascino che esercita sia soprattutto legato alla storia antica e alle leggende del Tempio dell’Oracolo di Amon, un santuario venerato, rispettato e temuto per svariati secoli e considerato uno dei più importanti centri di potere religioso del mondo antico. Questo è anche il luogo più visitato dell’oasi, spesso i turisti arrivano qui solo per visitare le rovine del glorioso edificio, famoso soprattutto perchè legato alla mitica storia di Alessandro Magno, ma a quest’ora il sito sta per chiudere e non ci sono turisti. Si sale da una scala scavata nella roccia  attraversando il vecchio villaggio di Aghurmi che è stato restaurato pesantemente, all’interno della fortezza c’è un grande pozzo e delle cisterne, strutture indispensabili in caso di assedio e pavimentazioni in pietra risalenti al tempo del Tempio di Amon, quello che resta del vero e proprio Tempio dell’Oracolo è piuttosto mal ridotto, un edificio in pietra sul margine esterno della rocca, che conserva qualche fregio sbiadito di immagini sacre e iscrizioni in geroglifico. Il tempio risale alla XXVI dinastia al tempo del Faraone Amasis, penultimo Faraone della cosiddetta dinastia Saitica, il cui ceppo genetico era di origine Libica, Amasis per farsi benvolere dal potente Clero Tebano edificò questo tempio all’interno di un’area sacra già esistente e dedicata alla stessa divinità. Secondo gli archeologi il primo tempio fu costruito durante la XXI dinastia, intorno al mille avanti cristo, quando in realtà l’Egitto era frazionato in più regni, l’epoca dei grandi Faraoni guerrieri era ormai finita e il potere centrale aveva perso il controllo dello stato, la Nubia era tornata ad essere un regno indipendente, solo il Nord era governato dal Faraone che aveva spostato il suo centro nella citta di Tanis nel Delta Orientale, mentre l’Alto Egitto era uno stato autonomo governato dai sacerdoti di Amon di Tebe, a cui all’epoca Siwa faceva capo. C’è anche chi dice che il culto Siwano abbia un’origine ancora più antica e che il tempio inizialmente non era dedicato al dio Amon Ra di Tebe ma ad Amman il dio delle sorgenti, una divinità originaria dell’oasi risalente a tempi remoti. l’Oracolo di Siwa all’epoca del Faraone Amasis godeva di grande prestigio e la sua fama probabilmente era enfatizzata anche dal fascino di trovarsi all’interno di un’oasi così remota, ma il massimo del prestigio lo raggiunse qualche decennio più tardi a seguito della scomparsa nelle sabbie del deserto di una grande armata che intese sfidare l’Oracolo. La storia ci racconta che nel 525 a.c. il Re Persiano Cambise invade e conquista l’Egitto e lo riunisce in un unico regno proclamandosi Faraone del Basso e dell’Alto Egitto, con grande disappunto del Clero Tebano ormai abituato a non essere sottomesso a nessuno. I sacerdoti di Amon non riconoscono l’autorità del nuovo Faraone e attraverso l’oracolo di Siwa sfidano il sovrano straniero maledicendone il regno, pronosticandogli sventure e sconfitte. Cambise per mettere a tacere l’oracolo e i suoi sacerdoti, allestisce una formidabile armata di 50.000 uomini allo scopo di distruggere l’oracolo e uccidere i suoi sacerdoti, ma la spedizione si risolse in una tragedia, la storia tramandataci ci dice che la grande armata fu inghiottita nel deserto da una tempesta di sabbia e non ci fu nessun superstite. Il fatto abilmente divulgato dai preti, da sempre maestri di propaganda, destò grande clamore e fece crescere ancora di più il potere dell’Oracolo di Amon e il suo prestigio si diffuse in tutto il mondo antico. La fama e l’autorevolezza del tempio sono testimoniate dal fatto che Alessandro Magno dopo aver sconfitto i Persiani e preso possesso dell’Egitto, nel 331 a.c. prima di proclamarsi Faraone, attraversando il deserto con una marcia di 8 giorni, si recò al tempio dell’Oracolo per avere la benevolenza dei suoi temuti sacerdoti e solo dopo aver ricevuto la certificazione delle sue origini divine, indossò la corona di sovrano d’Egitto e dichiarò di voler essere sepolto a Siwa. Sembra che anche il suo successore Tolomeo e in seguito i suoi eredi abbiano fatto l’impegnativo viaggio attraverso il deserto da Alessandria a Siwa  per avere il benestare dell’Oracolo. Il periodo Tolemaico fu per il Tempio e per Siwa il tempo del massimo splendore, l’oasi comunque rimase un centro di grande importanza religiosa ed agricola anche durante la dominazione Romana. Poi con il declino di Roma il tempio perse di prestigio di importanza, il culto rimase comunque attivo almeno fino al VI secolo dopo cristo, anche perché qui a quanto pare il culto cristiano non arrivò mai.
All’inzio del VIII secolo Siwa subì l’invasione degli Islamici Arabi a cui resistettero a lungo combattendo dalla fortezza di Aghurmi, ma nel contempo si convertirono alla fede islamica e il culto del tempio dell’oracolo finì per sempre.
Il sole sta tramontando pallido dietro le dune del deserto libico, avvolto nelle polveri alzate dal vento che faticano a depositarsi e nella luce tenue del tramonto, a oriente risalta una luna splendente che sta salendo veloce specchiandosi nel lago salato di Aghurmi, è un momento magico a cui anche i falchi rendono omaggio volteggiando eleganti sopra il millenario tempio. Lasciato l’altopiano  fortificato gli facciamo un giro intorno, dal basso ricorda il castello del Volterraio e i riflettori tutt’intorno che si sono accesi con l’imbrunire, gli regalano ulteriore fascino.
Mentre si rientra a bordo strada si vedono diversi gatti morti, spesso senza testa, forse vittime della magia nera, ritualità che nonostante sia vietata dall’islam, sembra ancora presente nell’oasi, chissà se è rimasta anche qualche reminiscenza degli antichi culti risalenti al Tempio dell’Oracolo, dove ufficialmente furono officiati gli ultimi riti religiosi della millenaria civiltà dell’antico Egitto. 
 
   

Venerd?¨ 6 marzo 2009 Oasi di Siwa ‚Äì Egitto

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L’Oasi è come un’Isola
Il silenzio è il sovrano di Siwa, tutto è lento e rilassante nell’oasi, la frenesia del Cairo finalmente ha smesso di rimbombarmi nel cervello, per quanto possa sembrare assurdo sento aria di casa. Si prendono due bici scarcassate e ci si sposta verso il lago salato di Siwa, passando dal piccolo souk per la via si incontrano tanti carretti, di solito guidati da bimbi, che accompagnano le donne sempre velate di nero e ricoperte dal classico mantello color grigio azzurro, il tarfottet. La comunità di Siwa ha costumi molto rigidi e le donne non devono mai uscire di case senza essere accompagnate. Cercando uno sbocco sul lago si finisce nel fango salato, poi si raggiunge una strada sopraelevata che lo attraversa. Il tempo è fosco e il paesaggio surreale e indefinito, ci sono delle  piccole isole e blocchi di sale, tutto intorno il deserto ma niente di tutto questo ha forma definita. Falchi, aironi, garzette e anche fenicotteri rosa, si specchiano nelle acque del lagho così come le anatre. Arriviamo in una zona dove il silenzio è interrotto da delle idrovore che stanno asciugando la parte esterna  della laguna per creare delle zone agricole. Andando avanti troviamo una strada che torna verso Siwa camminando sul limite della laguna dove inizia il verde dell’oasi, in cui prevalgono le coltivazioni di olivo e palma da dattero. La terra è argillosa e in alcuni punti è rosso porpora, ci sono tanti ruderi di case e piccoli villaggi costruiti di blocchi di sale che ormai sciolti dall’acqua si sono deformati in sagome spettrali. Continuiamo il nostro giro pedalando nell’oasi, si incontrano soprattutto carrettini trainati dai ciuchi e qualche moto, senza volerlo mi ritrovo al Djebel Dakrur rinomato per le sue sabbie curative e per i fantasmi che a detta dei Siwani sembrano abitare la collina, subito dopo il piccolo villaggio e poi una serie di abitazioni abbandonate. Vagando nel dedalo dei viottolini all’interno dell’oasi dopo un pò arriviamo sotto la collina di Aghurmi dove si trova il mitico tempio dell’Oracolo di Amon, che Alessandro Magno visitò nel 331 a.c per chiedere conferma sulle sue origini divine, i sacerdoti dell’oasi confermarono la discendenza sovrannaturale indispensabile per diventare faraone e per par condicio unificarono il culto greco a quello romano e lo dichiararono figlio di Zeus Amon. La luce accecante e l’aria densa di polvere e foschia mi inducono a visitare il famoso sito in un’altra occasione, così come l’altro tempio di Umm Ubeyda, anch’esso decicato ad Amon, che incontriamo poco dopo. Proseguendo nel palmeto si arriva ai famosi bagni di Cleopatra considerati la massima attrattiva dell’oasi di Siwa, sono una grande delusione, una pozza d’acqua termale con un po’ di bollicine con a fianco un baretto e un po’ di poliziotti di guardia e un paio di ragazzetti che si tuffano nel pozzo, una goffa attrattiva turistica che stona con tutto il contesto e poi questo nome idiota che non c’entra niente con Siwa, sullo stile dello scoglio della Paolina nel Golfo di Procchio, è sicuramente più bello e storicamente pertinente il nome di “Sorgente del Sole” che gli dettero gli antichi viaggiatori, o quello semplice e schietto di “Sorgente del Bagno” (Ain el Hamman) che gli ha dato la gente dell’oasi.
È ormai il tramonto quando si ritorna al villaggio di Siwa, è il momento in cui lungo le vie c’è più movimento, la gente ritorna a casa dai campi e tutte le micro botteghe si attivano, tutto scorre lento e armonico e sembra essere immutato da secoli. Il rientro verso casa di un contadino che spinge una carretta piena di erba medica mi fa tornare in mente Zio Mario quando rientrava la sera alla Bonalaccia dopo aver irrigato l’orto delle paglicce, con il raccolto dentro la carretta nascosto alla curiosità di turisti e vicini da una catasta di erba per i conigli con un poponcino marcio sopra da regala allo scroccone del maresciallo dei carabinieri, un tale Zollo che passava sempre dalla via all’ora del rientro. In queste stradine polverose rivedo la Bonalaccia della mia infanzia, queste biciclette che passano con le zappe legate dietro al sellino, sono scene riviste e le formazioni di ibis che volano compatte nel tramonto ricordano i gabbiani. Nonostante siano circondate dalla sabbia le oasi sono la situazione più isolana del continente e i suoi abitanti hanno un identità ben definita, sono orgogliosi della propria terra in una maniera spontanea, probabilmente genetica proprio come gli isolani. È questo un posto povero ma dignitoso, ricco di fascino e di mistero, non ci sono paesaggi eclatanti o monumenti imponenti, ma si è costantemente circondati da un alone di fascino e mistero reso assai piacevole dalla quiete e dall’indole orgogliosa ma pacifica dei siwani
 
   

Gioved?¨ 5 marzo 2009 Oasi di Siwa ‚Äì Egitto

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I Libri Coranici
Arriviamo a Siwa con le prime luci dell’alba, il villaggio è piccolo e silenzioso, spazzato dal vento che alza la polvere sabbiosa. Ci piazziamo in un fonduk vicino alla piazza del paese e poi si va a fare un giretto dentro Shali, la leggendaria città fortezza costruita di sale. Per la via incontriamo le prime donne con il tipico abbigliamento Siwano, sono completamente velate e coperte con un grande scialle di colore tra l’azzurro e la cenere. La fortezza è imponente e decadente allo stesso tempo, le sue forme sinuose e crepate sembrano dover cedere da un momento all’altro, queste mura sono state costruite più di novecento anni fa dai Siwani con blocchi di sale rivestiti di argilla, per difendersi dalle incursioni delle tribù arabe. Il suo aspetto ricorda un grande castello di sabbia in disfacimento, ma a quanto pare il suo degrado è recente ed è dovuto alle violente e anomale piogge che per tre giorni colpirono questa zona nel 1926. È affascinante camminare fra queste mura, la cinta esterna è ancora abitata ma entrando dentro è quasi tutto abbandonato, fa impressione vedere i ruderi di queste case di sale che si sono sciolte e risolidificate in forme impossibili che sembrano sfidare e sconfiggere le leggi della fisica. 
È una giornata di vento che diventa sempre più forte avvolgendo tutto in una grande nuvola di sabbia, mentre si gironzola incontriamo un francese che ha deciso di vivere qui e sta restaurando una grande casa, ci parla di un artista locale che lavora con i bimbi e di Andrea di Firenze un italiano che vive a Siwa sei mesi l’anno. Saliamo fino alla parte più alta della fortezza  e poi attraversando un’antica necropoli, si arriva sulla sommità della collinetta alle spalle di Shali da cui nonostante la tempesta di sabbia si riesce a scorgere il lago salato e si intuisce la grande estensione dei palmeti. Incuriositi cerchiamo e troviamo il nostro compatriota, tutti sembrano conoscerlo e in un paio di passaparola ci troviamo nella sua abitazione, un’antica casa nel villaggio vecchio che sta restaurando con grande gusto e rispetto delle tecniche costruttive di Siwa. I ragazzi che lavorano nella casa del fiorentino ci offrono un the preparato alla maniera degli Amazigh, scuro e potente quasi denso, sono tutti Siwani meno uno che è egiziano e ci tengono a marcare la differenza, lui dicono ridendo, a Siwa c’ha solo la bicicletta, un po’ poco per contare qualcosa qui.
In serata si va a  mangiare dal beduino, un posto dove si ferma la gente del posto, ci si leva le scarpe e si siede in terra davanti ai tavolini bassi e si mangia quello che c’è, zuppa, riso e pollo. Quello che sembra il proprietario è un ragazzo giovane, con una barba da fervente fedele islamico e infatti ci regala una scorta di libri coranici in italiano.
 

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Mercoled?¨ 4 marzo 2009 Wadi Natrun ‚Äì Egitto

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San Bartolomeo di Bishoi del Wadi Natrun
Finalmente si parte dal Cairo, l’idea di lasciare tutto questo rumore e quest’aria sudicia che ti si appiccica sulla pelle e nei polmoni mi mette di buonumore. I cairoti si impegnano adeguatamente per lasciare un pessimo ricordo della loro città, siamo quasi alla stazione dei bus con gli zaini in spalla e mi vengono a richiamare per tornare all’albergo perché c’è un problema non ben definito che poi si rivela un supplemento inventato a mo’ di bashish, chiaramente non corrisposto; e poi con un autiere che per poco più di niente non mette sotto Serena. La stazione dei pullman è grande e modernissima assomiglia a un aeroporto con decine di gate, da qui partono le linee dei pullman che toccano i principali centri nazionali e anche diversi collegamenti con le altre nazioni arabe. Usciti dalla bolgia del traffico la strada dritta che scorre dentro il Wadi Natrun ci porta in tre ore a Natrun City. Questa zona un tempo era famosa per il natrun, un nitrato indispensabile nel processo di mummificazione. Il paesaggio è un misto di deserto e campagna con zone brulle che si alternano a palme da dattero e altri frutti. Si chiama City ma è poco più di un villaggio e si catalizza l’attenzione, specialmente Serena, in breve si fa gente tutti radunati a vedere la femmina senza velo. Per dieci pound si trova un tipo col pick up che ci porta fino al monastero di Bishoi, uno dei quattro monasteri copti della zona costruiti nel quarto secolo dai cristiani per difendersi dalle persecuzioni romane e da allora ininterrottamente luoghi di culto. L’ingresso del monastero è presidiato da un nutrito gruppo di militari armati che però non ci crea nessun problema. Entriamo nel monastero coi campanili sormontati da croci e tante cupole color sabbia, i monaci all’ingresso, barbuti e incappucciati di nero, ci fanno cenno di andare verso la chiesa dove c’è padre Giovacchino, probabilmente ci hanno preso per tedeschi infatti c’è un monaco incappucciato che sta spiegando a un gruppetto di tedeschi le meraviglie del suo monastero. Intanto che i teutonici seguono la loro visita ci togliamo le scarpe e entriamo nella chiesa di Bishoi, assomiglia a una moschea, ci sono le reliquie del santo dentro un sarcofago, i leggii di legno e degli affreschi molto belli in cui sono raffigurati monaci del passato lontano con Gesù e i primi seguaci della fede cristiana, mi colpisce un San Bartolomeo chissà se è lo stesso a cui è dedicata la chiesa omonima sopra Chiessi. Gironzoliamo fra le chiese del monastero, è una struttura che ricorda gli ksour visti in Tunisia, le cupole sono molto belle e ricoperte da pietre che sembrano squame e vengono usate come scale. È un luogo piacevole  e rilassante, silenzioso, sarebbe bello poter dormire qui ma il prelato ormai libero dal gruppo dei turisti ci comunica che questo non è possibile, quindi decidiamo di andare al paese per dormire e tornare domani per dedicare la giornata ai monasteri del Natrun. Come ormai di abitudine i poliziotti ci accompagnano fino al paese dove però non c’è nessuna possibilità di alloggio né di montare la tenda, anche se un po’ a malincuore decido di proseguire. Si parte sul solito minibus sgangherato direzione Alessandria, ormai è buio pesto si viaggia a fari spenti lungo il rettilineo infinito che attraversa la depressione del Wadi Natrun, l’autista camicione, turbante e barba lunga, è tutto concentrato a sistemare e contare i soldi che io e tutti gli altri occupanti gli abbiamo passato, i fanali li usa solo a mo’ di freccia per sorpassare. Il modo di guidare degli egiziani è demenziale, viaggiano quasi tutti a fari spenti e si sorpassano sfanalando e suonando il clacson da destra e da sinistra, le strade sono dei lunghi rettilinei a senso unico e meno male perché con questo sistema di guida, con le curve durerebbero poco. Comunque anche stavolta purtroppo vediamo i resti di un incidente grave con un pullman semidistrutto che si è scontrato con un tir, le lamiere della cabina sono completamente divelte e il campo sotto la strada è disseminato di corpi. Un paio d’ore e siamo alla periferia di Alessandria nell’inferno di un parcheggio di minibus spesso guidati da bimbi, dopo un po’ di trattative e giri a vuoto riusciamo a raggiungere la stazione dei pullman dove con insperata fortuna saliamo sul bus che sta partendo proprio ora per Siwa.

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Marted?¨ 3 marzo 2009 Menfi e Saqqara ‚Äì Egitto

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Degrado e censura a Menfi, tramonto da Shepseskaf e il villaggio fra le palme

Menfi
Come sempre superata la zona di Giza, dove il problema principale sono i cacciatori di turisti che ti  vedono come un portafoglio viaggiante, il problema diventa farsi capire, siamo su uno dei tanti sfasciati minibus che scendono lungo lo stradone dritto fino a Dahshur, ripeto più volte “la fermata dopo Saqqara, La (no) Ahramat (Piramidi), Menfi”. Ma qui sembrano tutti impostati in automatico e ogni richiesta diversa dall’ordinario destabilizza, se non ti fermi a Giza ti devi fermare per forza a Saqqara, gli  altri posti “la, solo arabia”. Per fortuna un ragazzo gentile che viaggia con noi sul pulmino capisce e spiega al conducente dove si vuole scendere. Il ragazzo ci accompagna attraverso la strada del villaggio per un paio di chilometri, fino a quando si vede la zona adibita alle visite. Menfi oggi è un grande villaggio sgarrupato che trasuda povertà e malessere, mentre si cammina la gente ci guarda con curiosità e sospetto come se fossimo alieni. Eppure siamo a Menfi, il cuore dell’Antico Egitto, qui sorgeva la leggendaria e Magnifica Capitale dell’Antico Regno, la città che fu fondata intorno al 3100 avanti cristo dal mitico Narmer unificatore del Basso e Alto Egitto e primo Faraone della storia. Narmer, in origine sovrano dell’Alto Egitto (sud), volle qui la sua capitale, dove finisce il Delta e inizia il Nilo, nel punto dove il Basso e l’Alto Egitto si incontrano, a simboleggiare l’Egitto unificato. Questo è uno dei luoghi storicamente più importanti dell’umanità, è qui che inizia l’era dei Faraoni, forse la più straordinaria civiltà che il pianeta abbia mai ospitato, che con alterne vicende andrà avanti per 3500 anni. Menfi rimase una delle città più grandi e importanti del mondo antico fino alla conquista araba del VII secolo d.c. quando venne abbandonata e usata come cava per costruire il Cairo, la capitale islamica dell’Egitto. Oggi a memoria di questa storia plurimillenaria, almeno apparentemente non è rimasto niente e se non fosse per il suo grandioso “cimitero” della monumentale città dei morti che si estende da Giza a Dahshur con le sue sensazionali sepolture, rimarrebbero solo le descrizioni della sua grandiosità lasciateci da Erodoto, il grande storico viaggiatore dell’antica Grecia, che la visitò nel quinto secolo avanti cristo, duemilaseicento anni dopo la sua fondazione.
Intorno al museo, che in  realtà è un grande giardino recintato, come al solito tanti poliziotti armati, si fa il biglietto e si entra, su tutto spicca una grande statua in calcare di Ramses II distesa e protetta da una copertura, la magnificenza del gigante di pietra stride con la lardosa goffaggine di un gruppetto di turisti americani in pantaloni corti e canottiera che gli girano intorno con movenze da barbapapà. Con Ramses il Grande, divenuto Faraone nel 1279 a.c. siamo nel Nuovo Regno quando Tebe era divenuta la città più importante del regno, ma la grandiosità di questa statua fa comunque intuire quanto Menfi fosse ancora importante. Il volto del gigante mi osserva fiero e pacato nella sua statica perfezione, privo di espressione e sentimenti apparenti, con distaccata superiorità faraonica, consapevole della sua  immortalità.
Nel museo giardino ci sono un paio di altre belle statue in granito di Ramses, una favolosa sfinge e i grandi piani di pietra su cui venivano mummificati i tori sacri Api, ma niente che giustifichi il nome di Menfi Antica dato a questo recinto, sicuramente qui intorno ci sono ancora tante tracce del glorioso passato anche se tutto e tutti sembrano ignorarlo, anche il poliziotto che al fresco di un albero sta leggendo il giornale con il mitra appoggiato al tronco. Una volta usciti provo ad entrare nella zona recintata esterna al museo, il poliziotto di piantone qui è un ragazzino che ascolta la musica dal cellulare e mostrandogli i biglietti del museo ci fa entrare, ma appena si mette i piedi dentro arrivano di corsa tre o quattro poliziotti urlanti con tanto di mano sulle pistole e ci fanno uscire con la classica spiegazione “No!”
Facciamo un giro largo e poi da una strada usata dalla gente del posto si rientra nella zona “proibita” che è ricca di tracce archeologiche, ci sono grandi muri in mattone crudo e basamenti di importanti edifici in pietra e un sito particolare con grandi blocchi a forma di testa umana con fronti  molto larghe che poi scendono a triangolo sul mento, con orecchie somiglianti a un felino più che a una persona. La zona è interessante ma arriva un tipo aggressivo che ci manda via dicendo che qui i turisti non ci possono stare. La Menfi attuale è una discarica, le rovine e i visitatori e la realtà devono rimanere due mondi separati, i tutori dell’ordine si capisce che hanno ordini ben precisi, gli stranieri non devono vedere che le rovine della favolosa Menfi giacciono sepolte sotto la spazzatura  circondate da capanne, case di mattoni crudi e sciamannati cubi di cemento dove la gente vive in condizioni di degrado indegne. Due mondi tenuti separati che si cerca in tutti i modi di non fare incontrare. Ritorniamo sulla via principale dove i bus dei turisti attraversano veloci la strada fino al recinto-museo pieno di guardie armate, non c’è rispetto per la gente sulla via a piedi, in bicicletta o sul ciuco, le corriere passano come turbini se non vuoi essere schiacciato ti devi spostare e ti lasciano solo una scia di vento polveroso, non so chi non odierebbe queste corriere e i loro occupanti se vivesse qui. Una delle attività principali in questa baraccopoli è la lavorazione del legno di palma, i tronchi vengono sbucciati con delle specie di zappe, è un lavoro che viene fatto da squadre di ragazzini, poi si procede alle varie lavorazioni, della pianta si sfrutta tutto dalla corteccia alle fronde, gli artigiani con grande abilità fabbricano letti, sedie, tavoli, ma è tutto intristito dai cumuli maleodoranti di spazzatura e dalle continue richieste in automatico “money, money, money” cerco invano di incrociare uno sguardo con una scintilla di curiosità comunicativa, ma trovo solo luce di rabbia e rassegnazione. Entrando nella via interna si incontra una bimba bellissima, una bellezza da bambola che cammina vanesia insieme ad una donna, forse la nonna, nella polvere del vicolo, un’immagine bella che l’anziana spenge in un attimo spingendomela contro e comandandola a chiedere un baschish. Arrivati sul ponte dove stamani il pulmino ci aveva lasciato, lo si attraversa per arrivare al villaggio e poi ritrovare il deserto della sponda occidentale, ma si cammina poco, una pattuglia della polizia ci ferma “stop no possibile dangerous”. Dopo una discussione in cui elencando i soliti pericoli di persone pericolose e distanze enormi, cercano in tutti i modi di farci tornare verso le zone turistiche caricandoci sui mezzi di trasporto, facendomi forza del fatto che non ci sono divieti si prosegue e il poliziotto più insistente dopo un breve inseguimento viene richiamato dal suo superiore. Appena lasciata la zona controllata per la protezione dei turisti il clima cambia e il pesante alone di malessere che ci avvolgeva si dissolve, il vialone di asfalto circondato dai canali arriva fino al cuore del villaggio, dove nella piazzetta polverosa è allestito un piccolo souk dove si vendono ortaggi e frutta. Micro banchi spesso formati da un telo o da una cassetta di legno di palma, spicca una donna anziana che vende pomodori, ha gli occhi piccoli e pungenti, di un colore strano sembrano di cenere bagnata, probabilmente è quasi cieca ma questi spilli grigi le accendono un’espressione da strega che viene accentuata dal volto rugoso, i grandi orecchini d’oro e il vestito nero completano l’opera, sembra la sorella povera di Palpatine. Finito il paese si entra nell’oasi, il palmeto è un altro mondo fatto di pace, ombra e gentilezza, questo è il regno dei fellah, i contadini che coltivano questa terra sciolta, aiutati dalla grande ricchezza di acqua. Si muovono scalzi e spesso hanno la schiena curva per la tanta fatica, il loro lavoro principale è quello di scavare i solchi per l’irrigazione e regimare le acque, sono persone semplici e gentili, è difficile salutare per primi e se sono fermi a riposare ti invitano sempre a prendere un the insieme a loro. La Menfi dei mondi separati e dei poliziotti sembra lontanissima. Purtroppo anche qui nei canali c’è tanta spazzatura e gli ibis che ci zampettano dentro sono diventati grigi da quanto sono sudici. Si cammina fra campi di erba medica e grandi estensioni di palme da dattero sotto le quali ogni tanto spunta una tettoia che ospita qualche bufalo, avvolti nel  silenzio che è interrotto solo dal rumore delle pompe a scoppio che spingono l’acqua nei coltivi più lontani dai canali.
Il tramonto delle Piramidi
Dopo le ultime palme è subito deserto, un confine netto, percorri dieci metri ed è subito sabbia, polvere e caldo. Si sale la prima duna e si sbuca direttamente nella grande necropoli del deserto occidentale  nella zona di Saqqara, un paio di chilometri a sud della grande piramide a gradoni. Anche questa come la zona di Abu Sir è interdetta alle visite, dopo pochi minuti ci troviamo dentro una grande area sacra, ricca di strade lastricate e mastaba, è una zona molto ampia che ha ricevuto massicci lavori di restauro. Ci sono tanti muri rifatti e anche delle grandi punte ricostruite a forma di piramide, ma ora il sito è in abbandono e la sabbia sta lentamente ricoprendo tutto. Dai cumuli dello scavo in gran parte formati da rocce bianche, si vede a poca distanza la piramide di Pepi I (2321- 2287 a.c.) il Faraone della VI dinastia successore di Teti di cui abbiamo visitato la piramide ieri. Anche se molto rovinata questa piramide conserva comunque la sua sagoma geometrica, camminiamo fra i tanti resti del suo imponente tempio funerario sparpagliati nella sabbia e poi si prova ad entrare nella piramide ma l’ingresso è chiuso da un robusto cancello allucchettato. Proseguendo verso sud il terreno diventa pianeggiante e un gruppo di ragazzini ne ha approfittato per imbastirci una partita a pallone a cui mi aggrego volentieri dando sfoggio a tutto il mio talento latente alzando grandi nuvole di sabbia.
Continuando verso sud arriviamo nella zona più interessante di questo settore dell’immensa necropoli di Menfi, dove si elevano la piramide di Pepi II e la gigantesca Mastaba di Al Faraun.
Pepi II è passato alla storia per essere stato il Faraone più longevo della storia dell’Egitto, salito al trono ancora bimbo regnò per novantaquattro anni dal 2278 al 2184 a.c. Ma oltre alla longevità, Pepi II non sembra aver avuto grandi meriti, anzi la storia ricostruita dagli egittologi ci dice anche che l’ultimo “vero” Faraone dell’Antico Regno è stato il principale artefice del declino del potere centrale, sotto la sua reggenza, probabilmente anche per la sua anomala lunghezza, il potere dei funzionari periferici divenne così forte da non riconoscere più l’autorità assoluta del sovrano e da lì a breve iniziò il cosiddetto Primo Periodo Intermedio.
Il sito, complice anche la luce bassa del tardo pomeriggio, è molto suggestivo, la Piramide che in origine era alta cinquantadue metri, ha perso tutto il rivestimento esterno e da vicino pur perdendo di geometria, acquista di imponenza per la grandezza dei blocchi. Purtroppo anche qui è impossibile accedere alla parte interna, però tutt’intorno, specialmente sul lato est, ci sono tante tracce evidenti dell’area sacra di questo tempio funerario, ci sono ben conservati grandi blocchi di granito rosso con incisi profondi geroglifici e resti di disegni che mantengono ancora tracce di colori, i meglio conservati sono dei blocchi con le stelle in rilievo, che mantengono un azzurro ancora molto vivo a dispetto degli oltre quattromila anni di vita. Poche decine di metri più a est un altro grande monumento ancora più affascinante, antico e originale: la grande Mastaba di Al Faraun, altro non è che il monumento funerario di Shepseskaf (2503-2498 a.c.) il figlio di Micerino e ultimo faraone della quarta dinastia. Questa enorme mastaba, che è un po’ una piramide nella prima fase costruttiva, probabilmente è stata completata come mastaba proprio per prematura scomparsa di Shepseskaf, rimane comunque un monumento imponente costruito con blocchi giganteschi di calcare. Per salire sulla sommità bisogna fare una piccola scalata, ma la vista di cui si gode da questo altopiano artificiale è impagabile e resa ancora più magica dalla luce del tramonto e dal fatto che ci siamo solo noi. Davanti a noi infuocati nella luce del tramonto i simboli più straordinari dell’Antico Egitto, le grandi piramidi dell’Antico Regno, i più grandiosi edifici in pietra che l’uomo sia mai stato in grado di costruire. A nord si staglia imponente la prima Piramide a gradoni di Zoser, il capolavoro del geniale architetto Imhotep che quarantasette secoli fa fu in grado di ideare e realizzare questo colosso, voltandosi a sud magicamente illuminate le due grandi piramidi di Dahshur volute da Snefru, il fondatore della mitica quarta dinastia, la poderosa Romboidale e la magnifica Piramide Rossa perfetta e simmetrica nei suoi 105 metri d’altezza. Erano passati poco più di cinquant’anni dal capolavoro di Imhotep e gli architetti di Snefru avevano realizzato la piramide perfetta, che poi farà da modello per quelle dei suoi successori, suo figlio Cheope e suo nipote Chefren, che di seguito faranno costruire le più grandi Piramidi mai realizzate di cui si riconoscono le sagome impeccabili che si stagliano nell’orizzonte violaceo a settentrione. Questo è il momento di massimo splendore e potere per i Faraoni, da qui inizia il declino, la piramide successiva, quella di Micerino non regge assolutamente il confronto e suo figlio Shepseskaf è rimasto addirittura senza Piramide. Mi piace questo tramonto dalla sommità della Mastaba di Shepseskaf, è il luogo perfetto per evocare ed enfatizzare il tramonto dell’epoca grandiosa, unica e irripetibile delle grandi Piramidi.
Con il tramonto la temperatura si abbassa di botto, mentre la chiamata dei muezzin in una smisurata  sovrapposizione cacofonica, si estende in ogni dove, è innegabile che questo sia il tempo dell’Islam in Egitto. Si cammina in direzione del grande palmeto e vi entriamo qualche chilometro più a sud rispetto al punto da cui ne siamo usciti oggi, c’è curiosità e stupore nel vederci passare dentro il villaggio, si cammina controcorrente al flusso degli uomini che si sta dirigendo compatto verso la moschea, fa una certa impressione questo convergere da ogni viottolino verso la moschea e il movimento dei camicioni chiari accentuato dalla luce ormai crepuscolare rende tutto molto suggestivo. Il villaggio ha un che di fiabesco con le case capanna e le strade di sabbia dove in ogni angolo c’è un’anfora di coccio con l’acqua per bere, ma sono soprattutto gli sguardi amichevoli a rendere piacevole questo passeggio come sempre accompagnato dai bimbi. Arriva il buio e tutti ci offrono aiuto e ci propongono merenda e the, purtroppo la polizia non permette di stare qui e dobbiamo tornare verso il Cairo. Dei ragazzi ci accompagnano fino ad un incrocio dove saliamo su un tuc tuc insieme a una famiglia divertita dalla nostra presenza, scaricati gli altri il bimbo autista ci accompagna alla strada principale e poi se ne ritorna al villaggio dove, secondo i racconti dei poliziotti e delle guide turistiche, si trovano i covi dei tremendi terroristi.
Soliti minibus e metro e ultimo mix frullatone, poi andiamo al Kunst per salutare Abbas e gli altri amici che sono stati molto gentili con noi, domani si parte.
Sono contento, oggi è stata una giornata densa, ma in realtà è già ieri da un po’, sono le tre e mezzo quando scrivo questi appunti.

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Luned?¨ 2 marzo 2009 Abu Sir e Saqqara ‚Äì Egitto

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Le Piramidi Proibite di Abu Sir
Si parte presto, il solito avvicinamento a Giza e poi i pulmini, con un po’ di difficoltà ci facciamo scendere al villaggio di Abu Sir “Ahramat Abu Sir” insisto, mi vogliono portare a “Ahramat Saqqara” del resto oltre a Giza è quello il sito dove i turisti vanno a vedere le piramidi. Abu Sir è chiuso alle visite, comunque nonostante la perplessità di autiere e passeggeri si scende all’incrocio per il villaggio di Abu Sir. La via cammina dritta fiancheggiata da campi coltivati e canali, l’umidità della mattina si dirada e viene fuori il verde acceso dei campi di erba medica, lungo la via si cammina controcorrente al flusso della gente che a dorso d’asino o sui carretti sta andando a lavoro nei coltivi portandosi dietro bufali e pecore. Uomini, donne, anziani e bambini, il lavoro della campagna non fa distinzione di sesso e di età, mi colpisce un carro condotto da una giovane  mamma, è tutta vestita di nero con dei grandi orecchini d’oro a forma di cerchio, fieramente al comando di un carro che sembra una casa viaggiante, a bordo con la mamma tre bimbi, il più piccolo la donna lo tiene in braccio imbacuccato dentro una coperta, mentre tiene le briglie, dietro domina una grande tinozza di latta piena di panni da lavare al canale, è un’immagine tzigana, il rimorchio è tirato da due asini, con un mulo legato a fianco e dietro a traino tre grandi bufale legate per le corna. Anche il carro è particolare, di solito le ruote sono pneumatici di auto o furgone, questo invece ha delle ruote piccole e strette, i cerchi sono massicci con i raggi di ferro e le gomme piene sembrano risalire al primo periodo coloniale, è strano anche l’asse che è montato su gigantesche balestre che nell’insieme gli donano eleganza e originalità. Sfilano mentre si entra nel villaggio, dove un venditore di minestra col suo carretto colorato, si prepara alla siesta, i due contenitori di latta a forma di anfora panciuta vengono chiusi con il coperchio, ormai gli uomini sono tutti nei campi e minestra fino a stasera non se ne vende più. C’è un piccolo souk fra il ponte e la via polverosa dove si vende soprattutto frutta e verdura, banane, aranci e pomodori la fanno da padroni, insieme ai cavoli che sono sempre più grossi. Qui stranieri ce ne viene pochi lo si capisce bene dalle occhiate e dal brusio che segue il nostro passaggio, che però viene sormontato dalle voci cantilenanti di un coro di bimbi, le seguo e mi trovo in una piccola scuola Coranica, che poi è il cortile inteno di una casa. Il maestro mi sorride e mi invita ad entrare, mi spiega che stanno imparando a memoria alcuni versi del Corano che inneggiano ad Allah ed a Mohammed, il suo profeta. Litania che i bimbi ripetono a sguarciagola chiudendo gli occhi dal tanto impegno, è un concetto di scuola arcaico ma la realtà è che questa è l’unica scuola che ho visto nel villaggio. Qualcuno guarda con sospetto e un tipo con una faccia da cinese si arrabbia con me perché faccio le foto, dicendo che questo non è posto per stranieri. In uno slargo c’è una discarica e ci sono dei bimbi che lavorano nella spazzatura riempiendo sacchi che ripongono su un rimorchio, c’è anche un piccolo capellone biondo che sembra il classico tedeschino che viene in vacanza all’Elba, chissà quale è la sua storia, di certo è povero e sporco come i suoi amici dalla pelle scura e come loro meriterebbe qualcosa di meglio da questo mondo. Dagli stretti vicoli del villaggio le donne passano portando pesanti carichi sulla testa, dai panni, alle casse di verdura, ai pentoloni, agli scaldabagni, è un labirinto sempre più stretto, il deserto è vicino ma sembra impossibile arrivarci. Ormai siamo tanti, la nostra presenza ha richiamato gente e cammino insieme ad una fiumana di bimbi festanti, a poco a poco anche le donne furtivamente, come se stessero facendo qualcosa di proibito, escono dalle case per vedere le foto dal visorino della camera, qualcuna mi porta anche i neonati per fargli le foto, sempre in queste situazioni viene forte il desiderio di avere una stampante portatile per regalare le foto e prima o poi devo trovare una soluzione, mi fa rabbia pensare a quanto si potrebbe fare con i tanti oggetti inutilizzati che giacciono dimenticati nelle “nostre” case. Si avvicina energica un’anziana signora tutta vestita di nero, ridendo ci chiede se ci siamo persi e poi prende a braccetto Serena e ci invita a casa sua, a fatica si declina però ci accompagna fino alla fine del villaggio dove il cimitero attuale incontra il deserto. Fa impressione vedere queste semplici sepolture al cospetto delle grandi piramidi sullo sfondo e anche le tombe antiche scavate nella roccia retrostante che sono oggi adibite a stalle. La signora ci saluta insistendo sul fatto che le piramidi da visitare sono dall’altro lato e indica ripetutamente la Piramide a gradoni di Zoser, con noi ci sono due ragazzini  aspiranti baschisciai, passiamo da una piccola oasi e poi entriamo nel deserto in direzione delle le tre piramidi di Abu Sir, che sono la parte più evidente di questo importante sito che è chiuso alle visite. Questo tratto di deserto è un luogo magico che ogni volta suscita meraviglia, con le impressionanti sagome delle piramidi che si susseguono da Dahshur a Giza. I bimbi sono depistati, speravano di accompagnarci verso Saqqara e invece io vado verso Abu Sir e passando dal deserto per evitare di incontrare poliziotti che sicuramente ci impedirebbero di raggiungere il sito interdetto alle visite. I due Mohammed cercano in tutti i modi di farci tornare indietro “no, no, Police Police, cobra, sciacalli” si inventano le peggio sciagure naturalmente  accompagante da espressioni disperate. Dopo un’oretta di cammino le piramidi sono vicine e si iniziano a vedere i resti delle strutture di questa grande antica necropoli dove si concentrano le principali sepolture della quinta dinastia, in lontananza lato deserto c’è una postazione di polizia e a metà strada, tra loro e noi, una squadra di operai che sta lavorando su uno scavo, uno di questi operai ci avvista e ci viene incontro, subito si offre come guida poi comincia a minacciare di chiamare la polizia se non lo paghiamo, insiste un po’ ma poi si stufa e fra moccoli e minacce se ne torna indietro. Man mano che ci si avvicina le tre Piramidi principali vengono fuori in tutta la loro imponenza e tutto intorno aumentano i reperti in pietra e in mattone crudo. La prima grande struttura che si incontra sono i resti della piramide di Raneferef (2448- 2445 a.c.) più che una piramide sembra una grande fossa in pietra, in effetti questa piramide non fu mai terminata e alla morte del faraone fu chiusa, i lavori vennero interrotti e fu chiusa come una mastaba, però è interessante perché si intuisce molto bene la pianta e come era la struttura interna di una piramide, che in pratica era una grande tomba in pietra sotterranea su cui poi veniva costruita la piramide vera e propria, purtroppo l’interno è intasato di sabbia e spazzatura. Camminando a fianco delle tre piramidi principali si scorgono i resti di templi e altre piramidi ormai ridotte a cumuli di sassi e sabbia seminascosti dalle dune, la più evidente delle quali dovrebbe essere quella della regina  Khentkaves II una delle mogli del faraone Neferirkara e mamma dei successori al trono Raneferef e Niusera. Anche le tre piramidi principali viste da vicino sono molto rovinate e pur rimanendo maestose, perdono di geometria e plasticità e assumono la foma di grandi dune di pietra e sabbia. Siamo arrivati da sud, le fiancheggiamo e ci spostiamo sul lato est davanti alla piramide di Sahura (2487-2475 a.c.) Sahura è stato il primo Faraone della quinta dinastia ad essere sepolto ad Abu Sir, in origine questa piramide era alta 50 metri ma oggi è almeno una decina di metri più bassa. Dal regno di Cheope a quello di Sahura era passato meno di un secolo ma tante cose erano cambiate, il potere del Faraone non era più assoluto, a partire da Micerino i sovrani avevano cominciato a delegare il potere e i burocrati erano diventati sempre più importanti nella gestione dello stato, il potere da essere tutto nelle mani del sovrano era stato diviso fra i vari funzionari e anche la ricchezza era più frammentata, di conseguenza i Faraoni non avevano più il potere e le risorse per far costruire Piramidi grandiose come quelle di Giza o quelle ancora più antiche di Snefru a Dahshur e Zoser a Saqqara. Davanti a questa Piramide l’area cerimoniale è ancora ben conservata, ci sono tracce di scavi importanti e si vede bene che anche i restauri sono stati fatti in previsione di un afflusso turistico che non è mai iniziato, ora tutto è fermo e la sabbia sta ricoprendo i grandi lastroni che pavimentavano l’area sacra. Siamo stati avvistati da due uomini che ci vengono incontro dicendoci che sono i guardiani e che bisogna andare via subito altrimenti loro devono chiamare la polizia, ma si capisce che con un baschish si risolve tutto, in realtà non gli pare il vero che qualcuno passi di qui per rimediare qualche pound, sicuramente la gente del villaggio sperava nell’apertura turistica del sito, che la biglietteria ai margini del deserto faceva presumere imminente, ma per il momento è tutto fermo. I due guardiani che sicuramente speravano di rimediare qualcosa di più se ne vanno verso il villaggio e noi si rimane “padroni delle Piramidi” egoisticamente è molto più bello così, avvolti nel grande fascino del silenzio con la piacevole sensazione di sentirsi esploratori, lo sfondo di queste piramidi semi sepolte dalla sabbia e i resti di colonne e obelischi richiamano le immagini dipinte da David Robert e dei primi cronisti dell’egittologia che raccontavano le loro incredibili scoperte. Ci sono ancora grandi zone pavimentate con grandi lastre scure di basalto, dove sono inserite le basi di grandi colonne di pietra bianca i cui mastodontici resti sono sparsi tutt’intorno, molto bella è la base di un obelisco in granito lucidato dove sono incisi profondamente geroglifici e cartigli e poi bassorilievi di stelle su travi e lastroni che dovevano essere la copertura dei templi. Fra i tanti resti due colonne in granito rosa a forma di papiro, intatte ancora in piedi e poi dei grandi blocchi di granito rosso ancora da lavorare, con incise le formelle sulla linea della tagliata, in tutto simili a quelle che si vedono nei graniti lavorati dagli antichi romani nei siti Elbani fra Moncione, Castancoli e Cavoli (Riva Glauca).      
L’area è molto grande e ricca di colonne e blocchi con bassorilievi con ancora qualche traccia dei vivaci colori originali, scavalcando un muro fra grandi blocchi si incontra quella che sembra un importante mastaba, ormai è a cielo aperto e al suo interno ci sono due grandi sarcofaghi, poco più avanti chiuso da un cancellino senza lucchetto il tunnel per accedere alla camera mortuaria, è uno scivolo ripido e stretto come un tubo quadrato costruito con grandi blocchi di pietra, ci entro al volo sentendomi tutto indiana jones ma lo stile della discesa è molto a rospo incrocchiato. La galleria  scende dritta nella stanza dove alloggiano i due grandi sarcofaghi che sono ricavati da monoblocchi, il più grande è chiuso da un massiccio coperchio ancora integro, l’altro si vede che è stato rotto per cercare i tesori della mummia, i due manufatti sono così lisci e perfetti che sembrano tagliati con il laser. Lasciata la zona ci spostiamo verso nord dove c’è l’ingresso della piramide di Sahura, i “guardiani” sono sempre in zona, al limite dell’area verde del delta che è molto vicina e bisogna sempre essere sul chi va là. Il cancello che ostruisce l’ingresso della piramide è aperto ma si cammina poco, una ventina di metri e poi un altro cancello questa volta chiuso, che ci obbliga a tornare indietro, è però sempre suggestivo muoversi in questi camminamenti bui. Ho la sensazione di essere osservato e almeno per il momento è meglio allontanarsi dalle Piramidi, spostandosi verso nord ovest le tre piramidi principali si vedono ancora meglio, la più grande e meglio conservata è la terza, quella di Neferirkara (2475 -2455 a.c.) fratello di Sahura e suo successore, assomiglia a quella a gradoni di Zoser ma perché è crollato tutto il rivestimento, infatti a quanto dicono gli archeologi che hanno studiato il sito, in origine questa piramide era alta settantadue metri mentre oggi arriva a una quarantacinquina di metri. Fra le due Piramidi dei fratelli c’è quella di Niuserra il figlio di Neferirkara che regnò come faraone dal 2445 al 2421 a.c. rispetto alle altre è ridotta molto peggio e nella calura del primo pomeriggio sembra una medusa in secco che scoglie al sole, ma anche questa in origine era alta cinquanta metri. Andando avanti si incontra una tettoia piantata nel nulla, sotto la sabbia però suona il vuoto, evidentemente sotto c’è qualcosa, spostandosi di pochi metri tanti resti di mura e lastre, forse sono i resti di uno dei templi solari di Abu Ghorab che erano dedicati a Ra il Dio sole, tutt’intorno migliaia di cocci e tanti resti di ossa umane e sullo sfondo a nord  la maestosità di Giza. Ritorniano brevemente al sito di Abu Sir ma solo per vedere che l’ingresso della piramide di Neferirkara è chiuso da una cancellata e intorno ci sono grandi cumuli di spazzatura. Si cammina verso Sud in direzione di Saqqara in questo deserto, millenario cimitero, che confina con il verde del delta del Nilo, dove ad ogni passo si incontrano tracce del passato, mentre dalla distesa sabbiosa imponenti riemergono anche le piramidi di Dahshur. Avvicinandosi a Saqqara ci sono tanti siti chiusi alle visite controllati dai poliziotti, fra cui il Serapeo, la necropoli sotterranea dove venivano conservati dentro giganteschi sarcofaghi, i corpi mummificati dei tori Api, che venivano venerati come animali sacri. È però aperta la grande Mastaba di Ti, i poliziotti di guardia, dromedario e mitra, fanno gli splendidi, ridono e ci pigliano in giro perché stiamo arrivando a piedi dal deserto, ci trattano da poveracci “no possibile. Ticket” ride il ciccio guardiano capo, ma lo frego mostrandogli il biglietto fatto a Saqqara l’altra settimana, in tre o quattro fanno finta di controllarlo, ma non si accorgono dell’inganno, così gli va a monte tutta la pantomima che stavano mettendo su per farci visitare la tomba dietro pagamento. Quindi si entra nella Mastaba, scoperta come il Serapeo da Auguste Mariette, si scende nel sottosuolo, c’è anche qui un cunicolo prima inclinato poi rettilineo che porta alla camera di sepoltura con il sarcofago, dove a fianco c’è una tipa strana che sembra in trance, risalendo si entra nelle parte decorata che è formata da più stanze tutte dipinte e ricoperte da centinaia di figure. Ti sopranomminato il ricco, era il funzionario responsabile delle Piramidi e dei templi solari di Abu Sir ai tempi della quinta dinastia, il ricco padrone di casa è raffigurato più volte spesso insieme alla moglie con un’autorità che sembra un Faraone, le tante stanze sono tutte ricoperte di bassorilievi e dipinti, ci sono raffigurate grandi barche, scene di pesca e di caccia, alcune stanze hanno le alte pareti interamente ricoperte da centinaia di uomini che portano offerte di ogni tipo e poi ci sono decine di scene di vita quotidiana che hanno aiutato tantissimo gli studiosi a capire come vivevano gli Egizi quattromila cinquecento anni fa. Ci sono scene di pescatori che calano le reti che si devono difendere da ippopotami e coccodrilli, fabbri che lavorano grandi sbarre di ferro con lunghe tenaglie su cui si siedono per piegarle e forme dove i ferri caldi vengono piegati, ci sono anche i vasai e i falegnami che hanno anche i trapani, la qualità e il realismo delle scene è entusiasmante e sembra veramente di tornare indietro di migliaia di anni. Peccato che dopo poco arriva il solito guardiano a chiedere bashish e a dire che è ora di chiusura, che rovina l’atmosfera e mi spinge ad uscire da questo luogo eccezionale. Poco più avanti si incontra il cosiddetto Emiciclo dei Filosofi, una serie di statue volute da Tolomeo I per onorare la memoria di insigni studiosi greci tra cui Platone, Talete e Omero, le statue sono ridotte molto male e giacciono sotto una soletta di cemento tristemente ignorate da tutti, con ai piedi un letto di spazzatura, fa strano ma pur risalendo a più di duemilatrecento anni fa, in questo contesto sembra roba recente, quasi contemporanea. Avvicinandosi alla grande piramide di Zoser passiamo sopra un cumulo di ossa da cui emerge un teschio perfettamente integro, dalla strada nei pressi passa un pullman che alza un gran polverone, siamo tornati nella zona dove si concentrano le visite turistiche. Passiamo a fianco della piramide di Userkaf e poi ci dirigiamo verso la piramide di Teti, dove ci sono parcheggiati diversi pullman che arrivano fino a qui per far visitare la Grande Mastaba di Mereruka che in parte è attrezzata per la fruizione turistica. Ci infiliamo dentro fra i gruppi di americani e francesi che la stanno visitando, questa è la più grande tomba che un funzionario dell’antico regno abbia mai avuto e comprende ben trentadue stanze. Mereruka era il sovrintendente dei sacerdoti durante il regno di Teti e il suo potere era secondo solo al Faraone, il “vice premier”  tra l’altro era anche imparentato con il sovrano, infatti la sua moglie Seshsehat era figlia di Teti. Nonostante il gran numero di visitatori è un luogo stupendo, con meraviglie da tutte le parti, anche nella stanza dei guardiani e anche nelle stanze che rimangono fuori dal giro turistico e che sono usate come cessi, ci sono incredibili bassorilievi dipindi alle pareti. Uscendo ci sono altre mastaba in zona ma sono tutte chiuse e poi ormai è l’orario di chiusura del sito, i turisti si sono come volatilizzati e tutti vogliono andare via. Appena più a est c’è la piramide di Teti, il primo faraone della VI dinastia che regnò dal 2345 al 2323 a.c. la Piramide all’esterno è piuttosto mal ridotta, ma l’ingresso è ben conservato e visitabile, il custode dice che ormai è ora di chiusura ma poi con la promessa di una visita toccata e fuga ci fa entrare, la discenderia è ripida e lunga una ventina di metri che poi diventa uno stretto cunicolo rettilineo, per fortuna breve che finice in un ampia stanza con uno spettacolare soffitto a v rovesciata costruito con grandi lastroni dalla precisione millimetrica. Da qui a sinistra si accede a una camera scarna, con poche incisioni, mentre a destra c’è l’apertura per la camera sepolcrale del faraone, la grande parete nera è tutta incisa con centinaia di geroglifici che recitavano le formule magiche, che avrebbero permesso al faraone di vivere in eterno, entrando nella camera mortuaria che ha il soffitto tutto ricoperto di stelle, si vede il grande sarcofago in basalto nero splendidamente conservato e anch’esso ricco di incisioni, è veramente emozionante essere qui dentro da soli, la magia è rotta dalle urla del guardiano che si lamenta perché vuole chiudere, si torna in superficie che non c’è più nessuno, il guardiano che poi non è così arrabbiato, chiude i lucchetti e i chiavistelli e si avvia verso il villaggio. È ormai chiuso, sfruttiamo questa inaspettata libertà per girare fra le piramidi secondarie, le grandi strade lastricate e gli infiniti reperti che sbucano da tutte le parti, c’è una piccola piramide con la parte superiore completamente crollata, nella vastità del sito è quasi invisibile eppure da dentro è enorme, con i blocchi di svariate tonnellate perfettamente combacianti che si chiudono sopra il cunicolo del sepolcro che è inaccessibile perché completamente invaso dalla spazzatura. Si continua a camminare verso sud in direzione della Piramide di Pepi I ma ormai si sta facendo buio e bisogna rientrare, domani comunque si torna per completare la visita. Ormai mi sembra di essere di casa e scendo ripassando dal viottolo che usano gli abitanti del villaggio ai margini dello scavo di Saqqara, sulla strada si rincontrano le carovane delle bufale che rientrano e si ritrovano i bimbi incontrati nella zona delle barche solari l’altra settimana con cui si scherza un po’ mentre si cammina. Poi veniamo affiancati da due poliziotti a bordo di una 405 che ci chiedono i documenti e ci fanno salire a bordo, provo a declinare l’invito ma il capoccia, un ciccione con la pistola seduto a fianco del conducente, mi fa cenno di no, dicendo che è pericoloso. Ci portano fino alla strada principale dove, dopo un po’ di tentativi vani, riescono a fermare un pulmino e dopo una trattativa con l’autista, che prevede un supplemento per il poliziotto, ci fa salire sul mezzo che è guidato da un ragazzino schizzato che guida come un disperato, con cui rischiamo più volte il patatrac. Spesso io venivo accusato di guidare cinghio come se facessi i rally, ma a confronto di questo andavo al rallentatore. Il traffico è rallentato anche perché stanno gettando le grandi travi della strada sopraelevata nei pressi del quartiere di Giza, è un cantiere che non si ferma mai nemmeno di notte, gli operai che armano gli enormi piloni con gabbie di ferro costruite con grandi tondini zigrinati sopra alti ponteggi, sembrano formiche illuminate dai riflettori delle ruspe e delle betoniere. Dopo il solito ultimo tratto ancora più delirante, ci prendiamo l`ormai classico frullato di frutta e poi si rientra.

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Domenica 1 marzo 2009 Il Cairo

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San Giorgio, La Casa di Gesù e il panorama rubato
L’aria del primo mattino è fresca e dalla coltre di smog si intuisce una giornata di sole, ho voglia di rivedere il cosiddetto “Cairo Copto”che visitai molto fugacemente una decina di anni fa. Si va con la metro e si scende alla fermata di Mar Girgis (San Giorgio in Arabo), siamo proprio davanti alla  cittadella fortificata del Cairo Copto, è un Cairo diverso sorprendentemente silenzioso e tranquillo, l’ingresso della Cittadella è ingannevole, come si confà a un posto gestito da preti, c’è una grande porta vistosamente segnalata come ingresso che fa erroneamente pensare che questo sia l’unico modo per accedere. I Copti si sono divisi dal resto della chiesa per la questione della natura non solo divina ma anche umana di Gesù, ma sul sistema di fa quattrini mi sembra ci sia totale affinità  con la santa romana chiesa, infatti l’ingresso con la biglietteria, le immancabili guardie armate e le  indicazioni per il Museo Copto, è studiata in maniera da far sembrare l’intera cittadella un Museo, in realtà basta spostarsi di qualche decina di metri lungo le mura per trovare gli altri ingressi che naturalmente sono liberi e gratuiti. Vicino all’ingresso dei preti ci sono due torri restaurate che costituivano la porta occidentale della Babilonia d’Egitto, le torri furono costruite sotto Traiano nel 98 d.c. quando qui i romani costruirono la cittadella fortificata, il cui nome non ha niente a che  vedere con la mitica Babilonia, ma probabilmente a quanto si dice deriva dalla“storpiatura” latina di Per-Hapi-en-On l’antico nome egizio del porto che un tempo sorgeva in questo luogo. Entriamo nelle mura, abituati alla frenesia del Cairo qui dentro sembra disabitato, davanti a noi il monastero di San Giorgio la struttuta più imponente da cui si accede alla chiesa omonima passando per un corridoio dove sono esposte reliquie, icone e strumenti di tortura fra cui una ruota ricoperta di lame che evoca immagini di orrore che viene “venduta”  per quella che affettò San Giorgio, c’è anche la presunta lancia che infilzò il drago, ma soprattutto sono esposte  immagini del santo raffigurato sempre mentre uccide il drago.
Le fantastiche sciagurate avventure di San Giorgio
San Giorgio, che poi è il profeta mussulmano venerato con il nome di Mar Girgis, è in realtà una figura avvolta nel mistero, da secoli infatti gli studiosi cercano di stabilire chi veramente egli fosse, quando e dove sia vissuto. Le poche notizie pervenute sono nella “Passio Georgii” tra l’altro considerate opere apocrife e non riconosciute dalla Chiesa, sembra che sia stato martirizzato con altri cristiani a Lydda in Palestina, più o meno dove oggi si trova Tel Aviv, nel 303. Sembra che Giorgio sia nato in Cappadocia ed era figlio di un persiano di nome Geronzio e della Cappadocia  Policronia che gli inculcò il culto cristiano, divenuto adulto si arruolò come soldato nelle armate Romane di Diocleziano (243-313) e vi rimase fino a quando l’imperatore Diocleziano, con l’editto del 303, dette l’ordine di perseguitare i cristiani in tutto l’impero spingendo Giorgio a rinnegare la sua scelta di soldato. La leggenda racconta che il soldato strappò l’editto e regalò i suoi beni ai poveri e per questo venne arrestato, davanti al tribunale confessò la sua fede in Cristo e non volendoci rinunciare, fu torturato e incarcerato. Qui gli appare in sogno il suo Dio che gli predice dolore e sgomento per sette anni, comprese tre morti a altrettante resurrezioni. Il racconto diventa sempre più epico, fantasioso e sciagurato: con i suoi poteri vince il mago Atanasio che si converte e per questo viene ammazzato; Giorgio viene tagliato in due con una ruota piena di chiodi e spade ma resucita e fa convertire il suo mandante carnefice Anatolio e tutti i suoi soldati, che vengono a loro volta uccisi a fil di spada; Super Giorgio “converti e affetta” non si ferma più, entra in un tempio pagano e con un soffio abbatte gli idoli di pietra, poi converte anche l’imperatrice Alessandra che viene martirizzata, l’imperatore lo condanna alla decapitazione, ma Giorgio (che mi verebbe da chiamare Iettatore più che santo) fa incenerire l’imperatore ed i suoi settantadue dignitari e poi promette protezione a chi onorerà le sue reliquie ed infine ormai soddisfatto di tutto questo sfracello si lascia decapitare.
Si tanta spettacolare e sanguinolenta narrazione spopola (a confronto Guerre Stellari e il Signore degli Anelli so’ più pallosi del Giangregorio che spiega la villa di Agrippa a Pianosa) il successo è immediato e il martire diventa un mito da subito, tanto che i numerosi fans dopo pochi anni dalla sua morte costruiscono una basilica a Lydda sul luogo della decapitazione.
Dopo quasi un millennio il trovatore Wace (1170 ca.) e successivamente Jacopo da Varagine (1293) nella sua “Leggenda Aurea” arrichiscono la già spumeggiante sceneggiatura con una scena che  diventerà la più mitica di tutte e permetterà al glorioso moro “Mar Girgis”di  diventare una star di prima grandezza anche in Europa. Nel remake medioevale Giorgio detto “converti e affetta”  uccide un Drago, la cosa piace a bestia tutti i più famosi artisti lo vogliono disegnare mentre inciccia il mostro, le sue immagini moltiplicano nelle chiese di tutt’Europa e i suoi fan club si diffondono in tutto il continente europeo e nelle isole britanniche dove trova i tifosi più affezionati.
La storia del drago è assai appassionante, ci racconta che nel lago vicino alla città Libica di Silene viveva un drago che ogni tanto usciva dall’acqua e andava in giro per il centro abitato uccidendo a fiatate tutte le persone che incontrava. I disgraziati dei Sileni per tenerlo bono ogni giorno gli  portavano due pecore, ma poi le pecore cominciavano a scarseggiare e furono costretti a cambiare  il menù al drago offrendogli pecora e un giovane tirato a sorte. Un giorno fu estratta la figlia del re,  il quale per evitare la sventura cercò di fare una lotteria offrendo al popolo il suo patrimonio e metà del regno, ma la gente si ribellò, (e qui si capisce che è un racconto fantastico) avendo già visto morire tanti suoi figli e dopo otto giorni di tentativi vani il re si arrese alla volontà popolare e alla giovane principessa toccò avviarsi verso lago. Ma proprio in quel frangente passò di lì il giovane cavaliere Giorgio, che una volta capita la situazione si mise all’opera per salvare la nobile pulzella  e quando il drago uscì dalle acque sprizzando fuoco e fumo pestifero dalle narici, Giorgio non si spaventò, salì a cavallo e affrontandolo lo trafisse con la lancia, facendolo stramazzare a terra. Poi disse alla fanciulla di non avere paura e di avvolgere la sua cintura al collo del drago; una volta fatto ciò, il drago la seguì bono bono fino alla città. Gli abitanti erano terrorizzati, Giorgio li rassicurò: ”Non abbiate timore, Iddio mi ha mandato a voi per liberarvi dal drago. Abbracciate la fede in Cristo, ricevete il battesimo e ucciderò il mostro”. Il re e la popolazione si convertirono e il prode cavaliere uccise il drago.
Era il tempo delle crociate e per dare vigore all’impresa militare serviva un mito di un guerriero cristiano e il martire Giorgio, ormai cavaliere dopo l’impresa del drago, era un meraviglioso santo guerriero e anche il drago era perfetto per la propaganda in quanto simboleggiava splendidamente la sconfitta dell’islam.
Da Riccardo Cuor di Leone, San Giorgio venne invocato come protettore di tutti i combattenti e successivamente nel 1348, re Edoardo III istituì l’ordine dei cavalieri di San Giorgio e il famoso grido di battaglia  “Saint George for England”. Il mito crebbe così tanto che sfuggì anche al controllo della chiesa, tanto che Giorgio veniva invocato dai contadini dell’est Europa per  sconfiggere il gelo dell’inverno.
Tutto questo “cinema” di guerra è stato costruito sulla storia presunta di un uomo vissuto tanto tempo fa, che probabilmente voleva solo smettere di fare il soldato e per questo venne ucciso. Un lavoro “mediatico” che ha attraversato un paio di millenni lo ha trasformato in un simbolo guerriero e in un grido di morte che, nella doppia versione di San Giorgio e Mar Girgis, durante le crociate veniva invocato da entrambi i contendenti come protettore della giusta causa.
Il Cairo Copto
Un fedele particolarmente devoto nell’impeto di baciare una tetra reliquia mi da una spallata e mi riporta nel presente. Si entra nella basilica di San Giorgio, è una chiesa recente che ha un centinaio di anni ed è la più grande del quartiere, ma rimane comunque molto piccola, se confrontata alle chiese italiche è praticamente un cilindro coperto da una cupola con al centro del pavimento  un altare dove il prete seminascosto dietro una specie di paravento, faccia all’altare e spalle alla gente (molto poca) recita le sue liturgie a braccia alzate; mentre al di qua della barriera una rinsecchita donna pia canta ripetitive litanie al microfono. Oltre alla mummificata canterina ci sono altre fedeli, le donne di chiesa sono tutte uguali, sempre con sorriso impostato sul “come sono buona e felice” la cofana grigia e il vestito triste e l’immancabile occhiata sgusciante giudicante e luciferina.
Lasciamo la cerimonia che raggiugerà il suo apice fra qualche ora e ci incamminiamo per i vicoli, la Cittadella è un dedalo di vialetti ombreggiati, uno porta dentro al cimitero ortodosso, che con le sue cappelle bianche di calce mi ricorda il cimitero di Ponza. Le tombe con le foto, le cappelle familiari, statuette, angeli e citazioni, è un luogo di ricordo a differenza di un cimitero islamico drammaticamente scarno e senza memoria alcuna dei suoi occupanti, che ti ribadisce ancora, come se i tanti predicatori non te lo dicessero abbastanza, che l’uomo è niente. Qui ti incuriosisci e ti immagini la vita, la personalità e le avventure di questi personaggi impressi dentro foto sbiadite,
il pancione elegante dal cognome italiano, il sorriso da mercante del baffone greco, la donna elegante me la immagino cantante, tanti sono gli spunti per agganciarci dei ragionamenti, dal vestito, dal sorriso o dallo sguardo cupo, dal sepolcro lineare, alla tomba barocca. Anche la semplice data di nascita e morte ti racconta, ti immagini l’epoca coloniale, la belle epoque, la seconda guerra mondiale, l’Egitto di Nasser, l’inverno, l’estate e il segno zodiacale, mi viene da pensare che al Foscolo in un cimitero Mussulmano i sepolcri non gli sarebbero mai venuti. Dimessi in un angolo tre custodi dall’aria annoiata si stanno preparando il the, chissà quanto e in che maniera frequentano i loro pensieri le storie delle centinaia di persone che riposano qui per l’eternità, sicuramente ora non vogliono l’interferenza del mio sguardo estraneo. Appena fuori dal campo santo si incontra la chiesa della sacra famiglia dall’aspetto moderno e insignicante ma che in realtà all’interno nasconde la chiesa più antica d’Egitto che sembra risalire al terzo secolo, ma soprattutto dal un punto di vista storico religioso, questo per i cristiani è un luogo assai evocativo ed importante, infatti la chiesetta è costruita sopra la grotta che si dice ospitò Gesù, Giuseppe e Maria durante il loro soggiorno in Egitto a seguito della  strage degli innocenti ordinata da Erode. La cripta è costruita dentro la grotta e adornata con quadri che raccontano della fuga e del soggiono, c’è anche una Maria gioiosa che allatta, la madonna con il seno scoperto l’avevo vista solo nelle chiese del sudamerica e da un tocco di leggerezza e umanità a tutte le enfatiche vicende epico religiose di cui è impregnato questo quartiere fortificato. Per raggiungere gli altri edifici visitabili si esce dalle mura e si rientra da una porta più a sud vicino a una grande lapide azzurra di ceramica con delle scritte bianche in greco e arabo. Arriviamo al Convento di San Giorgio, il convento è chiuso ma si scende nel sottosuolo dove c’è un grande stanzone disadorno in fondo al quale, da un grande portone di legno si accede alla sala delle torture dove ho letto che i fedeli copti si martorizzano in memoria del mitico Giorgio. Ci sono un po’ di persone quasi tutti giovani, c’è anche un gruppo di ragazze mussulmane in gita a studiare i riti dei copti. Mi levo le scarpe e entro, in realtà è una cerimonia molto pacata e pacifica, la gente si gira intorno alla vita una catena di ferro, la bacia e la riattacca al chiodo, qui tutto simboleggia il martirio di San Giorgio è tutto un baciare strumenti di tortura e icone. Questi riti di devozione mi hanno sempre perplesso, sopratutto ‘sti baciamenti, da bimbo il tredici dicembre mi piaceva andare in visita alla chiesa Pilese di Santa Lucia perché quella era anche la festa della comunità Bonalaccese e mi garbava sentirmi parte di una tradizione antica, però mi faceva schifo e non ho mai voluto baciare la croce su cui tutti ambivano poggiare la bocca e che il prete ripuliva con il solito fazzoletto all’infinito, tanto che alla fine su quel cencio e su quella croce c’era  la somma di tutta la bava dei Pilesi, dei Bonalaccesi e Filettesi e della gente de li Marmi e di Sant’Ilario e tutte le volte che mi trovavo nella calca della gente che spingeva per baciare il reliquario avevo il terrore che qualche zia spinta da fervore mistico mi prendesse in collo e mi spingesse contro quel coso sbavato.
Tornati in superficie un vicolo ci porta davanti ad una postazione di soldati armati con tanto di metal detector, ci controllano accuratamente lo zaino e poi ci fanno passare, siamo nella Sinagoga di Ben Ezra la più antica dell’Egitto, si dice che risalga al tempo di Geremia che qui radunò la gente di Gerusalemme dopo la distruzione della città e del tempio da parte di Nabucodonosor nel 586 avanti cristo (la stessa origine che rivendicava la Sinagoga di El- Ghirba a Jerba) l’edificio non trasmette nessuna emozione che possa farlo riallacciare ad un passato tanto lontano. Uscendo proprio di rimpetto la chiesa di  Santa (Sitt) Barbara, altra sciagurata martire, anche qui è in corso la messa, la chiesina è divisa in due settori da una parte gli uomini e dall’altra le donne, mentre i sacerdoti dietro i paraventi recitano litanie e spargono incensi. Esco dalla calca ordinata della piccola chiesa e dopo poche decine di metri mi ritrovo in un'altra chiesina, quella di San Sergio (Abu Serga) anche questa si dice costruita sopra la grotta che ospito Gesù e non c’è da stupirsi del fatto che poco fa ero dentro una cripta con la stessa storia, qui si sta parlando di luoghi frequentati da divinità e personaggi sovrannaturali, del resto anche Santa Barbara (che è proprio quella di Rio Marina e dei Pompieri) è stata decapitata lo stesso giorno (4 dicembre del 306) dal su’ babbo sia qui che a Scandriglia in provincia di Rieti e Dioscuro (nome perfetto per un Pagano) dopo aver scapato la figlia venne prontamente fulminato sia qui che in centroitalia.
Fra il tintinnio dei campanelli e le nuvole di incenso c’è comunque un clima assai rilassato e gioioso, niente a che vedere con le prediche incazzose dei muezzin. Seguendo il brusio litanioso dei fedeli, per ultima trovo la famosa Chiesa Sospesa, oggi ci sono solo queste chiese in attività ma mi immagino come doveva essere in passato quando le chiese in questa cittadella erano più di venti. La Chiesa Sospesa è costruita sopra l’acqua e poggia su pilastri risalenti al porto della Babilonia Romana e da una finestra sul pavimento si vede l’acqua sotto, questa è la chiesa principale dove    c’è  il prelato di grado più alto che tutto nero e col barbone bianco esplica la funzione in compagnia di altri quattro o cinque religiosi. Siamo arrivati alla fine del rito che è durato tutta la mattinata e mi prendo anche una schizzata di acqua santa, poi finiti i canti arriva un pretone con un cesto di pane che lo spezza a tocchi e lo distribuisce a donne e uomini, la gente mangia il pane benedetto e fa il giro della chiesa baciando le tante icone. Nel cortile interno alla chiesa si vendono immagini e libretti che hanno per protagonisti i vari Pope, attualmente a capo della chiesa Copta c’è Shenuda III ma le immagini che mi copiscono di più sono quelle del suo predecessore Cirillo VI che ha una sguardo magnetico e anche un po’ inquietante. Naturalmente fanno bella mostra le gigantografie con i pope amichevolmente assieme ai vari capi di stato Egiziani, da re Farouk a Nasser, Sadat fino all’attuale presidente Mubarak, a testimoniare i buoni rapporti del clero Copto con il governo egiziano. Uscendo si passa da un vicolo souk, siamo nel cuore della cristianità egiziana ma nei suoi bazar si vende di tutto, dagli dei pagani ai cd coranici e naturalmente anche qui i tutankammon di plastica dorata la fanno da padrone.
Il Nilo
Dopo questa lunga mattinata chiesaiola ci spostiamo verso il Nilo. Ritroviamo il traffico assordante e pericoloso, il lungo Nilo è relativamente tranquillo, c’è un largo marciapiede e lungo le zone banchinate ci sono tante grandi feluche attrezzate per portare i turisti. Qui è impossibile trovare una barca per risalire il fiume come lo intendo io, è tutto in funzione dei turisti, ma credo che verso Rosetta dove il Nilo sfocia nel Mediterraneo, riuscirò a trovare una barchetta come cerco, per il momento però ci sono altre priorità, innanzi tutto sistemare l’attrezzatura fotografica e poi visitare al meglio l’Egitto, una volta iniziata la risalita del Nilo non ci sarà tempo di fare troppe soste, meglio vedere prima tutto quello che riusciamo. Il fiume è grande e incute rispetto, è ricco di corrente che fa formare gorghi e piccole onde, l’acqua è verde marrone e specialmente in questo tratto deve essere un concentrato di inquinamento, è comunque un fiume in gran parte blindato ed è difficile osservarne il corso, per avere una bella panoramica del fiume la soluzione è salire in alto. In lontananza si staglia il grattacielo di un grande albergo con un disco in alto che dovrebbe essere un ristorante girevole, Serena mi convince a provare a salire, passiamo senza problemi i vari controlli e una volta dentro si prende un ascensore razzo che in un attimo ci porta quasi in vetta, dove c’è un gran terrazzone, si avvicina un cameriere a cinque stelle di quelli in alta uniforme, spacciandomi per cliente chiedo se si può salire in alto, mi guarda un po’ perplesso ma poi ci fa salire nel ristorante girevole che ora è chiuso. La vista sul fiume è spettacolare, l’isola di Zamalek e tutta la città che si spenge nel deserto, la cosa più magica sono le grandi Piramidi di Giza, che da qui si ammirano in tutta la loro maestosità, mentre in sottofondo la voce di Whitney Winehouse da un ulteriore tocco di magia. Nel frattempo il guardiano comincia a chiedere se si vuole prende qualcosa da bere, do una sbirciata al menù dove un antipasto ha il prezzo di quaranta minestre, il barista comincia a essere agitato ma lo fregamo scendendo con l’ascensore razzo. Siamo entrati in una specie di cittadella per turisti ricchi, c’è anche l’hard rock cafè con esposte le icone di Madonna, Cindy Lauper e simili. Ritornando verso la zona del museo archeologico si rincontra l’Egitto “miseria e sgomento” il confine è segnato dalla postazione militare con i soldati assonnati che se ne stanno all’ombra di un sicomoro con il mento appoggiato sulla canna del fucile e il pane dentro l’elmetto attaccato al chiodo della garitta.
Entriamo nei giardini del Museo Egizio intruppandosi fra le file dei turisti, qui ci sono ammucchiate decine di opere spettacolari risalenti al tempo dei Faraoni che non hanno trovato spazio dentro l’edificio. L’incuria delle opere antiche è una costante in questo paese e anche questa che dovrebbe essere la presentazione di tutto il patrimonio archeologico del paese non fa eccezione, i sarcofaghi sono pieni di spazzatura e le guardie e gli inservienti li usano continuamente come pattumiere. Mi sento estraneo come non mai, distante dai turisti, mezzi nudi frenetici e intruppati, e dagli egiziani abulici e disinteressati a tutto quello che non è money o Allah.
I militari con le baionette inserite fanno al guardia con fare ottuso e aggressivo e appena ti sposti dalla zona della facciata si agitano, vorrei sbirciare negli ingressi secondari e dai finestroni dei famosi seminterrati ma desisto. A fianco dell’ingresso del museo c’è una biblioteca, un cartello dice che l’ingresso è libero, il guardiano prova a buttarmi fuori con le solite scuse, insisto e interviene il il bibliotecario piccolino, isterico e acido, indispettito perché sono voluto entrare nel suo regno, ci sono centinaia di libri giganti scritti dai francesi nell’ottocento al tempo di Auguste Mariette, il mitico fondatore del Service des Antiquitès Egyptyennes e tanti altri testi, ci sarebbe anche una grande sala di lettura e delle mappe interessanti  ma è tutto interdetto e i libri si possono solo guardare da dentro le vetrine, c’è anche una scala a chiocciola che sale dentro il museo, deluso per non poter vedere niente gironzolo un po’ e poi per la gioia del bibliotecaro esco. È ormai tardo pomeriggio e fa freddo, il solito caos e le solite preghiere sui marciapiedi, poi finalmente in serata    da Heliopolis arriva la chiamata tanto attesa: la  macchina fotografica è riparata, una corsa nel traffico e si ritira l’apparecchio, sono contento me la sono cavata con 500 pound. Domani si va ad Abu Sir. 

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