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Il Grande Fiume dell’Uomo Facciamo colazione all’alba e poi ci salutiamo con Haroun, oggi si rientra a Tripoli e siamo sotto la responsabilità degli autisti. Ci viene a prendere un taxi immacolato, un lindo vito mercedes con al volante un autista tutto precisino che parla un inglese da Lord, ci fermiamo in paese per fare le fotocopie dei documenti da consegnare alla polizia nei vari posti di blocco e poi si parte alla volta di Sebha, dieci giorni di deserto mi avevano fatto dimenticare il rigido sistema Libico e il lusso dei loro mezzi rispetto al resto dell’Africa visto fino ad ora. Al campeggio di Sebha si cambia mezzo e si sale su un Mitsubishi Lancer guidato da un tipo silenzioso con un testone enorme a forma di cocomero. La strada è tutta dritta e risale verso nord fiancheggiando il deserto, la monotonia è interrotta solo da qualche cammello che attraversa la via e dai posti di blocco della polizia che sono dei baracchini in mezzo al nulla, poi è solo strada dritta fino a Shafren dove facciamo sosta come all’andata, nella grande area riservata ai distributori di benzina e alla ristorazione, ci mangiamo il classico sandwich kebab che sembra la specialità preferità dei Libici. Oltre ai soliti camionisti ci sono tanti militari e un gruppo di austriaci in fuoristrada che sembrano usciti dall’Afrika Korp, le donne e i bimbi non si vedono perché vengono fatti accomadare nei ristoranti interni a loro riservati dove gli uomini soli non devono accedere. Si riparte nel deserto di pietra, dopo poco incontriamo le tracce del grande fiume dell’uomo, il gigantesco acquedotto voluto da Gheddafi per portare le acque fossili del deserto fino alla costa. Questo progetto megalomane è ancora in fase di realizzazione ma alcune parti sono state già ultimate e stanno portando nella zona di Tripoli e di Sirte svariati milioni di metri cubi d’acqua al giorno. Il gigantesco acquedotto sotterraneo è formato da grandi tubi di cemento che vengono interrati a cinque sei metri di profondità e una volta ultimato si estenderà per oltre cinquemila chilometri formando anche un enorme deposito di stoccaggio di acqua. Il sogno di Gheddafi è quello di rendere verde tutta la fascia costiera Libica, il rischio è che in poche decine di anni si esauriscano tutte le riserve idriche del sottosuolo con conseguenze catastrofiche per il territorio e per la popolazione con il rischio di far fare alla Libia la stessa fine del Regno dei Garamanti. La strada prosegue nell’Hammada il deserto di roccia, ogni tanto nel nulla appaiono dei paesi in costruzione, grandi cantieri che sfornano paesi di impostazione moderna con palazzine a schiera, piazze e parcheggi e poi ancora il niente dove ogni tanto si incontrano delle piccole greggi di pecore che non si capisce cosa bruchino. In questo infinito rettilineo sotto il sole il rischio di addormentarsi alla guida è altissimo e poi cocomero ascolta da ore la stessa litania coranica che fa veni’ la voglia di ascoltare radio maria, si sta anche delle mezz’ore senza veder passare un mazzo, ma quando passano i convogli dei camion che portano i giganteschi tubi (larghi più dei cassoni) per il “Fiume dell’Uomo” ti svegliano di colpo dallo spostamento d’aria. Nel tardo pomeriggio finalmente il paesaggio comincia a cambiare, una larga discesa a tornanti ci fa scendere dall’Hammada e sull’orrizzonte qualche nuvola bianca da un’illusione di mare, testone abituato ai drizzoni del deserto sbocca tutte le curve, impugna il volante dal basso con i palmi rivolti verso l’alto stringendo con tutte e due le mani e ogni volta rimane incastrato nello sterzo, grazie a allah arriviamo vivi nel piano e si sbuca in un paese senza nome con chiesa italiana, il paesaggio è cambiato ci sono delle lenze di terreno fertile e tanti olivi. Siamo vicini a Tripoli ne attraversiamo l’infinita periferia rischiando continuamente di fare incidenti e finalmente a buio arriviamo nel centro. Qui veniamo presi in consegna da Tarek, il tipo che avevo contattato dalla Tunisia per ottenere il visto di ingresso in Libia, che ci accompagna in quella che dice essere la soluzione più economica di alloggio. Abbiamo un camerone che si affaccia su una delle vie principali dove troneggia una gigantografia del colonnello. “Hola! como estas” ci accolgono festose e curiose delle ragazzine che parlano spagnolo, sono una quindicina e alloggiano qui ospiti del governo Libico, sono qui per studiare sono esuli del polisario Marocchino e Algerino e le loro famiglie sono sparse fra Africa e Europa, soprattutto in Spagna, una di loro che ha la mamma che lavora a Roma parla italiano, mi dice che è di Layounne nell’ex Sahara Spagnolo dove sono stato quasi un anno fa. Ci sono problemi perché il Marocco non vuole riconoscere al polisario l’autonomia concordata e che la Libia, che appoggia il movimento, ha dato loro aiuto ospitandole e facendole studiare. Tripoli è una città con tanti grattacieli in costruzione e un gran traffico, ci sono tanti macchinoni e un gran gusto nel suonare il clacson, ci mangiamo una pizza e poi andiamo a dormire con gli occhi ancora pieni di deserto. |
CategoryNovembre 2008
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{youtube}aRzbqLi_5JA{/youtube} {youtube}WAJEhofhCuU{/youtube} Gebraoun il villaggio dei Dawada, i mangiatori di vermi |
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La Città dei Garamanti Durante la notte ha fatto tanto freddo, la più fredda da quando siamo nel deserto e stamattina la sabbia è gelida, intorno alla tenda ci sono tante impronte, quelle conosciute dei topi e del fenek e altre più grandi che Haroun mi conferma essere dello sciacallo. È una giornata bellissima e in lontananza le dune più alte iniziano a colorarsi con i primi raggi del sole, saliamo verso l’alto per dare l’ultimo saluto al Murzuq. Nella notte il vento ha disegnato nuove trame di sabbia le nostre impronte di ieri sera sono ancora perfette sottovento mentre sul lato esposto sono scomparse e al loro posto ci sono tante piccole ondulazioni, con il primo sole il Murzuq si colora di rosso mostrandosi in tutta la sua imponenza, purtroppo il trecento è definitivamente ko l’obbiettivo non funziona più probabilmente a causa della polvere. Appena tornati al campo si smonta la tenda e si parte, perdiamo quota avanzando verso nord attraversando gole di sabbia dalla forma indefinita, incontriamo una grande duna rossa e poi un mare giallo e liscio, poi ancora dune, se ne risale una piccola catena per poi scendere verso quella che viene chiamata la duna bianca che in realtà è un grande accumulo di gesso ricordo di un antico lago da tempo scomparso. È una distesa di gesso secco e fratturato, somiglia a una gigantesca pulitura di paiola dove è stato impastato il cemento bianco, anche la sabbia qui intorno è ricca di gesso, è un po’ bianca e un po’ grigia ed è molto pesante. Ci spostiamo sul margine esterno delle dune e usciamo dal Murzuq tornando nel mare di pietra nera ogni tanto interrotto da zone terrose dove, oltre ai “cocomerini”, si sviluppa una piccola savana di acacie. Avanziamo su questa terra piatta e polverosa con la sagoma infinita del Murzuq sempre sullo sfondo e poi ritroviamo l’oceano di pietra la cui monotonia è interrotta solo ogni tanto dai segnali messi dai ricercatori di petrolio, in realtà questa grande pianura è la montagna nera del Msak Settafet. Improvvisa davanti a noi si presenta un’apertura nella montagna e dall’alto si domina la striscia verde dell’oasi di Germa e il suo abitato con sullo sfondo il maestoso deserto di Ubari. Siamo tornati nel Wadi Al-Hayat che avevamo già attraversato arrivando da Sebha e da qui l’infinita distesa di roccia ritorna ad essere una montagna nera. Passiamo un controllo di polizia ed entriamo a Germa, è forte la sensazione di essere in un villaggio di confine, non tanto come nazione ma proprio come territorio abitato dall’uomo. Ci fermiamo a fare un po’ di spesa, come sempre in Libia i prodotti d’importazione abbondano, ci sono le banane dell’Ecuador, le mele della Val Venosta e la Nutella. Tutto è molto tranquillo e silenzioso, la maggior parte degli uomini veste alla maniera tradizionale Tuareg con il turbante che copre tutto il volto, donne in giro non ce ne sono ed è ci sono i bimbi che guidano le auto. L’oasi che da lontano sembrava grande, in relatà è piuttosto strimizzita e al suo interno c’è tanto secco. Attraversata l’oasi ci fermiamo ai margini del deserto di Ubari, una pianura arida con qualche acacia e tanti cumuli di terra che con l’effetto miraggio assomilgliano a tante piccole isole e poi ci spostiamo verso le rovine di Germa Antica. Dell’antico insediamento non rimane quasi nulla, solo qualche perimetro di mura, i resti di una grande villa di un ricco mercante romano, le tracce di un tempio dedicato a una divinità egizia e un po’ di rovine di architetture risalenti al periodo romano. Ma la parte più affascinante è quella della successiva fortezza berbera edificata con mura di fango, che il tempo ha sgretolato e reso spettrale, ci sono i resti di diversi torrioni di avvistamento e di diverse abitazioni più recenti alcune delle quali sono state restaurate e altre tracce relativamente recenti perché comunque l’insediamento è stato abitato fino a pochi decenni fa. Germa era la capitale del regno dei Garamanti i mitici condottieri delle quadrighe del deserto che abbiamo visto raffigurate nell’Acacus, popolazione che il tempo ha disperso ma di cui i Tuareg si riconoscono eredi. I Garamanti sono una delle civiltà antiche più misteriose ed affascinanti, su di loro non sono mai stati fatti studi approfonditi e gli scritti lasciatici dagli storici dell’antichità sono pochi, si sa che erano di pelle chiara probabilmente di origine mediorientale e si presume che vivessero già in insediamenti stabili da prima del mille avanti cristo. Il primo a parlarne è Erodoto nel 500 a.c. che ci racconta che coltivavano con l’aratro cospargendo di terra fertile il terreno salato, che allevavano bovini con le corna così grandi che erano costretti a pascolare a ritroso e che a bordo di carri trainati da quattro cavalli cacciavano i veloci “Etiopi trogloditi” del deserto per renderli schiavi. I Garamanti erano rinomati nell’antichità come eccellenti allevatori di cavalli e abili carovanieri specializzati nel commerciare su lunghe distanze , come predoni e venditori di schiavi, ma la loro prosperità era legata soprattutto alla grande abilità nel raccogliere e convogliare le acque fossili del sottosuolo che permise loro di sviluppare una fiorente agricoltura, con grande maestria costruirono centinaia di canali sotterranei chiamati in arabo “Foggara” per portare l'acqua nei campi, alcuni dei quali vengono usati ancora oggi. Questa grande capacità di ingegneria idrica decretò il loro dominio sul territorio ma fu anche causa del loro declino perché le riserve di acque fossili piano piano andarono esaurendosi e la falda si abbassò progressivamente fino a prosciugarsi. Agricoltori e predoni i Garamanti però non conoscevano l’uso della metallurgia, mancanza a cui supplivano commerciando con gli empori della costa mediterranea, chissà se nell’antica Garama è mai arrivata una spada forgiata con l’Oligisto Elbano e se all’Elba sia mai arivato un gioiello adornato con l’amazzonite, una preziosa pietra dura conosciuta anche come smeraldo garamantico, che i Garamanti estraevano nei monti Tibesti. I Garamanti grazie al loro isolamento geografico non subirono mai aggressioni da punici e greci, mantenendo integre le loro usanze che pare fossero assai originali, le donne che erano le padrone delle abitazioni erano un bene della comunità e il loro prestigio aumentava con il numero degli amanti; i bimbi erano proprietà della madre fino all’adolescenza, quando l'assemblea di saggi ne stabiliva la paternità in base alla somiglianza fisica, la donna godeva di elevato prestigio e vigeva il matriarcato, come oggi fra i Tuareg. Una ferrea regola impediva che gli anziani gravassero sulla collettività e arrivati a sessanta anni i Garamanti si dovevano uccidere strangolandosi con un budello di bue. Il loro dominio su Garama e i suoi territori finì intorno al settanta dopo cristo per mano dei Romani che stufi delle loro azioni di razzia sulla costa e a seguito di alleanze militari con gruppi berberi nemici, attaccarono e sottomisero Germa. La città e la sua gente si romanizzarono ma rimasero comunque sempre legate alle loro tradizioni culturali e religiose e mantennero il proprio re. I Garamanti avevano culti religiosi simili a quelli egizi e i loro re venivano sepolti in piccole piramidi (ne abbiamo viste alcune restaurate, che in realtà non hanno un gran fascino, più che restaurate sono ricostruite, poco prima di entrare a Germa). Garama diventa una città Romana anche architettonicamente ma il regno dei Garamanti continua per un paio di secoli a governare un territorio assai ampio, poi come abbiamo detto la civiltà urbana fu sconfitta della mancanza di acqua e la maggior parte dei Garamanti tornaronono alla vita nomade abbandonando l’agricoltura e specializzandosi nella pastorizia e nel saccheggio. Il regno e Garama comunque rimasero e nel 569 il re dei Garamanti firmò un trattato di pace con i Bizantini accettando anche il culto cristiano. Storicamente il regno dei Garamanti si chiude con l’avvento dell’islam nel 668, documenti arabi ci dicono che il re dei Garamanti venne portato via in catene dai maomettani e tutta la regione abbracciò l’Islam. L’attività carovaniera rimase comunque prerogativa della gente del deserto che presero il nome di Tuareg, che ancora oggi sono quello che ci rimane di questi indomiti guerrieri e abili idraulici del passato. Dopo un paio d’ore ci ritroviamo con Yaya e ripartiamo alla volta del deserto di Ubari, anche questo è un mare infinito di sabbia che si estende per centinaia di chilometri verso nord ovest ricollegandosi al Grande Erg algerino. Nel primo tratto ci sono tante tracce di fuoristrada anche perché questo è un deserto molto più battuto rispetto al Murzuq e qui vicino ci sono i famosi laghi Ubari che andremo a visitare domani, ma poi spostandosi lateralmente si ritrova una zona più incontaminata dove montiamo il campo e andiamo a fare una camminata. Qui le dune non sono enormi come quelle del Murzuq, ma hanno forme più morbide e rotondeggianti e i colori sono meno rosati, fra due campi di dune si incontra una grande radura con qualche cespuglio dove il vento ha modellato tante minuscole dune disegnando un’icredibile trama di disegni geometrici che acquistano profondità e magia nel gioco di luce e ombre del tardo pomeriggio. Dopo il tramonto rientriamo al campo portando un po’ di legna per il fuoco, qui il freddo si sente ancora di più per via dell’umidità dovuta alla presenza dei laghi. |
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{youtube}RbfqI9ua1Mw{/youtube} La duna più alta |
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{youtube}V8ZEqwXltk8{/youtube} {youtube}6VF2ossI1gM{/youtube} Smisurato Murzuq Mi sveglio nel freddo asciutto della duna, nel cielo pallido di Ponente la luna galleggia come una medusa di ghiaccio. Stamani la potenza vermiglia dell’alba è smorzata da un tendaggio di nuvole bigotte e irradia insolitamente pallida la smisurata distesa di sinuosità accavallate. |
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{youtube}ZIsv218ptAs{/youtube} Il cacciucco del deserto |
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{youtube}cnkdCW2tsrU{/youtube} Acacus sinfonico
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{youtube}yE7C092M9xg{/youtube} Il piccolo grande arco, il serpente e i Priapo del deserto |
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{youtube}X14_FTJaKKI{/youtube} {youtube}mJ7cJdMFkL8{/youtube} Dune rosse e Luna metallo |
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La montagna dei fantasmi e il pianeta Acacus Mi sveglio con il primo chiarore, è freddo ma secco il telo della tenda è asciutto, la sabbia è fredda ma già spolvera sotto i piedi, salgo sulle prime dune per fotografare il sole che sorge da dietro l’Acacus, i corvi che nei posti più belli non mancano mai mi osservano dalla duna più alta. Arriva il sole e la sterminata e informe distesa di sabbia prende immediatamente forma tingendosi di rosso e di arancio, è un mare di onde giganti e immobile che si perde infinito a ovest in territorio algerino. Ritorniamo sulla pista principale per raggiungere Ghat, lentamene davanti a noi si inizia a definire la sagoma scura di Kaf Ejoul la montagna dei fantasmi, man mano che ci avviciniamo la forma diventa sempre più complessa e somigliante a una gigantesca cattedrale gotica, poi la calura che comincia a far salire la foschia aggiunge un ulteriore tocco mistico ai picchi erosi. Incontriamo un palmeto e una zona con un po’ di vegetazione che cresce grazie ai “foggara” canali sotterranei scavati dai Garamanti per portare in superficie le acque del sottosuolo, che mi riportano alla mente i canali nel deserto peruviano scavati dai Nazca che costruivano acquedotti sotterranei portando l’acqua originata dai nevai dei picchi andini nel deserto e poi fino al mare. Ci fermiamo vicino a una carcassa di dromedario, per i Tuareg Kaf Ejoul è un posto da evitare, è il luogo dove si danno appuntamento i “Djinn” gli spiriti immortali dalle sembianze umane che fra i picchi arcigni della montagna si ritrovano tutte le notti proveniendo da luoghi e epoche lontane. I “Djinn” si dice che abbiano barba e capelli rossi (questa credenza ha portato i tuareg per secoli ad evitare il contatto con i rossicci europei) nella notte si sente il suono dei tamburi e il canto ammaliante di donne che festeggiano, ma nessuno di quelli che si è avicinato è mai tornato indietro, chiedo a Yaya e Haroun di raccontarmi della montagna, non si sbilanciano però assolutamente non ci vogliono andare e non vogliono nemmeno che ci si vada noi, Yaya racconta “una volta io sentito musica la notte e andato via, io paura non sai cosa c’è, ma c’è qualcosa tutti lo sanno e nessuno va”. Yaya assolutamente non ne vuole sapere, ma Haroun che è giovane e ha gli occhi scintillanti sarebbe tentato di salire con me però il capo è Yaya e comunque va bene così, la carcassa di dromedario a bordo strada sembra ammonire sul non forzare le credenze. Il cielo diventa sempre più tremolante e vaporoso e le figure disegnate dall’erosione che sui picchi scuri di Kaf Ejoul sembrano acquistare movimento, è un paesaggio maestoso e inquietante dove non riesco a percepire dimensioni e distanze, e il reale si miscela con il fantastico è difficile mantere la mente nei binari della razionalità e se nella montagna delle adunanze dei Djinn si nascondesse una porta spazio temporale? Un passaggio verso la quarta dimensione e i misteriosi e terribili spettri dalle chiome rosse potrebbero essere eruditi viaggiatori nel tempo costretti a custodire con spietato rigore questo immane potere troppo grande per essere divulgato alla stupidità umana. Il rettilineo si dissolve nell’ennesimo miraggio, ma questa volte non si perde nell’aridità, cresce in una grande macchia verde, è un oasi siamo arrivati a Ghat. Ghat è un villaggio di confine siamo sulla frontiera Algerina e a un centinaio di chilometri dalla frontiera del Niger, attualmente con Ubari è il più importante insediamento fisso dei Tuareg. Ghat fu fondata dai Garamanti era una delle oasi fortificate più importanti del loro regno perché proteggeva il fianco meridionale di Garama (la Capitale) la medina attuale risale in gran parte al 1200 ma qui c’era un insediamento importante gia nel primo secolo avanti cristo. Al tempo delle grandi carovane transahariane era una città ricca e importante, anche se non come Ghadames, in posizione strategica per raggiungere le oasi del Niger e poi proseguire nel Mali per la mitica Timbouctu, Ghat si avvaleva della protezione delle le tribù guerriere tuareg alle quali i mercanti e i carovanieri pagavano il pizzo per garantire l’incolumità dei convogli. L’accordo funzionava bene tanto che la zona “protetta” fra Ghat e il Niger era chiamata dai tuareg “terra di pace”. Gli uomini blu erano i caschi blu del tempo, sembra un paragone irriverente e forse offensivo ma le camionette armate dei caschi blu visti lo scorso anno al confine tra il Marocco e la Mauritania a supervisionare sulla questione dei Saharawi, mi sembravano semplicemente corpi di militari professionisti (volontari è più elegante di mercenari ma secondo me anche più improprio) ingaggiati per difendere la pace. Ghat era governata da un sultano la cui discendenza si tramandava come da tradizione tuareg da linea femminile, il sultanato mantenne una grande autonomia che gli permise di commerciare senza problemi con gli stati vicini, questa situazione di “stabilità” si interruppe nel milleottocentosettantacinque quando i Turchi occuparono il Sahara e l’indipendenza di Ghat finì, fatto che unito all’abolizione della schiavitù avvenuta pochi anni prima ne sancì il declino. L’insediamento fu poi amministrato dagli italiani durante il periodo coloniale e subito dopo dai francesi. Arrivati alla porta della medina Yaya ci lascia e va a fare benzina, lui qui non sarebbe venuto, per lui non ne valeva la pena di allugare di duecentocinquanta chilometri per venire qui e poi i tipi che gestiscono la medina non gli stanno simpatici “non c’è niente da vedere solo souvenir per turisti”. Ormai il sole è alto e abbagliante avvolge tutto, caldo secco, polvere, silenzio, mosche e contrasti netti di colore ma su tutto una luce forte acceccante che ti sfida ad attraversarla, è la luce dell’Africa. All’ombra di una tettoia di foglie di palme un gruppetto di uomini attende i visitatori,ci osservano in silenzio e ci offrono un the, si vede che non sono arabi, si paga il biglietto e il custode della medina ci indica la via. La porta d’ingresso è molto piccola è un arco che si apre nella muratura di paglia e fango, i vicoli dal fondo di sabbia sono stretti e ci proteggono con la loro ombra, la maggior parte delle case sono abbandonate da quando gli abitanti originari di Ghat si sono trasferiti nel nuovo insediamento poco fuori le mura, il solito processo di modernizzazione voluto da Gheddafi. Solo qualcuno è rimasto perché non ha voluto rinunciare al confortevole fresco delle case della medina, oggi però specialmente nella parte bassa della città vecchia ci sono diverse case abitate che sono state occupate da immigrati provenienti dal Niger. Una rampa di scale porta a una piazza rialzata, questo era il cuore della città dove si radunava la gente e venivano pronunciati i discorsi publici. Una scalinata ci porta sulla roccia che domina la medina dove si trova il forte italiano, rispetto alla medina la roccaforte in pietra ha un aspetto imponente con le massicce torri rotonde che ne potenziano le difese sui fianchi, dentro è una caserma, con questo clima secco tutto si conserva immutato e anche il forte sembra essere appena stato abbandonato, dalle sue mura si vede tutta la medina, il souk e anche l’oasi e il villaggio moderno. Scendendo incontriamo un anziano “buongiorno italiano” quando era un bimbo qui c’erano i soldati italiani e lui ha imparato un po’ di italiano, mi dice che qui gli italiani si sono comportati bene a differenza dei francesi che sono arrivati dopo, ha rughe profonde e occhi larghi e sognanti mi piacerebbe fargli un ritratto ma è sempre imbarazzante fare le foto alle persone con cui scambi emozioni, a volte sembra di sminuire il valore degli sguardi e delle parole. Passiamo davanti alla casa di un gigante arrivato dal Niger e poi usciamo dalla città fortificata. Yaya ci sta aspettando, partiamo subito non ha ancora fatto benzina perché la fila era troppo grande, per quanto possa sembrare strano fare benzina da queste parti è complicato perché i distributori sono pochi e non sempre c’è il carburante e spesso la fila è composta da decine di macchine e durante l’attesa il distributore diventa una specie di piazza. Fatta benzina si torna verso Nord, pranzo sotto le acacie, poi sosta a Al-Aweinat per comprare l’olio per il motore del vecchio Land Cruiser e si parte verso il mitico deserto delle pitture rupesrti. Insieme al Murzuq e al deserto bianco, l’Acacus era uno dei luoghi del Sahara che sognavo di vedere quando all’Elba mi immaginavo e sbozzavo il percorso del giro del mondo. Siamo dentro, è come essere in un altro pianeta, racchiuso fra imponenti montagne nere l’Acacus è diverso da tutto quello visto prima, un deserto di sabbia dorata e basalti scuri erosi nelle forme più incredibili che si perdono in un paesaggio indefinito, rarefatto e nebuloso, tutto sembra evaporare per il gran caldo. Ci sono delle impronte di fuoristrada, ma Yaya è schivo e prende un'altra direzione e questo mi piace, la magia di un luogo è fatta anche dalle persone e la fortuna ha voluto che l’Acucus lo vedessimo insieme a Yaya il silenzioso. Attraversiamo uno dei tanti Wadi della zona, il calore del sole nebulizza i contorni delle mille forme cangianti che ci scorrono intorno, un mondo di roccia nera e sabbia ocra, i basalti che galleggiano nel riverbero della sabbia come piramidi e isole, il “pianeta acacus” è un “inferno paradiso”. La mente non ce la fa a stare ai fatti, troppi stimoli di figure indefinibili e mutevoli e in un caleidoscopio di suggestioni in controluce diventano faraoni, guerrieri, odalische, sceicchi e draghi. Attraversiamo un mare di piccole dune compatte e poi ci fermiamo ad ammirare il grande dito di roccia, vediamo anche le prime incisioni, sono iscrizioni in carattere Tifinagt la lingua dei tuareg (i cui caratteri sono molto simili al Tamazigh) e dovrebbero risalire a tremila anni fa. L’Acacus è il territorio Tuareg per eccelenza, vivono qui da sempre con i loro animali spostandosi costantemente per gestire in maniera oculata le poche risorse di acqua e vegetazione che questo ambiente offre, oggi si sono quasi tutti trasferiti a Ghat diventando stanziali ma qualche famiglia continua a vivere qui nella maniera tradizionale, schivi e refrattari ai cambiamenti. Vediamo le case di un nucleo familiare, sono capanne di paglia appoggiate sotto una grande parete scura, mi immaginavo di trovarle ai margini della foresta ma non nel deserto le capanne di paglia, ma come dice Yaya “c’è acqua, biggolo bozzo per gente di acacus e erba basta per fai casa” gli chiedo se possiamo andare a vedere ma mi dice che “loro piace tranquilli” “tuareg no arab” aggiunge Haroun e di nuovo Yaya a chiudere “IMASHAGHEN” altro modo per definire i tuareg che significa nobili e liberi a significare che se uno sceglie questo stile di vita è per avere la tranquillità e la libertà che svanirebbero avendo intorno estranei in cerca di souvenir. In alcuni punti c’è un po’ di vegetazione, acacie e strani alberi che fanno un frutto tondo tipo una zucca, è un albero che non ha nome, non se lo merita perché non è buono “nemmeno per cammello”. La giornata è volata andiamo verso le montagne più alte e montiamo il campo in un posto fantastico. Salgo da una duna appoggiata al monte per raggiungere un picco che regala un panorama a cui nessun superlativo può rendere giustizia, il sole sta ponendo mentre sale la luna piena, intorno a me un mare di forme e colori, isole e piramidi nere e perfette si ergono dal lago di sabbia mentre il disco gigante dell’astro infuocato si cala dietro il crinale nero che chiude un orizzonte circolare. Devo cambiare l’uso degli aggettivi, da oggi sarò molto più parco nell’uso dei superlativi, ma non per questo tramonto bellissimo. Serata intorno al fuoco illuminati dalla luna tonda fra racconti e indovinelli spesso disegnati nella sabbia, è una notte di stelle cadenti anche loro qui sembrano più grandi. Prima di entrare in tenda mi godo il privilegio immenso di una camminata notturna nelle sabbie del Pianeta Acacus. |
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