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Motopia, la Casa della Fantasia È mattina presto, dormono tutti nella quiete del palmeto solo i gatti sono già svegli, è un’inizio di primavera di solleone e palme in fiore. Attraversiamo l’oasi quieta e laboriosa fino a Dakrur, cerchiamo e troviamo la scuola della libertà, un arco di foglie di palme si apre su un recinto di colore e una casa di sale senza porte, è il trionfo della fantasia, qui nella rigida Siwa tra tradizioni cupe, regime e islam, a contrasto risplende libera Motopia, la scuola voluta da Mohamed Fawzy, un inno di libertà nella polvere, un apparente caos che emana l’armonia nel suo denso accumulo di sparpagliata creatività, mille disegni e sculture di plastica riciclata, legno, terracotta e filo di rame e di ferro, capanne di fronde di palma, letti, amache, antenne, reti, animali, libri, cd, quaderni, computer, lucidi e mostri benevoli. Non c’è nessuno, si gironzola fra scheletrici Don Chisciotte di filo di rame, disegni a china, acquarelli e totem di bidoni e legni, il fruscio tintinnante delle girandole ombrellate e centinaia di origami multicolori che balzellano appesi al soffitto e poi lenzuoli dipinti con decine di omini dalle mani enormi e tante foto e collage con dentro di tutto un po’. Arriva Mohamed trafelato, era andato a rimediare un po’ di materiale per fare il tetto alla biblioteca di Motopia, è dispiaciuto che non ci sono bimbi ma a quest’ora sono tutti a lavoro, oggi è giorno di festa a scuola e i bimbi aiutano i genitori. Motopia non è ben vista dalla maggior parte dei genitori e nemmeno dalla scuola, che sia Coranica o di stato, ma i bimbi ci vogliono venire e spesso ci vengono di nascosto, per questo è sempre aperta, tutti possono venire quando e con chi vogliono e qui si sta tutti insieme maschi e femmine. Mohamed è una figura leggera, ma ha potenza, coraggio e carisma ed è riuscito ad ottenere la stima e la fiducia anche di un po’ di genitori che sono felici di mandare i figli qui e in altre attività fatte da Mohamed, come andare coi bimbi a dormire nelle dune del deserto… che spettacolo che sarebbe portare qui i bimbi Elbani, sarebbe un’esperienza indimenticabile e lo sarebbe anche per i “grandi” Isolani che le cose le vogliono fa’ ma solo in teoria, sempre frenati da mille paure e finti problemi, ma intanto il contatto è stabilito, questo è uno di quegli incontri speciali che aprono prospettive future importanti. C’è una festa nella zona del villaggio di capanne costruito sul fianco ovest della collina di Dakrur, quello della grande ricorrenza di Siyaha, ci sono un centinaio di persone, le donne coi bimbi stanno in basso dove ci sono i pentoloni del cibo e gli uomini in alto al fresco delle costruzioni. Si gironzola per l’oasi fra laghetti e coltivi incontrando tanti bimbi che lavorano e che giocano, facciamo anche un tratto su un carretto guidato da un ragazzino ciccione che ci offre un passaggio. Nel piccolo villaggio ad est delle montagna dei fantasmi, si incontra una bimba pittrice che sta disegnando su un cartone inzuppando uno stecco in un bussolotto di acqua sporca di vernice, è una delle bimbe che frequenta Motopia, insieme a lei il fratellino piccolo e due sorelline più grandi. Mi fermo un po’ a giocare con i colori e piano piano si diventa sempre di più, dietro ogni bimba c’è sempre una bimba più grande, poi una ragazzina e un’altra ancora più grande, un effetto matrioska che finisce nella penombra dentro lo sguardo di una donna velata. Nella zona della festa c’è una partita di calcio fra donne, sono coreografiche con i veli sventolanti ma quando ci vedono smettono di giocare e fuggono via. La festa sta finendo e le persone cominciano ad andare via salendo sui cassoni dei pik-up, un gruppo di ragazzine si avvicina gioioso, sono incuriosite da Serena vorrebbero farsi qualche foto ma la loro esuberanza è bruscamente interrotta da un paio di adolescenti dal pelo vano, che seri e bacchettoni le mandano via urlando, completamente assorti nel ruolo di castrati e castratori celebrali, il vuoto alienato e severo dei loro sguardi mi fa capire ancora di più le difficoltà incontrate da Fawzy e la sua determinazione. La via che da Dakrur conduce a Siwa regala sempre grandi scorci di poesia, specialmente se ci si dilunga nei vicoli laterali dove tutto è ancora più morbido e silenzioso e sempre uguale a se stesso. Nella piazza del paese invece la quiete è turbata da due slavate befane che si sono sedute in un cafè a bordo strada esponendo scolli per qui sconcissimi e stanno mandando in crisi il proverbiale autocontrollo dei Siwani, che oscillano con malcelata indifferenza con carretti, moto e biciclette, sfiorando il marciapiede dove sono in visione le pallide membra. Ritorniamo a Dakrur per il tramonto e poi si ripassa dalla casa della fantasia dove nel frattempo qualcuno è stato a giocare…il sogno di Mohamed è una realtà, una gran bella realtà. |
CategoryMarzo 2009
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Forma e Sostanza
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Le Donne Italiane a Siwa. La ruspa e il progresso insonne È tornato il khamsin il vento di stagione e il cielo è giallo di sabbia, ne approfittiamo per incontrare gli italiani che vivono a Siwa, a cui tanti ormai ci associano pensando che siamo qui per lavorare al “italian project” una cooperazione fra organizzazioni italiane e comunità di Siwa finanziata dal Governo Italiano, i cui operatori sono molto benvoluti dalla gente. Andiamo dentro Shali per salutare Andrea il Fiorentino Siwano che vive qui sei mesi l’anno ma è partito per l’Italia, lui e Lino detto l’artista, sono i connazionali che tutti conoscono nel paese, ma le più famose sono Laura e Silvia che da diverso tempo vivono e lavorano a Siwa. Sento Silvia telefonicamente e in serata ci incontriamo da Abdu, un vecchio Siwano che parla anche un po’ di italiano, il cui locale fa da riferimento per la piccola comunità italiana. Silvia è una donna dinamica e determinata, impegnata nella valorizzazione dei prodotti tessili tipici e delle problematiche delle donne Siwane, è una tipa carismatica e si muove con disinvoltura qui a Siwa e parla fluentemente inglese e arabo, con noi si dimostra molto gentile, ci parla del “progetto italiano” in realtà è composto da più programmi che vanno dall’agricoltura, al recupero dell’edilizia tradizionale, a quello legato all’artigianato finalizzato al mantenimento delle tecniche tradizionali, ma anche alla realizzazione di prodotti da vendere ai turisti. Ci racconta tante cose interessanti su Siwa e sui suoi abitanti, è affascinata dal nostro viaggio e ci darà una mano per “Base Elba” mettendoci in contatto con i giusti referenti. Dopo una mezz’oretta arriva anche Daniela una bella ragazza romana giunta da poco in Africa, che invece si occupa di edilizia, ha la curiosità frenetica tipica delle ventenni ma anche lei è una tipa tosta e in poco tempo si è guadagnata la stima e il rispetto dei Siwani, che per una donna non è impresa da poco. Silvia ci spiega che in generale per gli uomini dell’oasi le donne occidentali non godono di grande fama, per loro esistono le donne Siwane, che sono quelle da prendere in considerazione per sposarsi e fare figli, le donne beduine e le donne egiziane se proprio non se ne trova una della comunità locale. Le italiane come tutte le occidentali sono come un altro sesso, sono femmine strane che non si comportano come dovrebbe una donna, non portano il velo, si spostano da sole, guidano la macchina e parlano con gli uomini, a complicare il quadro poi ci sono i Siwani che lavorano come guide turistiche che amano raccontare ai paesani le imprese erotiche con le sconce femmine occidentali a caccia di avventure. “Dopo una certa diffidenza e ostilità iniziale” ci racconta Silvia “le cose hanno cominciato a funzionare bene e siamo state accettate dalla comunità, spesso veniamo invitate nelle loro case e specialmente ora che i progetti si stanno esaurendo sono tutti molto dispiaciuti”. Ci racconta della sua esperienza con le donne Siwane e di quanto sia delicato cercare di portare dei miglioramenti senza turbare la suscettibilità delle persone, rispettandone le tradizioni per noi spesso inconcepibili. “Sono incuriosite dal nostro mondo ma ci considerano donne destinate a rimanere senza marito, per loro è considerato normale fidanzarsi da bimbe e sposarsi da ragazze e poi occuparsi della casa, del marito e dei figli e trovano giusto e vantaggioso portare il velo e non avere relazioni fuori dall’ambito familiare. In generale si respira comunque serenità e armonia in queste case e ogni tanto viene da pensare se sia giusto portare dei cambiamenti se nel loro sistema ci stanno bene.” Dei cambiamenti comunque sono già in atto, il più importante è dato dalle fabbriche per imbottigliare l’acqua dove lavorano le donne non sposate, che proprio per questo motivo si sposano più tardi e alcune sperano che i mariti concedano loro di poter lavorare anche dopo il matrimonio. L’emancipazione delle donne secondo il modello occidentale passa per il lavoro e l’indipendenza economica, ma è un’equazione che non mi convince, non vorrei ritornando a Siwa fra qualche hanno trovarci un asilo nido e le donne velate non sarebbe sicuramente una grande evoluzione. Mi tornano in mente gli uomini col bollo in fronte e le donne velate del Cairo e di Alessandria, in fila nei global fast food. Pur essendo una comunità molto chiusa e rigida, le donne Siwane godono di alcune tradizioni che vanno a loro vantaggio, il divorzio è una pratica comune e se una donna si stufa del marito può tornare a casa dei genitori in attesa di risposarsi e poi qui non si pratica l’infibulazione, la menomazione di genitali femminili, che invece è molto diffusa fra i beduini e in generale fra gli egiziani, come mi conferma Silvia. “In linea di massima” mi dice Silvia “i progetti con le donne hanno avuto tutti successo, meno quelli con gli uomini, che sono più restii alle novità, i Siwani non vogliono lavorare in fabbrica né produrre artigianato da vendere ai turisti e anche nei progetti agricoli non ne vogliono sapere tanto di impianti a goccia, ci partecipano senza entusiasmo e appena il progetto diventa autogestito ricominciano ad irrigare allagando i campi”. “So proprio de coccio” ribadisce Daniela e poi continua “poi da una donna anche peggio non accetterebbero mai un consiglio né tanto meno un ordine, devi fare in modo che la decisione sembri sempre presa da loro”. A me però stanno simpatici i Siwani e il loro attaccamento integralista alle tradizioni lo capisco e in gran parte lo condivido, mentre saluto e ringrazio le gentili donne italiche penso che questo radicamento forte è quello che ha permesso a questa gente di sopravvivere per secoli, facendo forza sulla loro identità, quella che può sembrare ottusità è la memoria storica di un popolo, alcuni modi di dire dell’oasi come “Quello che conosci è meglio di quello che non conosci” o “Gli stranieri sono ciechi anche se hanno gli occhi” lo fanno capire bene. I Siwani coltivano la palma e l’olivo e vendono i datteri e le olive e l’olio, nessuno coltiva ortaggi o altri frutti per venderli, non è considerato dignitoso, non è lavoro da vero Siwano, la verdura si coltiva per uso proprio o si regala, ma non si vende; come nessun Siwano è interessato ai dromedari che sono bestie da beduini, a loro interessano solo gli asini. Un sistema ripetitivo che ha sempre visto nella novità la minaccia e la paura di perdere la propria identità, il bene più prezioso. Concetti assai chiari a chi come me è isolano e mi torna in mente Angiolino di Pomonte quando qualche anno fa mi spiegava il progresso, mi disse più o meno così: “prima eravamo tutti poveri ma tutti padroni, ognuno del suo, poi arivonno quelli della provincia e le gente per soldi cominciò a lavorà sottoposta, nel giro di vent’anni la valle è diventata un buscione e li Pomontinchi tutti sottoposti” La chiusura della conversazione però me la ricordo precisa “a voi altri giovani vanno inculato bene bene co sta storia del progresso”. È ormai notte quando la quiete è violentata dal rumore di un crollo, esco a vedere che succede, una ruspa sta cancellando Siwa, in una nuvola di polvere scompare una palazzina in kirshif, sembra un operazione militare, i camion portano via i detriti mentre il ciuco dalla sua stalla rimasta con tre pareti raglia terrorizzato, è arrivato anche un bilico con i tondini di ferro e il cemento, ci si sta preparando alla costruzione di una nuova orribile palazzina in cemento armato… il progresso non dorme mai. |
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L’isolotto delle palme secche Dormo come un ghiro, mi rilasso, leggo e scrivo, sono particolarmente soddisfatto di questa fase morbida, godereccia e contemplativa, credo di avere sempre fatto una bella vita facendo quello che mi pareva e mi piaceva di più e la cosa mi è sempre riuscita abbastanza bene, ma ultimamente mi viene anche meglio e di questo me ne compiaccio. I visitatori di Siwa nel pomeriggio vanno tutti a l’Isolotto di Fatnas a vedere il tramonto e tutti lì ci vogliono mandare, da Mohammed dell’ostello, alle altre persone che incontriamo per la strada che pensano che ho sbagliato via. Stiamo andando verso il lago di Siwa, dove ci sono le due strade che lo attraversano parallele, il tempo sta cambiando il cielo è stranamente grigio e l’aria trasmette un sentore di pioggia, cosa assai strana per Siwa, anche le garzette che passano si confondono nel grigio biancastro che impasta il cielo al lago. Gli uccelli sentono il mutare del tempo, i piccoli trampolieri sono irrequieti e gli uccellini bianchi e gialli saltellano nevrotici fra la via e il bordo salato della laguna, l’unico che si dimostra indifferente è un fenicottero sbiadito che solitario avanza lento raschiando il fondo con il becco. Anche qui ci sono carcasse di animali nel lago, un teschio di mucca sotto un velo d’acqua vetrificato dal sale mi guarda serio, le mucche anche da morte hanno sempre la stessa espressione severa. Per i Siwani il lago corrisponde al cimitero degli animali, è un luogo sterile e senza valore destinato ai cadaveri delle bestie, per loro l’acqua importante è solo quella delle sorgenti. In questa quiete assoluta e sbiadita c’è sentore di morte ma non fa paura, la respiri come inevitabile e naturale, come l’alba, il sonno e il sogno. Fra la strada esterna e l’oasi c’è un isoletta completamente brulla con un piccolo villaggio di case di kershef ormai abbandonate e quasi completamente sciolte, oltre i margini del palmeto i camici bianchi dei contadini riflettono nell’acqua come fantasmi, ci vorrebbe un kayak per gironzolare in questi bassi fondali salmastri e sbirciare fra le tante isolette. All’interno della strada ce n’è una che si raggiunge con un sentierino a pelo d’acqua, è un isolotto ricoperto da palme secche, spettrale, angosciante e pieno di zanzare, il terreno in alcuni tratti già sommerso era preparato per l’agricoltura, ma ormai reso sterile dal sale è stato abbandonato. Però al centro dell’isolotto piatto c’è ancora un po’ di verde, giunchi e qualche palma che sopravvivono grazie a una vasca di acqua dolce alimentata da una risorgiva che si trova nel mezzo di questa zattera brulla, da questa piscina partivano i canali di irrigazione che permettevano la coltivazione. Questo isolotto dalla flora agonizzante spiega benissimo quello che sta succedendo nell’oasi: il lago sta salendo di livello e aumentando di salinità, di conseguenza i terreni dentro e ai margini della laguna diventano inutilizzabili per le coltivazioni, la causa di questo effetto sono i tanti nuovi pozzi scavati nell’oasi per estendere le zone coltivabili e il modo di irrigare dei Siwani, che usano allagare i campi. Il risultato è che la grande quantità d’acqua riversata nel terreno scioglie il sale presente nel suolo che filtra nel lago (il punto più basso) aumentandone il livello e la salinità. La conclusione amara e già vista e rivista è che si è destabilizzato un equilibrio per logiche di profitto, distruggendo una cultura agricola che andava avanti da secoli, basata sullo sfruttamento delle acque dolci che salivano in superficie naturalmente, permettendo agli abitanti dell’oasi di vivere, poi come sono arrivati i profeti del profitto, hanno cominciato ciucciare l’acqua della falda per irrigare il deserto, con il risultato di rendere improduttivi i terreni naturalmente fertili. Ma come sempre la natura è invincibile e con le sue infinite risorse risponde alla scellerata e sciatta ottusità umana, placidi e a loro agio gli alberelli che vivono nel salmastro con i rami ricoperti di sale, osservano con distacco il susseguirsi degli eventi specchiandosi nei riflessi grigi di questa laguna algida. Sulla via del ritorno veniamo raggiunti e superati dagli stormi delle garzette bianche che rientrano nel palmeto sul calare di un invisibile tramonto. Al crepuscolo entriamo nell’abitato dalle vie sabbiose ai piedi di Shali, sono vicoli stretti dove i carretti non passano e a quest’ora con gli uomini che si ritrovano nei cafè o nel ritrovo davanti alla Moschea e con l’oscurità che le rende ancora più anonime, si possono vedere passare le donne che si spostano fra le case trasportando pentoloni e ceste di pane. In paese ci aspettavano, ci stanno cercando per andare a Baharyya, prima un ragazzo inglese, poi una coppia di attempati tedeschi e anche “Gandalf” il lungo capellone grigio dai modi gentili e le rughe profonde, lo scopo è fare un equipaggio per dividere le spese del trasferimento, tutti hanno scadenze e tempi limitati e trovo anche un certo imbarazzo a dire che non so quando me ne andrò da Siwa, sicuramente non nei prossimi due o tre giorni, ci sono ancora tante cose da vedere e da capire e poi ho voglia di concretizzare un contatto per “Base Elba”. Destabilizza questo modo di muoversi, anche i frequentatori di questo ostello che si considerano molto alternativi e spartani ci vedono strani. Mi rendo sempre più conto di quanto sia gratificante questa dimensione di tempo dilatato, il privilegio di essere senza scadenze è un valore immenso soprattutto nel viaggiare. |
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I Saggi Ottenebrati e l’Adoratore del Sole Uno dei tratti più belli dell’oasi è la via che dal centro di Siwa va al villaggio di Dakrur sotto la montagna dei Fantasmi, nel primo tratto attraversa una zona residenziale dove le case sono ancora costruite nella maniera tradizionale, alcune sono dei ruderi disabitati, ma la maggior parte sono abitate e tenute bene, è il quartierino ricco di fascino che in alcuni punti ricorda la bella Ghadames. Sono gli anziani appollaiati davanti agli usci a rendere unico questo scorcio, spesso i loro occhi sono bianchi consumati dalla polvere e dal sale, di solito stanno seduti o straiati al fresco davanti alle case avvolti in turbanti e mantelli e quando si spostano spesso si sorreggono con bastoni lucenti di legno di olivo, quando gli passi davanti ti guardano anche se i loro occhi spenti non sanno più vedere, ma ti osservano in silenzio sembra che ti entrino dentro i pensieri con l’olfatto, questi volti scuri, rugosi e immobili si armonizzano all’architettura senza tempo di questa via e assumono le sembianze di personaggi mitologici, fra il fantasma e lo stregone. Dopo un primo tratto più angusto la strada si distende in un largo rettilineo lungo un paio di chilometri dove passano continuamente i carretti, spesso trasportano le donne che curiose e celate dietro i veli combattono fra la voglia di guardarsi intorno e il timore di farsi accorgere curiose dagli uomini della famiglia, che sono sempre vigili e guardinghi nel controllare che non si verifichino scambi di occhiate fra maschi e femmine. Le donne vengono accompagnate fino alla soglia della casa a cui portano visita, scendono velocemente e si rifugiano nelle case tangando l’uscio, è praticamente impossibile vederle perché stanno sempre chiuse dentro. A bordo strada i bimbi (3/4 anni) giocano a fare i contadini piantando pezzetti di foglie di palma e poi irrigando con un bussolotto d’acqua, mentre le bimbe della stessa età giocano a fare il pane con la sabbia. Questa è una strada che è anche un souk e ci sono decine di micro attività, il negozio tipo è una cassetta di palma apparecchiata con qualcosa sopra: caramelle, uova, una radio, della verdura … c’è anche un fabbricante di giocattoli di canna e una bottega che costruisce letti e sedie tradizionali incrociando le parti legnose delle fronde delle palme, uno dei mercanti più coreografici è un venditore di pulcini rossi che li tiene chiusi nelle gabbie, naturalmente costruite con legno di palma. Le attività più grandi sono la falegnameria dove una squadra di artigiani sempre al pezzo realizza in continuazione porte, sedie, mobili, panche e letti e poi la frequentatissima officina meccanica, che è anche il punto di ritrovo dei giovani vagabondi motorizzati del paese, dove però più che eseguire lavori di meccanica si rattoppano le camere d’aria dei carretti, naturalmente non mancano un paio di piccoli cafè, il macellaio e il barbiere. Finita la strada souk si entra nel palmeto per qualche chilometro e proseguendo in direzione est si sbuca nella radura alla base del Jebel Dakrur. la montagna dei fantasmi al tramonto regala colori magici che ieri abbiamo ammirato dai fianchi, oggi però voglio salire sulle cime di questa affascinante montagnola dai quattro cocuzzoli, dalle case più alte risalgo camminando nel terreno sabbioso che è disseminato di conchiglie e cocci, risalendo fino alla piccola duna che divide le due vette principali, dal dosso sabbioso si apre una bella panoramica sul lago orientale dell’oasi. Spostandosi verso nord c’è un viottolino appena accennato che sale verso il punto più alto del poggio girandogli intorno in senso antiorario, è un terreno roccioso ma friabile ed è formato prevalentemente da conchiglie fossili, man mano che salgo la visuale si allarga sul palmeto e la laguna orientale con la strada sopraelevata, anche questa, come il birket Siwa, sempre più secca, dalle acque salmastre sbucano le isolette che con la luce della sera stanno diventando rossastre, così come le zone ormai secche che da qui svelano la loro estensione. In basso nella via fra le casine del villaggio di Dakrur, il traffico dei carretti con l’approssimarsi della sera sta aumentando. le rocce sono arcigne e ricche di spaccature, in queste fenditure ci sono diversi nidi di falco, alcuni dei quali volteggiano eleganti e potenti a caccia di prede. in cima mi attende un gran panorama che spazia in tutte le direzioni, si ha una magnifica prospettiva sul grande palmeto, anche da qui la collina di Aghurmi con il Tempio dell’Oracolo domina la scena perfettamente allineata con il Tempio di Umm Ubeyda e la sorgente di Cleopatra. Questa montagna dalla cima piatta assomiglia a una grande piazza per adorare il miracolo dell’Oasi, me la godo nel silenzio insieme al sudore che scivola caldo e il vento fresco che lo asciuga e ai falchi che sfrecciano sibilanti. Salgo sui tre poggi principali, ognuno dei quali regala un panorama diverso, con la luce più radente si vedono ancora meglio le migliaia di conchiglie inglobate nella roccia, chissà se i pesci che nuotano nei canali e nelle lagune qui intorno sono i discendenti diretti dei frequentatori del mare in cui vivevano queste conchiglie, se così fosse sono loro gli abitanti dell’oasi che vantano le origini più antiche. Scendendo, alla base del terzo, ci sono diverse tagliate nella roccia da dove sono stati estratti grandi blocchi, la più grande delle quali ha una forma più elaborata, forse è una grande tomba, entro dentro è molto grande e scende di livello, però l’interno è buio e sono venuto senza torcia, quindi faccio poca strada. Manca poco al ponere del sole, salgo ancora un po’ mi piazzo sullo sperone più alto di questo cocuzzolo e aspetto, non sono più solo, sulla montagna sull’altro poggiolo un Siwano solitario ammira assorto la posa di sole, con la sua veste bianca sembra un sacerdote del tempio di Amon, chissà se esiste ancora una qualche forma atavica di adorazione dell’astro in questa oasi così marcatamente islamica. Il tramonto arriva bellissimo come sempre, infuocando tutto prima di scomparire dietro le dune del deserto, contemporaneamente al canto dei muezzin che chiamano la preghiera dalle tante moschee. Sulla via del ritorno mi ritrovo nel flusso di rientro dei contadini Siwani, i più coreografici sono quelli in bicicletta, dei “cancelli” di una ventina di chili carichi di erba, zappa e falciotto, queste persone danno l’idea di essere sempre tranquille e spesso canticchiano nenie ripetitive, si avvicina l’ora di cena e alcune donne si muovono con i loro veli trasportando pentoloni da una casa all’altra, mi immagino che camminare con il buio con il velo sugli occhi non deve essere facile. In tarda serata si va ad internet, c’è la connessione che traballa ma il problema non turba i Siwani che usano la sala soprattutto per vedere i film, non si riesce ad inserire niente però sento Mohamed dal Marocco che mi manda un po’ di traduzione in francese per Elbaeumberto. |
Il filo della tortura Mattinata a scribacchiare, verso le undici si va dentro Shali per cercare, senza trovarli, Andrea e il Francese, passo davanti a un barbiere e mi viene la voglia di farmi barba e capelli. Per prima cosa accende il fornellino e prepara un the, poi mi spiega che per un vero barbiere come lui gli italiani sono i clienti che danno più soddisfazione perché hanno la barba dura da Africani e la pelle morbida degli europei e poi inizia la rasatura. Ripulito e soddisfatto faccio per alzarmi ma il tosatore mi dice di rimane posato, prende un filo di lenza giallo, ne taglia un metro e mezzo, lo addoppia, poi tenendolo da un lato con la bocca e dall’altro fra l’indice e il pollice, comincia a arricciola’ i fili e poi muovendo la testa avanti e indietro stile Totò, comincia a strapparmi i peli ribelli delle sopracciglia, la tortura si chiude con una nuvola di profumo alla vaniglia spruzzatami in faccia con una specie di pompa del rame. |
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Verso la Libia fra illusioni marine e tombe misteriose Dopo una serie di giornate pigre è tornata la voglia di movimento, si rimedia due bici e si parte verso ovest in direzione dell’Adrar Amellal, la strada fiancheggia il lago di Siwa che sta cambiando velocemente fisionomia, dove una settimana fa c’era l’acqua ora c’è il fango salato, i cristalli salmastri riflettono la luce del sole rendendo il paesaggio accecante e i fenicotteri delle sagome indefinite. La strada costeggia il lato nord del lago che verso occidente aumenta di profondità e regala un bell’effetto mare, c’è anche una piccolissima spiaggia con una sfinge di fango che guarda in direzione della “Montagna Bianca”. Si prosegue passando a fianco della zona in cui domenica ci siamo fermati a vedere cavare la pietra e poi si continua in direzione di Kamisa, lasciandoci alle spalle il birket (lago) di Siwa, ancora qualche chilometro e arriviamo nei pressi del villaggio di Kamisa vicino al quale si trova un importante sito archeologico risalente al periodo Romano, con centinaia di tombe scavate nella roccia bianca. La necropoli si vede già dalla strada, si raggiunge con una pista di qualche centinaio di metri e poi proseguendo a piedi verso Nord. A valle delle tombe scavate, i resti di una grande muratura in mattone crudo che ricorda un pilone di un tempio Egizio e alcuni resti di colonne in pietra più dura, le tombe si sviluppano su più livelli, rispetto a quelle viste al Jebel Mawta sono più grandi, le facciate più monumentali e all’interno ci si sta comodamente in piedi, di solito sono formate da più stanze che a volte ospitano numerosi loculi tanto da ricordare le catacombe. Ne visitiamo una trentina, alcune sono scavate in maniera elaborata però non ci sono tracce né di pitture né di iscrizioni. Il sito è molto più esteso di quello che sembrava ad osservarlo dal basso, ma la cosa più impressionante è che tutte le montagne qui intorno sono disseminate di aperture, centinaia le tombe che si intravedono sui fianchi di queste montagne dalla sommità spianata che si spingono in direzione Nord, in realtà siamo noi che ci troviamo all’interno di una depressione e quella che sembra una catena rocciosa è un grande plateau di roccia. Vista l’estensione non credo che si tratti solo di tombe del periodo Romano, sono tantissime forse migliaia, sicuramente in passato le condizioni ambientali erano più favorevoli rispetto ad oggi per gli uomini e qui vivevano delle comunità molto numerose, potrebbe essere stato questo uno dei punti di incontro fra la civiltà dei Garamanti con quella degli antichi Egizi, quello che è certo è che questa interminabile necropoli rende ancora più affascinante e misterioso il passato di questa terra. Saliamo per qualche decina di metri fino al livello superiore delle tombe per ammirare in direzione sud il lago di Maraki che, ancora più del birket Siwa, regala tonalità mediterranee, indicandoci anche la parte più bassa della depressione, mentre alle sue spalle si vedono le geometriche colline a forma di piramide visibili anche dalla fortezza di Shali. Camminando fra le rocce calcaree ogni tanto spuntano degli affioramenti di minerali ferrosi che ricordano i filoni scuri che all’Elba si trovano lungo la costa Orientale e vicino alle sepolture più grandi si vedono dei viottolini che entrano verso l’interno marchiati dalle evidenti tracce fresche degli asini dei cavatori di pietra, qualcuno di questi “dannati del deserto” si intravede in lontananza ma soprattutto si sente il rumore sordo delle mazze e dei picconi di questi intrepidi faticatori che spaccano la pietra sotto questo sole cocente. Lasciato il sito entriamo nel minuscolo villaggio di Kamisa alla ricerca di qualcosa da mangiare e da bere, si vede bene che qui di turisti non se ne fermano, sembra di essere in un luogo molto più isolato di quello che è in realtà, ma ha il fascino dei posti veri, la prima bottega che si incontra ha il negoziante che dorme pesantemente sdraiato al fresco di una tettoia, ce n’è però un altro dove ci sono un po’ di merci, non l’acqua perché qui nessuno comprerebbe mai l’acqua in bottiglia, però ci sono le banane e gli yogurth, stupisco l’anziano negoziante rivolgendomi a lui in un misto di Arabo e Amazigh. Velocemente si è fatto gente, sono tutti stupiti dal vedere due in bici e soprattutto una donna, siamo a una ventina di chilometri da Siwa ma qui stranieri non sono abituati a vederne, sicuramente qualche turista con i tour in fuoristrada passa per visitare la zona archeologica, ma difficilmente passano per il villaggio, perplessi dal fatto che si arriva da così lontano e nel timore che ci siamo persi ci consigliano di aspettare all’ombra nell’attesa di qualche mezzo che prima o poi passerà in direzione di Siwa. Salutiamo e si riparte andando avanti, dopo poco la strada comincia a salire dolcemente fiancheggiando “le Piramidi” anche qui ci sono cave dove lavorano a mano e all’interno ancora piste che entrano verso nord nelle montagne bianche che svelano centinaia di tombe e gente che lavora a tagliare la pietra in posti impossibili. Il lago a Ponente delle colline è ancora più bello e fa venire una gran voglia di bagno, si avanza cercando un ingresso alla ricerca dell’acqua del lago, c’è un uomo che carreggia sabbia (siamo nel Sahara) gli chiedo la via per il lago ma ci indica una vasca, per la gente di qui il lago non è associato all’acqua, è un’entità negativa di cui non si vuole nemmeno parlare, come non esistesse, l’acqua salata da cui sono tanto attratto è un’inutile distesa sterile che con la sua concentrazione salina minaccia i coltivi. Arrivati al vascone si lasciano le bici e si prosegue a piedi, le sorgenti calde hanno sempre il fascino del sovrannaturale, ma una buca di acqua calda, specialmente con queste temperature, non è per niente invitante. Si cammina fra sorgenti tiepide, orti, olivi e piccoli appezzamenti di grano che cresce eroico fra sabbia e sale, il lago sembra vicino ma raggiungerlo non è facile, bisogna attraversare una grande distesa di fango argilloso secco. C’è un escavatore che sta scavando un canale di scolo per drenare il terreno che è formato da argilla grigia, è in corso un’operazione per ampliare la zona agricola, ma l’impressione che mi da non è buona, queste piccole oasi sono micro mondi dagli equilibri assai delicati, in cui le infiltrazioni di acque salate e gli strati impermeabili di argilla giocano ruoli fondamentali, basta un niente e tutto diventa deserto, l’argilla bagnata tirata su dalla benna dell’escavatore in un attimo diventa secca e sbriciolante, non ho competenza per giudicare ma mi sembra di assistere ad un’operazione scellerata e sacrilega. Avanziamo ancora in un terreno che diventa sempre più salmastro, finché non si incontra un largo canale artificiale che ci impedisce di avanzare e si torna indietro. Tornati nella parte verde ritroviamo gli orti con campi di agli e cipolle e poi le palme, gli olivi e qualche pergolato basso di vite, a ricordo degli estesi vigneti che i Romani avevano impiantato in queste zone un paio di millenni fa. Si riprendono le bici avanzando immersi in paesaggi che sembrano alieni, le dune del deserto Libico sono sempre più vicine, mentre le montagne bianche continuano a svelare tombe, sempre di più. Sono luoghi densi di mistero che chiamano, chissà quanti misteri si nascondono fra queste montagne, è una necropoli che si estende per almeno una ventina di chilometri, ora non è il tempo ma negli anni a venire vorrei tornare da queste parti, magari con un ultraleggero, per studiare la zona e cercare di capire di più … inshallah. Incontriamo un altro paese, dovrebbe essere Bahaj el Din e ancora un lago circondato da un’oasi verdeggiante, la logica direbbe che è l’ora di tornare indietro ma l’istinto no, si avanza ancora un po’ finché la strada finisce con una strana rotonda e inizia una pista nel deserto, intorno a questa specie di eliporto un piccolo villaggio che sulla mappa che ho non esiste, formato da quattro case-baracca e da una piccionaia. C’è la sensazione netta di essere arrivati a fine corsa, siamo quasi in Libia il confine è a pochi chilometri, ma sembra che non ci sia nessun controllo, del resto le frontiere controllate sono solo dove ci sono le strade, già in Tunisia camminando nei viottoli nella macchia di lecci e sughere nei pressi di Ain Draham c’eravamo trovati quasi dentro i confini Algerini. Le frontiere sono una prepotenza ovunque, ma specialmente nel deserto, qui la natura ha disegnato scenari estranei al concetto di confine, niente è più indefinito e mutevole di un mare di sabbia, trovo assurdo e profondamente ingiusto che si debba rischiare la galera o anche peggio, nell’attraversamento di un confine. Anche culturalmente il concetto di confine non appartiene ai popoli che vivono nel deserto, queste righe dritte che attraversano la sabbia non hanno nessun senso, sono invenzioni dei colonizzatori occidentali, per le tribù sahariane questi luoghi si sposano con il nomadismo, lo stile di vita che maggiormente si avvicina al concetto astratto di libertà. Curioso è che i più strenui difensori del rispetto dei confini siano sempre quelli che si definiscono paladini della libertà. Si torna indietro, anche perché Siwa è lontana, lungo la strada incontriamo qualche carretto e un paio di bici, la luce sta diventando bella e mi fermo a fare qualche foto in questi scenari densi di mistero, in una radura una grande tomba isolata fa pensare al sepolcro di qualche personaggio importante, ma l’unica cosa certa è che ora ci vive una famiglia di cani paurosi, mi viene da pensare che l’armata di Cambise non si sia mai persa, che la famosa armata dei cinquantamila uomini si sia fermata fra queste oasi dove magari avevano trovato delle Berbere piacenti… Superate le Piramidi ci si ferma in un tratto desertico dove l’erosione ha disegnato delle forme surreali, un antipasto del deserto bianco che vorrei visitare fra qualche settimana. Il suolo è disseminato di fossili di conchiglie e di coralli di gesso, ci sono anche tantissimi cristalli, alcuni dei quali molto grandi e trasparenti anche se fragili. La luce è bellissima e svela forme e colori sfumati che con il sole a picco neanche si intuivano, la superficie del terreno è come cotta ma basta smuovere questa sottile patina grigia che viene fuori una polvere bianchissima di gesso, è quello che rimane del fondo marino che un tempo ricopriva questa zona. Sullo sfondo, poco prima del tramonto, si rivede Siwa che illuminata dalla luce bassa e calda si colora di rosso, con il jebel Mawta e la montagna dei fantasmi a cingere la magnifica fortezza di Shali. La posa del sole arriva quando si ritrova il lago di Siwa e ci regala cromie marine. È notte quando si rientra, Serena è schiantata ma come sempre non molla mai. |
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I miracoli Biblici rivisti da Siwa Ancora tempo bello, il tanto temuto Khamsim “il vento delle sabbie” non si è fatto più sentire. Entriamo dentro la parte occidentale dell’oasi, una grande distesa di palme e olivi che si estende fino ai confini del deserto di sabbia, sono tante le sorgenti calde che alimentano i canali, alcune sono allacciate in condutture che confluiscono in grandi vasconi, altre più piccole sbucano come per miracolo bolleggiando dal terreno e vanno direttamente nei canali, i quali sono regimati da tante piccole chiuse fatte con lastre, sassi e cenci che diventano rossi per la forte presenza di ferro che c’è in queste acque termali. È tutto coltivato intensamente ci sono solo poche radure di solito create dove il terreno è troppo salato per l’agricoltura, dove vengono stesi al sole i datteri a seccare. Dentro l’oasi è tutto molto preciso ed ordinato ed ogni proprietà è recintata con fronde di palma intrecciate, in modo da non fare vedere niente, c’è un forte senso della proprietà e tutti quando entrano nel loro orto chiudono il cancello per evitare che qualcuno curiosi fra le palme e gli olivi. Spostandosi ai margini del verde, andando in direzione del lago, troviamo una grande piccionaia a forma di torre a pianta cilindrica costruita con sassi e blocchi di sale e rivestita di fango, oltre ai buchi ci sono decine e decine di legnetti che sporgono dalla muratura per fare da sostegno ai piccioni, disegnando sulla piccionaia un gioco di ombre stile meridiana. Si prosegue dai campi verso l’isola di Fatnas dove si trova una delle sorgenti più famose dell’oasi, lungo la via nella terra rossa e sterile ci sono delle pozze d’acqua bassa sulle quali il sale compattato brilla, sembra un ambiente sterile ma una lucertola fulminea che schizza da sotto una lastra di sale ci spiega che non è così, il sale si è cristallizzato in forme bizzarre, alcune mi sembrano isole, altre seppie. Questa zona di pozze si spenge nella laguna che spostandosi verso l’isolotto diventa più ampia e bella, colorata anche dai riflessi nell’acqua dei tanti giunchi e delle canne, un po’ più a distanza ci sono i fenicotteri, mentre le rondini ci volano intorno cercando di catturare gli insetti a pelo d’acqua. In realtà l’isola di Fatnas è collegata da una strada rialzata per farla raggiungere dai fuoristrada delle gite organizzati, ma la si può tranquillamente raggiungere con un viottolino a pelo d’acqua su cui un Siwano, lasciata la bici, si sta incamminando con il suo camicione bianco che fa tanto Gesù che cammina sulle acque. Questa oasi osservandola rende verosimili, umanizzandole, alcune epiche storie Bibliche: Gesù che cammina sulle acque, Mosè che batte il bastone e trova l’acqua, per dilla alla Bonalaccese “a trovaccisi nell’epoca giusta in un posto così ‘na volta studiate a modino le secche e le polle c’era da campacci da signore a fa’ il Profeta”. Arrivati sull’isola troviamo la grande pozza di acqua tiepida con le bollicine che vengono su dal fondo, sembra profonda una decina di metri, il colore blu verde la rende invitante, purtroppo il contorno è un po’ tristarello perché ci sono tante palme che stanno seccando per effetto dell’aumentata salinità del terreno, causata da malsani progetti di modernizzazione agricola, anche la famosa palma orizzontale affacciata sul lago, che a Siwa, fotografata o disegnata, si vede un po’ da tutte le parti, è ormai seccata. C’è anche un barettino per i turisti che sono attesi per il tramonto, con le immancabili birre fredde tanto gradite agli infedeli, ma ora è tutto chiuso e il poliziotto “previeni attentato” e i due gestori del bar stanno pennicando di brutto sdraiati all’ombra del casotto, tanto che non si accorgono della nostra presenza. La laguna è bella e nei prossimi giorni ci voglio tornare, ma ora devo rientrare a Siwa perché fra un paio di ore ho un appuntamento su skype con Michelangelo perché voglio fare delle modifiche al sito. |
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Il venerdi del villaggio La cagna dell’oasi sta prendendo il sopravvento, un piacevole oziare all’ombra delle palme. Oggi è venerdì, il giorno della predica dell’imam, tutti gli uomini si radunano nella moschea, tutte le attività rimangono aperte ma senza persone. La predica è lunga, urlata e arrabbiata, con Serena ci si rammarica di non comprendere niente. Dopo un’ora i canti ad Allah chiudono la cerimonia e ognuno ritorna al proprio lavoro. In serata ennesimo bel tramonto sulle dune del deserto, questa volta lo osserviamo da una collina ai margini del paese proprio a fianco di un grande complesso sportivo militare con piscina, campi di calcio, palazzetto dello sport e palestra, bello ma sovradimensionato che sa tanto di palestra di Pomonte. Rientrando per le vie sabbiose, dove come al solito c’è un gran traffico di carretti quasi tutti guidati da bimbi, un gruppo di ragazzine escono furtive da una casa e ci vengono incontro, sono curiose e fanno tante domande, è per loro un momento di grande trasgressione che però dura poco, da lontano le urla severe e minacciose del babbo le fanno correre immediatamente in casa. È ormai buio quando mi fermo a tirare quattro calci al pallone con un gruppo di ragazzini. Mi piace correre scalzo in questa sabbia polverosa che ti si appiccica addosso incollata dal sudore, mi fa sentire bimbo anche se barbuto e pelato. |
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L’incontro con Fathi Malim Dormitona, colazione e poi a scrivere. Osservando la velocità della Signora Australiana mi rendo conto che sono lentissimo a scrivere, questo viaggio ci vuole più a scriverlo che a farlo, però mi piace e quando rileggo i mesi passati riaffiorano subito tante immagini che se non fossero state bloccate ormai sarebbero perse per sempre. Il fonduk si è riempito di tante persone, alcune quasi invisibili altre più appariscenti, come una svampitissima austriaca dal sorriso siliconico che passa le giornate a specchiarsi nel corridoio raccontando a tutti quelli che le passano davanti, con un risolino isterico che lei viene da “Insbruck snow!!” ma malgrado il suo entusiasmo giulivo, la sua esuberanza non contagia nessuno, meno che mai i Siwani che in silenzio la osservano perplessi, è arrivato anche un giovane babbo inglese vestito da Indiana Jones con il figlio, un biondissimo piccolo lord di quattro anni tutto eccitato da questa vacanza avventurosa. Siwa mi incuriosisce sempre di più, è un luogo denso di storia e di fascino che regala sensazioni e emozioni profonde, ma sempre sfumate e avvolte nel mistero. In questa piccola oasi circondata dal nulla si incontrano la cultura Amazigh e la Civiltà Egizia, gli aspetti più entusiasmanti dal punto di vista umano e da quello storico di questa prima parte del viaggio. L’Oasi Siwana è il posto più orientale in cui si conserva la cultura Amazigh e anche il luogo dove i Culti dell’Antico Regno Faraonico si sono conservati più a lungo. Grazie all’isolamento qui è nata una piccola (in dimensione) Civiltà, unica e diversa da tutte le altre, che per certi versi mi ricorda quella di Rapanui, la favolosa Isola del Pacifico a cui l’isolamento fece dimenticare alla gente la terra di provenienza e la capacità di navigare l’oceano. Anche i primi abitanti di Siwa erano nomadi ma giunti in questo luogo così idilliaco si fermarono e diventarono stanziali, perdendo l’attitudine al viaggio e dimenticando le proprie origini, ma allo stesso tempo proprio per l’isolamento perpetuarono culti e tradizioni che nei luoghi di partenza si erano ormai persi. L’interesse e la curiosità per Siwa si è poi amplificato leggendo “L’Oasi di Siwa dall’Interno” uno dei libri scritti dal Siwano Fathi Malim, in cui ho trovato la conferma alle senzazioni delle tante similitudini che ci sono fra le Isole e le Oasi. Il racconto di Fathi Malim mi è piaciuto tanto e mi ha fatto venire la voglia di conoscerlo, per saperne di più e anche perché a Siwa vorrei prendere dei contatti per “Base Elba”e questo antropologo Siwano potrebbe essere un prezioso contatto, gli telefono e gentilmente mi da appuntamento in tarda serata nel piccolo bookshop dove sono in vendita i suoi libri. Come spesso succede con chi scrive mi trovo davanti un uomo diverso da quello che mi ero immaginato, anche perché depistato dalla foto dell’autore nell’ultima pagina del libro che lo ritrae ragazzo, vestito all’occidentale e sbarbato. Mi trovo davanti un omone alto e severo che dimosra almeno una decina di anni in più rispetto ai suoi trentaquattro, galabiyya (camicione lungo) bianco e barba lunga da integralista islamico, ha occhi profondi da indagatore e mani grandi. Ci sediamo in fondo alla stanza sul tappeto, accanto al fornello da campo su cui Fathi prepara il the alla maniera tradizionale, gli racconto del viaggio e le mie sensazioni sulle affinità fra le Oasi e le Isole e sul pericolo che rappresenta il turismo organizzato, ma la conversazione versa soprattutto sull’Islam, mi chiede cosa penso dell’Islam e che differenze ho notato fra i Mussulmani dei vari paesi visitati, gli racconto la grande ammirazione e riconoscenza che provo verso la cultura Amazigh con cui ho convissuto per mesi nell’Atlas Marocchino e che mi ha fatto apprezzare anche l’Islam e i suoi precetti e anche della grande ipocrisia che invece ho respirato nelle città egiziane, soprattutto al Cairo. Fathi dice che sono i modeli occidentali che allontano la gente dalla perfezione del Corano, che solo seguendo rigorosamente i comportamenti dettati dal Corano e sottomettendosi alla volontà di Allah gli uomini possono vivere felicemente, cerco di spiegargli che la parola sottomissione non mi piace, ma la lingua è un limite troppo grande e fraintendimenti sono fin troppo facili. Passo comunque un paio di ore molto interessanti facendo comparazioni fra la cultura Siwana e quella Elbana, fra il sentirsi prima Siwani o Elbani e poi Egiziani o Italiani, argomentazione su cui Fathi costruisce un articolato anatema sulla divisione politica del mondo per esaltare ancora una volta l’Islam come strumento di unione e pace nel mondo in quanto slegato da qualsiasi concetto di nazione o di confine. Per quello che riguarda “Base Elba” a Fathi piace l’idea ma per entrare nel concreto mi consiglia di contattare Laura e Silvia, due italiane che lavorano a Siwa per conto di un progetto di cooperazione con il quale anche lui collabora. Ci salutiamo, è stata una conversazione interessante purtroppo limitata dalla mia ignoranza linguistica e dal concetto di sottomissione che non fa parte del mio modo di concepire la vita. |
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