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La magia del mare estinto e l’incontro con lo sguardo di un viaggio chiamato speranza Il chiarore del nuovo giorno mi sveglia, ci godiamo un’alba meraviglia dalla tenda, il sole gigante e pallido sorge da quella che sembra una banchisa di ghiaccio, velocemente le sagome inusuali di questa depressione prendono forma mentre il cielo pennellato da stracci di nuvole leggere diventa arancio. Si fa colazione con pane e marmellata, poi si lascia la tenda montata con lo zaino grande dentro e si inizia a girare spingendosi all’interno del Deserto Bianco, purtroppo la luce non è quella tersa di ieri, è tutto ovattato, avvolto in una foschia flebile che rende vaghe e indefinite le forme e le distanze, è tutto molto suggestivo, ma purtroppo le foto non rendono onore a questa atmosfera fiabesca. Si cammina fra letti di sabbia e grandi piastroni di gesso da cui sbuca tanta marcassite, il minerale di ferro più comune da queste parti, si tratta di un bisolfuro di rame con la stessa composizione chimica della pirite, che si è originato dall’interazione del ferro contenuto nell’acqua dell’antico mare, con lo zolfo presente nei depositi di sedimenti organici del fondo marino. Ce ne sono tanti noduli di svariate forme, le più appariscenti in forma di elaborate croci di ferro, oltre al minerale tutt’intorno ci sono centinaia di conchiglie e tanti resti di coralli fossilizzati. Camminando in direzione Sud incontriamo una grande distesa di funghi di calcare e poi delle strane “bolle” di gesso e di fango, fra queste forme cangianti è facile perdere l’orientamento, un po’ perché la foschia aumenta ma sopratutto perché questo delirio di “forme informi” è così suggestionante che la mente inizia a vagare in costruzioni fantastiche che ti fanno stare bene ma poi ti portano fuori rotta. Per avere dei riferimenti bisogna salire sui rilievi di calcare latteo che ogni tanto si elevano come isole dalle sabbie, questi accumuli levigati dall’erosione hanno forme plastiche disseminate di tanti chiodini di marcassite che osservati da vicino svelano forme complesse formate da sovrapposizioni di cristallizzazioni geometriche di incredibile perfezione, questo deserto anomalo regala bellezza e meraviglia sia nella vastità che nel dettaglio. La luce è stranissima sembra di essere dentro una nuvola, questa nebulosità però attenua il calore che altrimenti sarebbe insopportabile. Si avanza da diverse ora fra sabbia e gesso, dovremmo aver percorso una ventina di chilometri quando entriamo in una zona di isolotti di calcare rotondeggianti, hanno la base circondata da un cerchio di marcassite e cristalli che l’erosione ha scavato e fatto precipitare. Ancora qualche centinaio di metri e incontriamo una grande piazza di gesso sopraelevata, al suo interno ci sono grandi linee rette dove si concentrano accumuli di cristalli, da qui cominciamo a tornare in direzione del nostro campo base, facendo però un giro diverso e lungo il cammino incontriamo un’enorme vena di marcassite e poi un filone di grandi cristalli di gesso lungo diverse decine di metri, ritroviamo il terreno sabbioso e finalmente anche un pochina di vegetazione cespugliosa e qualche piccola palma, saliamo su un grande altopiano e dalla sommità mi rendo conto che sono mezzo chilometro più a ovest di quello che pensavo, da qui si ammira una vasta distesa di coni dalla base larga e la forma arrotondata che si disperdono a perdita d’occhio fino a svanire nella foschia, sembrano gigantesche lampate (patelle per i continentali) che vagano nelle sabbie per effetto della caligine che fa vibrare tutto. Ancora bolle di fango e funghi di gesso e poi lunghi strani fossili che affiorano dal calcare, sono come alberelli stilizzati che assomigliano a gorgonie fossilizzate e forse lo sono davvero, una distesa di grandi conchiglie poi ancora marcassite, stavolta oltre ai soliti chiodi è presente anche in forma di spirale e poi, dopo una giornata a vagare, di nuovo alla tenda. Questa prima uscita nel Deserto Bianco è stata eccellente, ora però bisogna rientrare anche per capire come reagiscono i poliziotti. Ripassiamo dal primo campo di funghi incontrato e poi ritroviamo l’asfalto, una breve attesa di una mezz’oretta poi passa un pik up che ci da un passaggio fino a Farafra, soliti due controlli ai posti di blocco con solite domande e poi di nuovo in paese. Si mangia in un posticino dove sono gentili ed economici e i proprietari, babbo e figliolo ci parlano del “progetto italiano” che anche qui, come a Siwa, ha una sede. Facciamo anche una sosta al cafè per prendere uno shai (the) e giocare un po’ a domino e poi si rientra al fondouk dove inizia una epica battaglia con le zanzare. Arriva la notte che qui a causa delle temperature diurne è un momento di massima vitalità della comunità, fuori si sta decisamente meglio, ritorniamo al café della stazione, Farafra è Africa vera, da qui transita diversa gente proveniente da sud che risale verso Settentrione in cerca di fortuna, questo locale che mi piace perché non ti trattano da turista, è un posto interessante, mi incuriosisce e mi affascina un gruppetto di tre ragazzi, probabilmente provenienti dal Sudan o comunque dall’Africa Sub Sahariana, stanno aspettando un passaggio, questa è gente che si sposta in cerca di sopravvivenza (la fortuna qui è un concetto troppo astratto) con un sacchetto di plastica come bagaglio, sono diretti verso nord, hanno occhi larghi e spauriti, pieni di paura ma anche di coraggio, chi ha i documenti regolari viaggia con i bus di linea, gli altri si arrangiano come meglio riescono; arriva un furgone, un incrocio di sguardi e saltano dentro, in un attimo svaniscono come fantasmi e proseguono il loro viaggio di speranza. {youtube}JMTZjz4aYyA{/youtube} |
CategoryAprile 2009
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La Luna Rossa nel Deserto Bianco Colazione con la frittellona di farina come si usava fare nei villaggi marocchini, poi si compra l’acqua e i viveri per andare nel deserto bianco, appena usciti la polizia turistica ci riferma per la solita intervista “uotnacionality? uariufrom? Fonduk? Uariugoo? why ?…” ci si avvia sulla strada che conduce al deserto bianco alla ricerca di un passaggio che arriva subito per la gentilezza di un camionista che ci carica a bordo, al primo posto di blocco la polizia ci ferma, solita tiritera “chi sei da dove vieni, dove dormi, dove vai?” Parla anche con il camionista, al quale chiede se si paga, correttamente risponde no…. Ci fanno scendere e sedere sulla murella, nel frattempo fanno salire due al posto nostro e comincia una serie di telefonate. Dopo poco arriva il pik up del capo, il classico poliziotto boss, occhiali a specchio, baffo alla Sadam Hssein, fronte bollata e sorriso da faina, insieme a lui l’autista attendente, occhi di servo e aspirante sosia del capo, solito saluto, poi solite domande, come da copione ci sconsiglia di andare nel deserto da soli… dove si risiede, con chi si va… Gli rispondo che nel parco si può pernottare e che lo sappiamo bene perché il progetto del parco è stato fatto dagli italiani, solito farfugliamento, poi arriva un fuoristrada guidato da uno “splendido” che si presenta come padrone del founduk dove si alloggia, ci dice che è stato chiamato dal gran capo della polizia per accompagnarci nel deserto… vuole 150 pound, ha inizio un collettivo elencare, divieti, leggi e pericoli, ma si tiene il punto e alla fine torna indietro. Al posto di blocco arriva un bus turistico che naturalmente non da un passaggio a tipi non ben identificabili quali orgogliosamente noi siamo, dopo un po’ passa un pik up collettivo, i taxi di qui, naturalmente gli sbirri ci devono fare la cresta, si tratta a manciate di pound, alla fine ci si accorda per venticinque, metto lo zaino sul tetto, mi puppo un’altra dose di solite domande e la raccomandazione di tornare domattina presto a Farafra e finalmente si parte. L’autista ci porterà alle porte del deserto bianco ma prima deve finire il suo giro e andare al vilaggio di Abu Nus, a noi va benissimo è una buona occasione per vedere anche se di sfuggita questo piccolo villaggio, c’è anche un lago, sede di un fallito tentativo di itticoltura, il paesino è sgarrupato, il minaretto fatto con essenziale traliccio di ferro con quattro altoparlanti e due mezze lune sul vertice, dal cassone telonato scendono una decina di persone, arrivano correndo i figli dell’autista per salutare il babbo e rimediare qualche nichelino per i bon bon. Si riparte subito, l’oasi è rigogliosa ci sono tante mucche grandi e lungo i numerosi canali abbondano le garzette e altri ucceli acquatici, ci scorrono intorno le immagini di una campagna ricca anche i girasoli qui sono grandi e le grandi estensioni dei campi di grano fanno pensare alle oasi al tempo dell’antica Roma. Si ripassa dai poliziotti, lungo rettilineo per il Deserto Bianco, dopo pochi minuti siamo di nuovo fermi a un altro posto di blocco, le solite domande e poi dritti fino alla meta, incrociamo il bus turistico visto prima, torna già indietro, cosa cazzo avranno visto non lo so. Abdullah ci lascia alla porta principale del famoso White Desert dove c’è un grande pannello che descrive le piste e i luoghi censiti più famosi. È subito magia, i grandi e surreali funghi bianchi divenuti il simbolo di questo straordinario luogo, ci circondano e stagliano le loro sagome nel cielo terso. Il Deserto Bianco si estende per circa 3000 kmq, si tratta prevalentemente di depositi di calcare bianchi organogeni, i famosi “chalk” dei libri di geologia, tutto questo surreale paesaggio ha avuto origine dai sedimenti organici depositatisi sul fondo del mare che ricopriva questa zona nel cretaceo, circa un centinaio di milioni di anni fa. Le rocce candide sono formate principalmente dai resti delle conchiglie, di microrganismi (microforaminiferi) e di coeve microscopiche alghe unicellulari, dette coccolitosfere; questi depositi accumulatisi sul fondo di questo mare estinto una trentina di milioni di anni fa, quando il mare si è ritirato definitivamente, hanno cominciato ad essere erosi dalle sabbie di arenaria abrasive e molto più dure, provenienti dalle rocce limitrofe, erosione meccanica che combinata con l’azione delle piogge e gli sbalzi termici ha originato col passare dei millenni questo fantasmagorico paesaggio. Camminiamo dentro una distesa di funghi in direzione Sud Est, alle nostre spalle in lontananza i suggestivi picchi affilati del Deserto Bianco Occidentale e il famoso El Qubur “lo scalpello di Dio” chiamato anche dalla gente del deserto il Pipo di Allah. È veramente bello, temevo di trovarmi in un “recinto per turisti” invece non c’è nessuno, intanto che lo penso a poca distanza passano dei fuoristrada con tutta l’attrezzatura per il campo, ma velocemente scompaiono. Si sale su una cascata candida che sembra latte solidificato, per poi fermarsi su un altopiano meraviglia, che ci regala un panorama eccelente sui funghi e sulle alture del Sahara al Baida, solo l’assilo delle mosche ci conferma che è tutto vero. Pone il sole infuocando il cielo mentre tutto si colora di arancio, sono attimi densi di meraviglia, i colori cangianti scaldano le forme fantasmagoriche delle rocce regalandogli una parvenza di movimento, siamo avvolti in uno scenario maestoso ed armonico che esige solo contemplazione, ogni movimento o azione è inopportuna, disturba e sa di atto sacrilego. I toni del cielo da rossi sono diventati viola, nell’immobilità dell’imbrunire monto la tenda, mentre la luna piena sorge e poi diventa rossa. La temperatura è decisamente calata e il pile e il cappelo di lana sono assai graditi, dalla balconata della collina bianca ci affacciamo sul deserto illuminato dalla luna piena, la visuale si estende per decine di chilometri dentro un paesaggio d’argento adornato da infinite e indefinite sagome, nel silenzio ci godiamo il privilegio di questo scenario fantastico. {youtube}fDp7oEz4D9k{/youtube} |
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i cacciatori di turisti e il sudario del pargolo |
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La montagna dei dinosauri Stamani taglio i capelli a Serena che però non è affatto soddisfatta del risultato, faccio un salto all’internet sala giochi gestito dai bimbi, che con l’immancabile sottofondo di musiche coraniche, si sfidano in interminabili partite alla play station. Dall’Italia arrivano notizie e immagini luttuose di un terremoto che ha colpito l’Abruzzo. Compriamo pomodori e tonno che mangiamo all’ombra di una tettoia di palme e poi si parte per visitare meglio la zona del Djebel Dish, dove si arriva velocemente grazie ad un passaggio. Fa tanto caldo, per fortuna che il vento aiuta a camminare in questo deserto scuro, il paesaggio è dominato dall’ammaliante sagoma scura di questo inselberg, come si chiamano tecnicamente questi isolotti conici che emergono dal piano del deserto. Attraversiamo la distesa nera da dove sbucano come funghi le rocce erose dal vento e poi si comincia a salire sui fianchi della collina dove spiccano delle fitte stratificazioni di argille colorate, giriamo verso est per beneficiare dell’ombra, è bastato salire di poche decine di metri per avere una spettacolare visione d’insieme della zona, da qui si percepisce benissimo la depressione in cui si sviluppa l’oasi di Bahariyya e fa sempre un grande effetto vedere il verde rigoglioso di un oasi a contrasto con le sterminate distese aride del deserto e ancora più incredibile è pensare che sotto questa sterminata distesa di sabbia e roccia si concentra una delle più grandi riserve di acqua fossile del mondo, il cosiddetto aquifer del deserto occidentale, che in base ai dati raccolti dagli studiosi dovrebbe avere una capacità di cinquantamila chilometri cubi depositati nel sottosuolo tra centocinquanta metri e il chilometro e mezzo di profondità. Il panorama sotto di noi fa pensare al suolo lunare o comunque ad un pianeta sterile, eppure qui 80 milioni di anni fa, nel cretaceo, si estendevano grandi paludi in cui vivevano giganteschi dinosauri. È una zona estremamente intressante dal punto di vista geologico, con delle nette stratificazioni che attraversano il picco orizzontalmente, ci sono delle fasce scure quasi interamente formate da conchiglie, altre che sembrano accumuli di lamiere rugginose, sono decine e decine questi strati, dai colori più divesi dal bianco candido del gesso, al nero, passando per svariate tonalità di giallo rosso e ocra, mi piacerebbe che qui ci fosse Beppe Tanelli per capire bene la cronologia geologica di questo posto straordinario, dove, mentre si sale, si incontrano vongole, cozze e ostriche risalenti probabilmente a una ventina di milioni di anni fa, quando il mare si estendeva fin qui. Mi immagino le varie ere, ottanta milioni di anni fa sotto di noi nell’attuale deserto c’era un’estesa palude dove vivevano i giganteschi rettili che come fossili sono arrivati a noi, in seguito un grande mare il cui fondo è stato anche a metà di questa collina e in seguito dopo la scomparsa del mare, fra grandi cambiamenti climatici, nei millenni successivi i processi erosivi hanno creato queste depressioni che hanno permesso all’uomo di sopravvivere all’interno del deserto, grazie alle acque conservate in profondità che in queste “oasi buche” riescono ad emergere naturalmente. Salire sulla sommità si rivela più complicato del previsto, il terreno è sempre più friabile e le argille si sbriciolano in polvere sotto gli scarponi, ormai è troppo tardi per salire sulla vetta e poi scendere in sicurezza con una buona visibilità, un po’ mi dispiace perché questo cocuzzolo fantasticando me lo ero immaginato fermo nel tempo ad osservare i dinosauri, a fare l’isola in mezzo al mare, a guardare la foresta e poi la savana e infine il deserto sotto di lui, a scrutare le varie civiltà che hanno gironzolato qui sotto e sui suoi fianchi, come testimoniano i resti di cocci qui in cima. Nel frattempo è comparsa una pallida luna gigante e a una ventina di metri dalla punta decido di tornare indietro. La discesa è veloce, la montagna sembra sfaldarsi sotto i piedi, come la pomice polverosa sui fianchi dei vulcani siculi, il deserto con le ombre lunghe che precedono il tramonto sembra veramente il mare, scendendo si incontrano delle rocce ferrigginose e quasi in fondo ritroviamo un grande deposito di conchiglie e anche dei bellissimi cristalli, credo di gesso, a volte divisi in sottili scaglie che li fanno assomigliare a piccoli specchietti e poi ancora spettacolari formazioni ferrose piene di bolle e cavità che assomigliano alla scorie di lavorazione del ferro. Poche centinaia di metri e siamo ai limiti del verde, dove le spighe di grano comiciano ad ingiallire, l’oasi è sempre un posto di quiete, ma dopo il tramonto lo è ancora di più, la gente dopo una gionata nei campi si va a lavare e a rilassare nelle vasche di acqua tiepida che sono l’orgoglio degli abitanti delle oasi, è un mondo semplice che trasmette armonia, una casa capanna circondata da palme e campi di grano con a fianco una vasca di acqua calda dove sguazzare e lavarsi, visto così sembra un mondo perfetto basato sull’equilibrio e sul rispetto delle risorse naturali. Qui non c’è un vero paese ma un piccolo insediamento in cui si respira accoglienza, le donne ci salutano e ci invitano a prendere il the, ci saluta anche una ragazza dal pianerottolo della sua casa dove sta allattando la figlia, è un’immagine molto bella e molto distante dalla mentalità arabo islamica che mi fa pensare che questa sia una piccola comunità Amazigh. Come la sera precendente lungo la via troviamo un passaggio per Bawiti, dove si cena con una sublime zuppiera di macedonia. |
La valle delle mummie dorate e le vacche mummificate Stamattina il tempo è bello e cosa ancora più piacevole la temperatura è sensibilmente calata, ne approfittiamo per fare una camminata nel deserto ai confini dell’oasi per vedere la valle delle mummie dorate. La zona dista solo qualche chilometro da Bawiti, è una grande area brulla dove ci sono tanti resti di alberi fossilizzati, le rocce sono strane soprattutto nella parte superiore che sembra essere placcata di ferro rugginoso, spingendosi all’interno cominciamo a trovare delle tracce di sepoltura e dopo poco nelle zone più rocciose, dei veri e propri pozzi a cui si accede all’antica necropoli. Qui nel 1996 a quanto si racconta un contadino casualmente ha scoperto una mummia dalla maschera dorata, la notizia è giunta agli archeologi che hanno iniziato una campagna di scavi che ha portato a scoprire la più grande zona di sepolture di mummie risalenti al periodo romano. In questa area di circa trentasei chilometri quadrati sono state rilevate a quanto si dice più di diecimila mummie che sono ancora quasi tutte dentro la necropoli. Sono numerose le aperture che scendono giù nel sottosuolo e con un minimo di attrezzatura non sarebbe difficile entrare, la zona è totalmente abbandonata, nessuno scava e nessuno controlla, si vedono solo le tracce dei lavori archeologici. Camminiamo per qualche ora in questo grande cimitero incontrando anche resti di un villaggio abbandonato in mattoni crudi, di cui è molto difficile stabilire l’età. Spostandosi verso la zona verde in direzione nord ovest troviamo i resti di un forte in pietra circondato da strutture di mattoni crudi, probabilmente una fortezza risalente anche questa al periodo romano. Come spesso accade nel deserto anche qui incontriamo numerosi resti di animali morti, soprattutto mucche che ricoperte parzialmente dalla sabbia, sembrano mummificate. Ritorniamo verso Bawiti e dopo una pausa the e un rifornimento d’acqua ripartiamo in direzione del Djebel Dist, la montagna a forma di piramide che avevamo visto nei giorni scorsi dalla sommità del Djebel Engleez. La camminata è piuttosto lunga, una ventina di chilometri, la prima parte attraversa la grande oasi ed è piacevolmente ombreggiata dalle grandi palme, poi piano piano diventa sempre più brullo, ma comunque coltivato spesso a grano. Per fortuna da queste parti c’è sempre chi ti da un passaggio e un pick up ci carica sul cassone portandoci nella zona della montagna. Ci avviciniamo al rilievo attraversando campi di grano e girasoli, passando vicino ad una casa un bimbo incuriosito dalla nostra presenza ci viene incontro e ci invita a prendere un the. La montagna oltre a essere molto bella è anche estremamente interessante perché qui sono stati ritrovati numerosi resti di dinosauri, questa zona, come del resto tutta la depressione di Bawiti, 80 milioni d’anni fa era una grande palude abitata dai giganteschi rettili. Il primo a scoprire i resti di dinosauro fu un paleontologo tedesco, un certo Ernst Stromer von Reichenbach che nel 1914 qui trovò un vero e proprio cimitero di questi giganteschi sauri del passato. Fu una scoperta sensazionale perché mai prima di allora erano stati trovati resti di dinosauro al di fuori delle americhe e si pensava che questi rettili fossero un’esclusiva del nuovo mondo. Purtroppo i preziosi reperti fossili, dopo essere stai portati in Germania, furono distrutti durante i bombardamenti anglo-americani della seconda guerra mondiale. In tempi molto più recenti qui è stata fatta una scoperta ancora più sensazionale, nel duemilaeuno da un gruppo di studiosi americani sono stati scoperti i resti di un gigantesco rettile erbivoro lungo ventotto metri, alto otto e dal peso stimato di una settantina di quintali, che è stato battezzato Paralititan Stromeri in onore del paleontologo Tedesco. Ormai è tardi per cercare le tracce dei giganti del passato, ma il posto è veramente molto bello e decidiamo di tornarci domani per approfondire la conoscenza. Intanto sfruttando la bella luce del tramonto che si sta avvicinando si fotografa questo affascinante paesaggio dominato dalla piramide elegante del Djebel Dist e dal vicino Djebel Maghrafa (monte mestolo) è caratterizzato da suggestive rocce chiare erose dal tempo, che fuoriescono dalla pianura scura, dalla sabbia anche qui fanno capolino carcasse bovine . Ci godiamo un bel tramonto e poi si comincia il percorso di ritorno aiutati da una luna sempre più grande, che man mano che cala la notte illumina tutto. Una volta raggiunta la strada in pochi minuti veniamo nuovamente ospitati nel cassone di un furgoncino che ci riporta dentro Bawiti. |
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La tempesta di sabbia E’ arrivata una tempesta di sabbia, il vento è caldissimo che si fatica a respirare eppure c’è chi sta facendo una gettata di cemento, spingendo grandi carrette che già vuote peseranno 40 chili. L’aria è di polvere e il computer nonostante sia al riparo si colora velocemente di giallo ocra. Non si vede niente, solo aria rossa e polvere. |
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Le Mummie Dorate e il camion delle bombole del gas Dopo una nottata insonne di battaglie con le zanzare arriva l’alba, ci sono già una ventina di gradi, il sole è ormai alto ma Bawiti è ancora addormentata. Si passa dal cimitero dove ci sono due marabutti, il più grande ha dentro almeno sei sepolture, ma è tutto pieno di sporcizia; nel secondo, senza volta, c’è addirittura un teschio, forse è quello del “santo” che riposa tra la spazzatura e una cacata, il culto dei morti islamico è sempre spiazzante, però aiuta a capire il disinteresse della gente verso le storie e le genti del passato. Andiamo nella zona del museo delle mummie dorate e dopo un po’ di attesa si entra, sono esposte una decina di mummie trovate qui vicino nel 1996, si tratta di un piccolo campione delle circa duecentotrenta che sono state estratte dall’antica necropoli risalente al periodo Greco Romano, dove sembra ne siano state identificate più di diecimila. Rispetto a quelle del periodo Faraonico precedente alle dominazioni straniere, sono molto grezze, i corpi sono ricoperti di bende adornate con disegni colorati che niente hanno a che vedere con la precisione e la raffinatezza delle loro antesignane, anche le famose maschere dorate sono lontanissime dallo splendore di quelle di Tutankamon o della regina Tuya viste al museo del Cairo, la famosa doratura di queste mummie consiste in uno strato sottile di vernice dorata posta sopra le bende di lino che dopo essere state impregnate nel gesso venivano applicate sui volti dei defunti e infine vi disegnavano gli occhi, i capelli e la bocca per riprodurre più fedelmente possibile la fisionomia del defunto. In questo periodo la mummificazione era diventata un fenomeno di massa e quasi tutti si facevano mummificare per accedere alla vita eterna, però come sempre quando le cose diventano alla portata di tutti, la qualità scade e anche le formule magiche disegnate sui corpi mummificati danno l’impressione di essere solo un frettoloso ricopiare. Nel museo si stanno concentrando i turisti, sono arrivati un gruppetto di italiani e uno di tedeschi, lasciamo il deposito delle mummie e ci spostiamo di qualche centinaio di metri e andiamo a visitare le tombe di Quarta Qasr Salim, le più famose di Bawiti, che risalgono alla XXVI dinastia. Si trovano proprio in mezzo all’abitato, all’interno di in poggiolo di terreno brullo che è recintato ma ha il cancello aperto, sembra che non ci sia nessuno ma i custodi sono tutti in un grande stanzone a pennicare, uno un po’ contrariato si alza e ci apre il grande cancello a botola, si scende nella prima tomba più grande che fu costruita per Bannentiu, che le iscrizioni geroglifiche descrivono come sacerdote. Alla fine della discesa ci sono due stanze decorate con colori vivaci, con le solite raffigurazioni di dei e offerte e quelle del padrone di casa, la moglie e il figlio, gli affreschi sono grezzi nella fattura ma molto accesi nei colori, sono realizzati su di un velo di intonaco, ora molto delicato, appoggiato sulle pareti di arenaria, purtroppo il calore delle luci al neon sta facendo crescere una muffa nera che si sta mangiando gli affreschi. Mentre siamo dentro scende un gruppetto di tedeschi e nonostante siano persone assai rispettose del sito, si vede come la presenza di tante persone in uno spazio così angusto produca danni irreparabili, le mani che finiscono sui dipinti, lo zaino che struscia sulle pareti e si porta via un pezzo di colore, ma è soprattutto l’umidità che si sviluppa con la presenza delle persone che sta distruggendo rapidamente le pitture. Risaliamo per andare a vedere l’altra tomba visitabile di questo sito, la più famosa, quella di Zed-Amun-ef -ankf un ricco commerciante che era anche il babbo di Bennentiu, è più piccola ma molto bella, con un'unica camera centrale adornata da quattro piccole colonne irregolarmente cilindriche che sono scalpellate nella roccia formata da sottili strati di diverso colore che si armonizzano bene con i colori dei dipinti, purtroppo anche qui i colori stanno subendo grossi danni a causa della poca cura con cui sono illuminate le tombe e da come sono gestite le visite. Ai lati nelle pareti ci sono altre aperture che conducono a piccole tombe senza decori risalenti al periodo romano, quando in questa zona furono costruite delle tombe collettive. Fa caldo oggi a Bawiti, ci spostiamo camminando in direzione di Farafra per vedere un’altro complesso funerario che dista qualche chilometro, percorrendo le solite vie polverose vediamo passare i pulmini dei turisti incontrati prima, probabilmente vanno a vedere il Deserto Bianco. In uno slargo lungo la via c’è grande movimento e assembramento, è arrivato il camion delle bombole del gas, si scaricano le piene e si caricano i vuoti, ancora qualche decina di metri, l’abitato finisce ed è già deserto, qualche minuto di cammino e troviamo un controllo di polizia, il militare è perplesso di vederci lì a piedi e senza guida, risolve tutto una guida beduina in fuoristrada che sta entrando a Bahariyya con una famiglia di belgi, anche il poliziotto come i bimbi del villaggio mi chiede una penna “uangonben!?” Ma avrebbe anche ragione visto che registra i passaggi con il tubino dell’inchiostro di quella che fu una penna a sfera. Qui vicino ci doverebbe essere la tomba più antica ritrovata in questa zona, un blocco di arenaria e un casotto di frasche di palma ci fa capire che siamo sulla giusta via, nel capanno ci sono tre guardiani stesi all’ombra, “ticket” mi urla uno, mostro il biglietto che vale per tutti i siti dell’oasi e si avanza verso il sito, la tomba di Amenhotep Huy risale alla XVIII dinastia, non è che ci sia un granché, è rimasto poco si intuisce con un po’ di fantasia qualche traccia di figura umana e delle spighe di grano, resti di altre tombe e resti di grossi pezzi di ceramica spessi diversi centimetri. Andando via per qualche metro ci segue il canino festante dei guardiani sempre sdraiati in capanna. Si riprende la via e si ritorna verso il deposito del gas dove ormai i vuoti sono quasi tutti sul cassone del grande camion e la gente sta tornando a casa con le bombole portandole nelle maniere più disparate, i bimbi a piedi le fanno rotolare sulla strada inventandosi una specie di gara che trasforma in gioco il lavoro, chi le carica sull’asino, chi sul carretto o la bicicletta, tanti con le moto spesso caricando due bombole sui fianchi del centauro a mo’ di soma di ciuco, poi i più ricchi con i motocarri, i pik up e i trattori. Il sole è vicino allo zenit ormai è troppo caldo per camminare, ci ripariamo all’ombra per qualche ora e poi verso le tre si riparte per andare a vedere il tempio di Ain al-Muftella, anche questo, come le tombe dentro il paese, risalente alla ventiseiesima dinastia, anche qui lungo la strada che costeggia l’oasi le solite strade sabbiose e le solite situazioni, l’edificio più interessante la tomba di uno sciecco con la classica cupola conica e il solito corredo di spazzatura all’interno, poi la strada diventa asfaltata e cammina nel deserto anonima finché non si incontra una cancellata con all’interno una tettoia. I due guardiani ci dicono è chiuso, come al solito questi siti poco visitati sono sempre chiusi, gli orari di visita vengono gestiti a bashish, nonostante il biglietto il tempio rimane chiuso, faccio un giro fra mattoni crudi e i resti del santuario, dalle fessure delle porte si intravedono i classici rilievi che si vedono nei templi Egizi. Si prosegue camminando verso sud e si rivede la strada da cui siamo arrivati da Siwa, sul cavo dell’eletricità che fiancheggia la strada c’è una lunga fila di gruccioni, che forse si preparano a partire per l’Europa, mentre ai bordi della via ci sono diversi cadaveri di animali senza testa, soprattutto gatti e galli che mi fanno pensare a riti di magia nera ancora diffusi fra la popolazione nonostante siano combattuti dall’islam. Si cammina fra campi di grano e ogni tanto spunta qualche piccolo girasole, poi isolata incontriamo una grande villa dall’architettura vistosa, con tanto di pratino all’inglese e mercedes nero davanti al portone, forse la casa di un moderno Zed-Amun-ef-Ankf, nel frattempo la temperatura si è abbassata e il cielo si è coperto di nuvoloni gialli, incredibilmente piove, sono solo poche rade gocciolone me qui è comunque un evento e la cosa preoccupa i muratori che stanno costruendo il minareto di una moschea di campagna. Seguendo la mappa che mi porto dietro, il famoso tempio di Alessandro Magno non dovrebbe essere lontano, infatti tagliando per i campi grazie anche alle indicazione di alcuni contadini lo vediamo in lontananza e attraversando una distesa arida lo raggiungiamo. Anche se alcuni studiosi ritengono che Alessandro non sia mai passato da qui, sembra che il condottiero Macedone, dopo aver ottenuto conferma dai Sacerdoti dell’Oracolo di Amon a Siwa sulle sue origini divine, sulla via del ritorno sia passato da qui e in onore di Ammon e di se stesso abbia fatto erigere questo monumento. Sta di fatto che questo è l’unico tempio dove sono state trovate raffigurazioni e cartigli di Alessandro Magno. Purtroppo però ormai non si vede quasi niente perché l’erosione ha consumato quasi tutto e poi la visita risulta angosciante perché i due guardiani particolarmente ottusi, ci vogliono mandare via in tutti i modi asserendo che il sito è chiuso e che i turisti arrivano dalla strada e non dai campi e solo la mattina. Sulla via del ritorno passiamo da un piccolo villaggio dove la gente dopo una giornata nei campi si rilassa e si lava nelle pozze di acqua tiepida alimentate dalle sorgenti calde che sbucano un po’ ovunque. È ormai buio quando si rientra camminando nel flusso dei ciuchi di rientro dalla campagna e poi il paese ci accoglie con i bimbi che recitano a pappagallo “uan ben……” {youtube}kMGG9kH1bM4{/youtube} |
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Djebel Engleez Colazione con una spettacolare macedonia che Serena ha preparato con la frutta dell’oasi: una zuppiera di fragole, banane, pesche e aranci. Passo le ore più calde a scrivere poi verso le quattro si esce per andare al Djebel Engleez, dopo aver lasciato il villaggio di Bawiti e attraversato per una ventina di minuti l’oasi, si esce dalla freschura del palmeto e si comincia a salire sulla desertica montagna nera che con le sue forme ondulate fa pensare a un asteroide sterile. Come in tutte le zone desertiche ai margini dei centri abitati, anche qui ci sono tante tracce di sepoltura, si sale fino alla vetta che in realtà è il punto più alto di un piccolo altopiano, dove si trova il rudere di un piccolo forte costruito con scaglie di sasso tenute insieme da un impasto di fango secco, questo avamposto fu costruito durante la prima guerra mondiale per volere di un ufficiale inglese di nome Williams che da qui intendeva avvistare i predoni nomadi che spesso facevano irruzione dalla vicina Libia. Il panorama è ampio e spazia a 360 gradi, a nord ovest si vedono i piccoli laghetti dell’oasi e a nord la collina a forma di vulcano del Djebel Dish, dove sono stati scoperti importanti resti di dinosauri. Con l’avvicinarsi del tramonto la collina si popola di turisti e accompagnatori, arrivano anche due francesine con una ventina di ragazzi dell’oasi al seguito, tutti impegnati a farsi fotografare con le due divertite ragazze, mentre ci spostiamo per guardare il tramonto da un pinnacolo più in basso, vediamo arrivare “i maschi” delle due contese fanciulle, entrambi con l’occhi a polpo lesso e il sorriso in giamaica, poi scendendo in una radura più in basso vediamo parcheggiati tutti insieme un gruppo di fuoristrada dove i cucinieri dei vari gruppi stanno preparando l’immancabile the. È assurdo ma tutti fanno le stesse cose, nello stesso posto, alla stessa ora, purtroppo questo concetto di turismo è comune da tutte le parti, Elba compresa. Per tornare verso valle si passa da una dei tanti sentierini che attraversano la “montagana nera” passando sopra a una zona che suona vuota sotto i piedi, sicuramente sotto è cavo, chissà…magari qualche tomba sconosciuta, cosa assi probabile da queste parti. A buio si rientra a Bawiti e si va a mangiare il solito kofta al solito posto. |
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Archimede Pitagorico Egiziano Uscita al forno per comprare pane e brioche che poi ci andiamo a mangiare al cafè dove si prende il the contornati dai soliti tipi che giocano a domino. C’è agitazione in paese, è arrivato un gruppo di studenti di una scuola media del Cairo, i ragazzini e le ragazzine sono molto “occidentali”, così come i professori, mentre le insegnanti pur non portando il burka sono comunque velate. I bimbi sono tanto diversi dai coetanei di Bawiti, specialmente le ragazze, qui le loro coetaneee sembrano tutte delle suorine, l’Egitto è un paese di sperequazioni sociali, dove l’istruzione è ancora un privilegio delle classi sociali più facoltose. Parlo con il prof che mi dice che i ragazzi visiteranno i principali siti archeologici dell’oasi e poi andranno a bivaccare nel deserto bianco, un programma bello e ben organizzato con tende e fuoristrada, una cosa bellissima peccato che sia destinata solo ai figli di papà cairoti e che per i bimbi di Bawiti non sia previsto niente. C’è un gran caldo, passo il pomeriggio a scrivere poi in serata si va a fare un giro sulle colline nere che si elevano ai margini del centro abitato in direzione nord, è un paesaggio arido ma affascinante basta salire di qualche decina di metri per avere forte la percezione della grande depressione di Bahariyya, un’enorme buca in cui affiorano le acque fossili del sottosuolo che permettono lo sviluppo di estesi palmeti. Ci godiamo il tramonto e il sorgere della luna e poi si rientra in paese attraverso le vie sabbiose dei palmeti ormai nella semioscurità incrociando numerosi fellah di rientro dai propri coltivi, alcuni in bici, altri con i ciuchi e qualcuno anche con le moto a cui hanno applicato le shuarì (le ceste che normalmente si usano sui ciuchi) sui fianchi. In serata cerchiamo senza successo delle bici da nolleggiare, però incontriamo un Archimede Pitagorico Egiziano, che ha costruito una spettacolare sidecar a pedali che si può nolleggiare, faccio un giro di collaudo rischiando di finire sotto un fuoristrada, il ciclo ha un aspetto accattivante, però pesa uno stofonchio e tira tutto a destra, ma soprattutto per girare ha bisogno più o meno dello stesso spazio di un tir, con un po’ di imbarazzo rinuncio a noleggiare il prototipo che il geniale progettista orgogliosissimo della sua ceratura, ha stampato anche sui biglietti da visita. |
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La normalità cambia Tutto è impregnato di Islam a Bawiti ma senza la poesia di Siwa, si sente la vicinanza con il Cairo e comunque questa è un oasi araba. Passa un contadino su un carretto trainato da un ciuco, è tutto sdentato e ha una galabiyya verde intrisa di settimane di odori e colori, ma indossa un paio di mocassini lucenti che gli dondolano nei piedi, trasporta una bombola del gas e una gallina legata alla zampa, scene come questa ormai mi scorrono davanti senza destare interesse. Si cambia velocemente e la normalità cambia con il viaggio, mi torna in mente quando, appena partito, nel gennaio 2008 in Marocco, mi stupivo nel vedere passare carri e ciuchi, ora quasi non faccio più caso nemmeno agli uomini che passano con i fucili in spalla, ce ne sono tanti qui, sono tipo poliziotti in borghese e girano con i loro schioppi per le vie. Scendendo verso la via principale dopo una specie di rotonda monumento, dove unendo parti di alberi fossili e cristalli hanno costruito un orrendo simulacro di albero, si arriva nella via dove vendono frutta e verdura, le famiglie dei venditori in pratica vivono qui, vendono per terra o su banchini fatti con le cassette di legno di palma, le mercanzie in parte sono dell’oasi e in parte arrivano dal delta con i camion. Ci godiamo il tramonto dalla terazza con il sole che si infilza nella mezzaluna della moschea e subito dopo la temperatura si abbassa. Anche oggi non c’è connessione telefonica e internet non va. |
© 2024 Elba e Umberto