To Bagdad
All’alba si caricano gli zaini nella vettura e si parte, Amman a quest’ora è deserta, però man mano che ci incanaliamo per uscire dalla metropoli il traffico aumenta. La prendo un po’ larga e mi ritrovo un po’ più ad est di quello che volevo ma non è un gran problema, il cambio automatico è un gran troiaio, cambia da solo e nei momenti meno opportuni e in queste terre bibliche non c’è verso di fa’ una curva come Cristo comanda. Nei pressi di Al-Mafraq vicino al confine Siriano c’è un enorme piazzale dove viene smistato il petrolio proveniente dal vicino Iraq, che qui viene caricato sui tanti camion cisterna. C’è un gran puzzo di catrame e tutto è unto, l’aria, la strada e le strutture per riempire le botti. Siamo quasi in Siria, dopo poco un pannello ci indica l’imbocco per la frontiera e subito dopo due cartelli che recitano in arabo e anche in inglese To Damasco e To Bagdad. Entrambe le città sono vicine sarebbero a poche ore di macchina, ma purtroppo sono confini che senza autorizzazioni (molto difficili da ottenere), non si passano. Fa un certo effetto, il cartello To Bagdad, sembra la via per entrare nel tg, Saddam Hussein e la guerra sporca di Bush, gli italiani morti a Nassirya, questa strada ha un che di metaforico, sembra il collegamento occultato verso il mondo dell’informazione televisiva. A Irbid facciamo una breve sosta per prendere un the in un barettino sulla via, dove la televisione trasmette un documentario sulla temibile vipera della Palestina che vive proprio da queste parti. Lasciamo la cittadina e si torna nella brulla campagna giordana, orami siamo vicini a Umm Qays, la Gadara Romana. Si risale una collina percorrendo un po’ di tornantoni mortificati dal cambio automatico e ci troviamo nel parcheggio alla base del sito archeologico…
CategoryMaggio 2009
I vantaggi del “benessere” e il lato oscuro della cosa
Si sale nella parte moderna per noleggiare una macchina con cui visitare il nord del paese per i prossimi giorni e poi raggiungere Petra. Tratto il prezzo e per 28 dinari giordani al giorno ci si accorda per la più economica, che verremo a ritirare in serata. Qui a differenza dell’Egitto non serve la patente internazionale. Approfittiamo di questa visita ad Amman per sistemare l’attrezzatura, perché computer e macchina fotografica hanno accusato la lunga permanenza nel Sahara. Dopo un po’ di giri a vuoto decidiamo di andare nella zona dei grandi centri commerciali, con un taxi attraversiamo una zona di albergoni,ville di lusso e grandi ristoranti, tutti addobbati con le bandiere del Manchester del Barcellona per la finale di Champion League, che qui è un vero e proprio avvenimento. Ci vuole una mezz’ora per arrivare nella zona del grande centro commerciale, è una struttura enorme, un grande palazzo acciaio e cristallo, nei parcheggi decine e decine di macchine di lusso, odio questi posti ma alla fine per trovare quello che cerco qui è il posto più indicato. All’ingresso ci controllano come fosse una dogana, poi si entra dentro avvolti in un lusso esagerato, cinque o sei piani di negozi luccicanti, dove sono tutti vestiti all’occidentale, ci sarebbero anche gli zaini belli, ma è meglio concentrarsi sulle cose indispensabili per fare le foto e scrivere, comunque la vista di tutta questa merce è destabilizzante, come tutta questa gente frenetica e leccata che odora di plastica. Arriviamo nella zona ristorazione e senza proferire suono ci si trova in un ristorante italiano in fila per un piatto di penne. A pancia piena ci si orienta meglio e troviamo la zona “elettronica” dove si compra un nuovo pc, è una spesa considerevole ma necessaria, è un bell’oggetto con tanta memoria e la telecamera incorporata, cosa importante per farsi vedere a casa. Con l’oggetto nuovo lasciamo questo emporio di tecnologia, fra microcomputer, telefonini tuttofare, è un delirio senza odore questo posto, ma ha un suo fascino anche se ingannevole e diabolico e nonostante la voglia di andersene sia il desiderio maggiore, non rimango indifferente al potere ipnotico delle fantastiche immagini virtuali che scorrono sui grandi schermi al plasma che sembrano chiamarti per attirarti, per catturarti come il circo di mangiafuoco. Sulla via del ritorno troviamo Amman sempre più imbandierata di stendardi Angli e Catalani, fra ambasciate, consolati e concessionarie di auto di lusso, fra cui una con una ventina di Lamborghini. Ritiro la macchina e scopro che l’utilitaria è una mitsubishi lancer, una berlinona con il cambio automatico, i documenti sono una specie di carta di credito, la macchina la consegneremo ad Aqaba. I tornantini di Amman sono divertenti, peccato che io e il cambio automatico non si vada d’accordo e con un paio di frizionate con il pedale del freno ho rischiato in due minuti di stampare Serena nel parabrezza e di farmi tamponare.
L’eccitazione da Champion League mi ha contagiato e ho la voglia di vedere la finale fra Barcellona e Manchester che si gioca a Roma, al fondouk la partita non si può vedere perché è trasmessa solo dalle televisioni a pagamento, quindi usciamo in cerca di un locale dove si possa vedere la partita. Amman è deserta, sono tutti davanti alla televisione, potenza della televisione e ancora di più della play station, ma vedere la partita si rivela impresa ardua, nei locali dove la trasmettono i posti sono prenotati e ci sono i buttafuori che non fanno entrare, è tutto super organizzato, grandi schermi, bandiere, ma la partita non si vede, eppure il posto ci sarebbe e gli spettatori sembrano più interessati a shishare che alla finale, ma a quanto pare hanno pagato per stare comodi e ostentare il loro privilegio isolati dalla plebe. Lampante si rivela il lato oscuro del lusso e del benessere, l’altra faccia della medaglia, efficienza, freddezza, rigidità, classismo, e mi viene spontaneo il confronto con Mut, dove mi sono trovato a vedere la semifinale fra Barcellona e Chelsea nel classico cafè all’aperto delle oasi egiziane, da una televisione sgarrupata messa sulla via, dove ti potevi mettere a sedere o guardare la partita in piedi, senza che nessuno ti chiedesse qualcosa o ti mandasse via. Quando ormai scoglionato sto scendendo verso la città vecchia, provo ad entrare in un locale e qui un gruppo di ragazzi ci ospita al loro tavolo, mi rendo conto che siamo molto più diversi qui che nei cafè delle oasi, sono mediamente tutti figli di papà vestiti da milano da bere, sembra di esse’ da Giannino d’agosto, culi e puppe al vento e bevande alcoliche, però la partita si vede bene con megaschermo e dolby surround che senti anche il suono del pallone. Siamo ospiti di un tavolo multietnico, c’è un greco con una faccia da Pomontinco che come me tifa per il Barcellona “una faccia una razza”, un ucraino, un lettone, un anglo-giordano e un giapponese che parteggiano per i britannici, anche se dicono che sono per lo spettacolo; i più giovani sono qui per studiare, gli altri lavorano, è una compagnia divertente anche se ci sentiamo molto più “diversi”qui che nei villaggi delle oasi, Messi segna e regala ai catalani il trofeo facendo saltare per i tavoli un gruppo di studentesse spagnole. Finita la partita il locale si svuota e noi riscendiamo verso il fonduk, dopo questa giornata di “modernità occidentale”, domani si parte alla scoperta dei luoghi biblici.
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Alla scoperta di Gerasa, la Roma d’Oriente Amman si sveglia tardi, alle sette di mattina la città è ancora quasi totalmente addormentata,oggi voglio andare a rivedere la città Romana di Jerash, il sito archeologico più famoso della Giordania, dopo Petra, che si trova ad una cinquantina di chilometri da Amman. Con un taxi raggiungiamo la stazione dei bus, il tassista parla romeno perché ha vissuto lì diversi anni e associa la Romania all’Italia “Romania come Italia parla uguale, gente amica dei giordani non come inglesi, francesi e tedeschi, loro razzisti”, mi piace quello che dice e penso anch’io che gli italiani siano in maggior parte così, anche se le ultime cronache italiche in fatto di fratellanza con i rumeni e di tolleranza verso gli altri popoli, non è che siano tanto edificanti. Attraversiamo i saliscendi di un paio di colline ricoperte da grandi alberghi e centri commerciali e in una decina di minuti arriviamo alla stazione Nord degli autobus, è grande e frequentata, non posso fare a meno di notare quanto tutto sia più pulito ed ordinato rispetto all’Egitto, per partire però si aspetta tanto, il sistema è lo stesso della terra dei Faraoni, si parte quando i posti sono tutti occupati. Lasciato il grande piazzale ricomincia il saliscendi fra le colline della grande periferia che sembra finire e ricominciare più volte, sono chilometri di abitazioni recenti o in costruzione, finalmente dopo una ventina di chilometri incontriamo la campagna con i campi di grano e gli oliveti, è un paesaggio collinare prevalentemente brullo con tanti affioramenti di rocce bianche, la strada si snoda sinuosa e panoramica fra discese e salite ripide che si susseguono ininterrottamente per una cinquantina di chilometri, finché non vediamo Jerash, la famosa Gerasa degli Antichi Romani. Dalla strada si vede già il grande arco trionfale di Adriano, chiedo e ottengo di scendere qui, ci prendiamo un the in una microbottega alimentare in questa zona di officine meccaniche, è una baracchina di tre metri per due ma c’è tutto, il banco, il frigo e il fornello. Scendiamo da un viottolo che fiancheggiando la recinzione ci porta ad un ingresso secondario che si trova all’estremità meridionale del sito. Il sito dell’antica Gerasa ha una storia millenaria, la zona era abitata già seimilacinquecento anni fa per una serie di condizioni favorevoli: la posizione sulle colline di Gilead, difficilmente attaccabile da eserciti nemici, la terra fertile, il fiume oggi chiamato Wadi Jerash che l’attraversa garantendo acqua fresca tutto l’anno, l’altitudine di 500 metri che regalava un clima mite e per la posizione estremamente strategica del punto di vista commerciale. Fin dai tempi di Garshu (così si chiamava l’insediamento prima della conquista Greca) questo centro era considerato un punto di incontro fra la cultura mediterranea con quella orientale. L’insediamento diventò una città durante il periodo ellenico, successivo alla conquista di Alessandro Magno (332 a.C.) e fu chiamata Antiochia Chrysorhoas (sul fiume dorato). Ma è con la conquista romana avvenuta nel 63 a.C al tempo di Pompeo, che inizio l’età dell’oro e prese il nome di Gerasa, dopo l’annessione all’Impero Romano entrò a far parte della Lega delle Decapoli. La fortuna di Gerasa fu dovuta alla fertilità del terreno e alla ricchezza d’acqua, ma anche al commercio con mercanti Nabatei, grazie al quale divenne una delle province più ricche di tutto l’Impero Romano e la città venne ridisegnata e ampliata per essere all’altezza del suo status. Con la conquista del regno Nabateo da parte di Roma nel 106 d.c. al tempo di Traiano, Gerasa diventa ancora più importante e si sviluppa fino a diventare una delle più grandi città Romane, arricchita da strutture imponenti e lussuose, un ulteriore sviluppo arriverà in occasione della visita dell’imperatore Adriano nel 129 d.C. L’importanza e la maestosità di Gerasa crebbe fino all’inizio del III secolo, superando i ventimila abitanti e acquisendo anche il titolo di colonia Romana. Ma nei decenni successivi iniziò il declino causato principalmente dal cambiamento delle rotte commerciali che si spostarono verso il mare, abbandonando le vie carovaniere, facendo perdere alla città le tasse sulle merci che transitavano da qui. Il declino della città sembrò segnare una battuta d’arresto nel 300 d.C. sotto Diocleziano, quando si verificò una breve ma intensa ripresa delle attività edili, che però non fermò il regresso di Gerasa che nel quinto secolo aveva perso la sua importanza, nonostante l’imperatore Costantino con la conversione dell’impero Romano al culto cristiano, vi fece edificare molte chiese per lo più costruite sulle rovine di palazzi e templi preesistenti. La conquista da parte degli Arabi nel 636 d.c. decretò la fine di Gerasa che ricevette il colpo di grazia dai terremoti che colpirono la regione intorno alla metà dell’ottavo secolo. Nel XII secolo i cronisti delle crociate raccontano delle rovine disabitate di Gerasa dove si fermò una guarnigione cristiana. Da lì in poi la città rimase totalmente ignota al resto del mondo, finché nel 1806 fu riscoperta da Ulrich Jasper Seetzen, un viaggiatore tedesco che riconobbe le rovine dell’antica città, i resti rimasero semisepolti fino al 1925 quando iniziarono i primi scavi. Entriamo passando dal grande arco di Adriano che fu inaugurato nel 129 d.c. in onore della visita dell’Imperatore, il possente monumento fu costruito molto più a sud della città in previsione della sua futura espansione, che poi in realtà non si verificò; più che restaurato l’arco sembra ricostruito per quanto è perfetto, anche nei siti archeologici la Giordania è totalmente diversa dall’Egitto, i poliziotti fanno i poliziotti e nessuno si propone per farti da guida e poi è tutto molto pulito. Passiamo dentro i resti di una chiesa bizantina e poi arriviamo all’ippodromo, anche questo recentemente restaurato con tanto di tribune e bandiere, è lungo 245 metri e largo 52, sulla pista ci sono un paio di cocchi romani che fanno molto set cinematografico e fanno pensare alla spettacolare corsa delle quadrighe nel circo di Antiochia del kolossal cinematografico Ben Hur. Una via lasticata risale verso nord e dopo qualche centinaio di metri arriva all’ingresso principale dove c’è il centro visite, allestito con grandi panelli, plastici e del bel materiale informativo gratuito. Usciti dal centro visite dopo pochi metri si trova la porta Sud, il vero inizio della città antica, e i resti delle mura cittadine risalenti al quarto secolo dopo cristo, al tempo di Diocleziano. Percorriamo il lastricato della via meridionale che ci porta nella spettacolare Piazza Ovale che misura novanta metri per ottanta, è perfettamente pavimentata e circondata da un favoloso colonnato che si apre verso nord sul Cardo Massimo, è un luogo maestosamente armonico. Appena più in alto sul lato ovest c’è il grandioso Tempio di Giove con le sue colonne alte quindici metri, attualmente è in restauro e il camion gru in mezzo alle rovine sembra un modellino. Si sente un suono di cornamuse provenire dal Teatro Sud che si trova pochi metri più avanti, si entra… il grande teatro in perfetto stato di conservazione, fu costruito nel novanta dopo cristo al tempo di Domiziano e poteva ospitare circa cinquemila persone, i musicisti in divisa militare suonano le cornamuse per un gruppetto di una decina di pallidissimi inglesi che sembrano apprezzare lo spettacolo; gli angli se ne vanno e i musicisti si spostano all’ombra delle possenti mura a riposare, ma solo per pochi attimi, appena vedono arrivare un paio di coppie di giapponesi scendono dentro l’orchestra e iniziano a suonare la solita musica. Il suono delle cornamuse non è il massimo ma permette di apprezzare l’eccellente acustica del teatro, che è anche una favolosa postazione panoramica per ammirare la Piazza Ovale e il Cardo Massimo, spina dorsale di Gerasa lungo 800 metri e completamente fiancheggiato da imponenti colonne sui due lati. Percorriamo la maestosa via colonnata del Cardo Massimo, le lastre della pavimentazione conservano i solchi del passaggio dei carri nei tempi antichi, quando questa era una via molto frequentata, oggi c’è solo qualche turista e un po’ di lucertolone policrome, che stanno a godersi il sole fra le rovine. Sul cardo un tempo si affacciavano decine di attività commerciali, entriamo in una bellissima piazza ottagonale che al tempo del dominio romano era occupata dai macelli, è un posto elegante, dalle geometrie perfette, che fa pensare più ad un luogo di culto, a qualcosa di grande importanza pubblica, ma invece a quanto raccontano le inscrizioni sulle pietre è la piazza dei macelli e questo ci fa capire quanto all’epoca fosse elevato il senso estetico. Facciamo una breve visita al museo, che si trova a pochi passi, dove sono esposti alcuni bei mosaici bizantini, monete di varie epoche, ma soprattutto reperti risalenti al periodo preistorico dell’insediamento e poi si ritorna sul Cardo Massimo per arrivare ad incrociare il primo decumano dell’antica Jerash. A est la via scende verso la città nuova e sembra finire dentro una moschea, un tempo, dove oggi c’è un muro e una recinzione che ostruisce il passaggio, c’era un ponte che collegava questo lato della città, in cui si concentravano gli edifici monumentali e pubblici e i mercati, con la parte residenziale che oggi si trova sotto l’insediamento moderno, era questa la parte più estesa dell’antica Gerasa. All’immobilità del sito contribuisce anche una guardia dentro una nicchia, che sembra mummificata insieme al suo telefonino. Il decumano sale verso ovest fiancheggiando la cosiddetta Cattedrale, una delle tante chiese bizantine di Jersah, costruita su un precedente tempio di Dionisio risalente al secondo secolo, che a sua volta aveva sostituito il santuario del dio nebateo Dendhara ai cui era stato associato anche perché entrambi legati al culto del vino. Appena più in alto la Chiesa di San Teodoro davanti alla quale si trova la famosa fontana del miracolo, dove, secondo le leggende cristiane, ogni anno in occasione della ricorrenza del miracolo di Cana, dalla fontana il vino si sostituiva all’acqua, che si potrebbe tradurre in “a Jerash il culto del vino ha attraversato tre religioni”. Gerasa è un insieme di tante rovine di epoche diverse che si sovrappongono, faccio una piccola deviazione per vedere un cantiere dove una squadra di operai sta riportando in superficie la pavimentazione di un vecchio edificio e poi si ritorna sulla via colonnata, che salendo verso la collina si perde nella vegetazione, il colonnato si dirada e la via lastricata si perde nella campagna ricoprendosi di erba secca e di cardi giganti, come quelli che crescono a Pianosa. Le rovine sono meno leggibili ma l’atmosfera è ancora più suggestiva con le colonne e i capitelli che sbucano dal terreno fra erba secca e fiori di campo, sotto lo sguardo di sauri imbronciati e nello svolazzare di farfalle leggere e leggiadre, sembra di essere sulla strada per Frittole di “Non ci resta che piangere” una sensazione piacevole e leggera di sentirsi fuori dal tempo e dentro la storia. Salendo si incontrano altre tre chiese costruite dai Bizantini sfruttando gli edifici preesistenti, sono dedicate a San Giorgio, San Giovanni e ai SS Cosimo e Damiano, quest’ultima è quella che si conserva meglio ed ha ancora dei pregevoli pavimenti a mosaico. La chiesa è protetta da una cancellata e da un filo spinato sul quale fanno bella mostra delle rondini. Si sente il suono delle cornamuse proveniente dal Teatro Sud, che continuano a proporre la solita strofa musicale, ci sono colonne ovunque, sono ancora tantissimi gli edifici interrati e nonostante i terremoti e le tante razzie, sbucano da ogni dove opere raffinate e realizzate con materiali pregiati. Si sale fino al tempio più alto, anche questo trasformato in una chiesa dai cristiani, da qui si domina tutta Jerash, lo scavo e la città nuova che è un appiccicume di case squadrate che toglie magia alla visione di insieme e offre uno spietato confronto fra passato e presente architettonico; su tutto domina il possente complesso del Tempio di Artemide, divinità a cui Gerasa era dedicata. Scendiamo dai campi dorati di erba secca a nord del tempio principale, fra grandi accumuli di colonne e arriviamo al Teatro Nord, più piccolo di quello meridionale ma altrettanto ben conservato. L’essere soli in questi luoghi regala una grande sensazione di privilegio, stare seduti su queste gradinate a meditare è come un respiro di storia che ti entra dentro senza sforzo, come un organismo vivente unico e complesso che unisce tutti gli uomini, di ogni luogo e di tutti i tempi. Dal teatro si scende verso il Cardo Massimo che prosegue fino alla Porta Settentrionale che si apriva sulla leggendaria via per Damasco e Palmira. Vicino al grande arco monumentale c’è un camion gru che viene usata per i restauri, sono opere imponenti quelle in corso, una vera e propria ricostruzione dell’antica città. Siamo vicini al fiume, che in realtà è poco più grande del fosso di Rimercoio, tornando indietro si entra dentro un grande impianto termale, come sempre nelle città romane è una costruzione imponente, ma qui i restauri non sono ancora arrivati e le murature antiche si mimetizzano fra olivi e cardi; ancora colonne e resti di edifici monumentali, fino ad arrivare alla base del tempio di Artemide, la potente Dea della Caccia figlia di Zeus e protettrice di Gerasa. Il santuario vero e proprio è preceduto da una grande scalinata lunga un centinaio di metri e da una grande piazza, questa era l’area sacra più importante della città, il tempio fu costruito intorno alla metà del secondo secolo dopo cristo e nonostante le tante predazioni ricevute da cristiani ed islamici, conserva una grande imponenza. Le colonne che anticipano la Santa Santorum dove veniva conservata la statua più importante della divinità sono enormi, adornate da capitelli Corinzi perfettamente conservati, ci sono due gruppetti di turisti e qualche ragazzino che prova a vendere souvenir e qualche bibita fresca, ma anche qui senza l’insistenza. Le mura possenti del Tempio di Artemide ospitano tanti uccellini che si costruiscono nidi fra le fessure dei grandi blocchi ed è circondato da fioriture di cardi viola. Camminando fra le rovine troviamo la ricostruzione in legno di una ruota ad acqua collegata ad un albero a camme che probabilmente azionava una macina. Torniamo sul Cardo Massimo e passiamo dal Ninfeo, una grande fontana su più livelli che quando era in funzione doveva essere favolosa e poi ripercorriamo la via colonnata fino alla Piazza Ovale, dove la luce bella della sera e le ombre del colonnato ne esaltano l’armonica bellezza. Uscendo dal percorso principale entriamo in una serie di grandi stanze sotterranee in parte usate come depositi di materiale da restaurare. Come capita sempre in questi siti, l’orario di chiusura ci trova ancora dentro, un benevolo custode ci apre il cancello di uscita e grazie a una serie di coincidenze fortunate prendiamo un pulmino che ci porta ad un incrocio sotto la città nuova, dove sta per partire il bus per Amman. |
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La città degli aquiloni Alle otto siamo all’ospedale: analisi di piscio, cacca e sangue; in una mezz’oretta si fa tutto, ci dicono di tornare all’una per le risposte. Nell’attesa andiamo a vedere un'altra collina-quartiere, Amman è una città che a piedi si gira bene però ci vole fiato e gambe, le scalinate si arrampicano fra le case, salgono dritte senza nessun tornante fino al culmine, è tutto costruito, non c’è un centimetro di verde, solo abitazioni di cemento e anche qualche casa grotta che testimonia come erano la maggior parte delle abitazioni fino a qualche decennio fa. Poi la scalinata finisce e ci si trova in una sorta di altopiano truman show, c’è tanto verde, strade senza traffico e vilette con giardino, una sensazione di aver cambiato mondo in pochi metri, un po’ come a Napoli quando dai quartieri spagnoli sali al Vomero. Siamo nel Circle One, si vede subito che è una zona ricca, giardini e attività commerciali dalle grandi vetrate stile città europee, ristoranti italiani e locali dove fanno caffè espresso italiano, ci sono diversi book shop, tanti libri di tutti i tipi, purtroppo in italiano non c’è quasi niente, mi colpisce una libreria con un bar all’interno, la wi-fi gratuita e una zona piena di giochi riservata ai bimbi, tutto lindissimo e studiato nei particolari; in questa zona mi sembra di capire che ci sia una prevalenza di cristiani, il Circle One assomiglia ad una ricca città europea. All’una si torna all’Italian Hospital, tutto bene, il dottore ci illustra le analisi e incuriosito dai racconti di mister Hanna ci chiede del viaggio, salutiamo e saldiamo il debito, la spesa è molto bassa, ma cosa fondamentale si paga solo se hai la possibilità, altrimenti l’assistenza e anche il ricovero è gratuito, perché questa è una struttura nata per aiutare la gente povera e bisognosa, la gestione continua con coerenza a tenere fede ai principi dei fondatori. Questo intermezzo ospedaliero del viaggio ci ha fatto apprezzare una gestione eccellente di una struttura sanitaria. Felici per i responsi ritorniamo nella zona del Teatro Romano dove visitiamo l’Odeon, poi si prosegue incontrando una zona moderna con grandi parcheggi e giardini, salendo dalle scalinate irte ritorniamo sul Jbel al Qala, la collina della Cittadella. È un luogo bello dove si accavallano le tracce di svariati millenni di storia, ma allo stesso tempo è un posto vivo dove la gente viene a chiacchierare e a godersi lo spazio e il panorama, per me è il luogo più affascinante della città; ad Amman nel tardo pomeriggio inizia il festival degli aquiloni e questa è una postazione privilegiata per goderne le evoluzioni, gli aquiloni colorano il cielo e quando incrociano gli stormi di piccioni disegnano spettacolari coreografie aeree. Passando da un apertura della recinzione usciamo dal sito dal lato opposto e finita la scarpata ci troviamo in una piazzetta che è il punto di ritrovo per un gruppo di virtuosi “piloti” di aquilone che si sfidano in coreografiche evoluzioni, questi oggetti volanti sono essenziali e spartani con un telaio di sottili strisce di legno di palma e la vela e le code fatte con sacchetti di plastica, Amman è la città degli aquiloni. Ormai è l’imbrunire, si scende questa volta dalla strada, anche questa irta quasi come le scalinate, sono vie ripide con tornanti secchi, qui bisogna saper guidare e soprattutto parcheggiare, anche in fatto di guida i giordani eccellono al confronto degli egiziani, anche se aiutati da un parco macchine decisamente più moderno ed efficiente, comunque per un guidatore di Amman il freno a mano sta come il clacson per uno del Cairo. |
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Amman la Città Bianca, l’Ospedale Italiano, l’Hashemita Inglese, il Faraone Greco e l’apocalittico tramonto cementizio |
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La nave dormitorio e il pullman dei Magheggi Sveglia e snorkeling, stamattina c’è bassa marea e per tuffarsi bisogna camminare per una cinquantina di metri, poi finalmente si nuota, a duecento metri dalla riva c’è il primo ciglio della barriera corallina dove fra coralli multicolori vive una grande varietà di pesci, purtroppo i coralli in molti punti sono morti anche perché la gente li spacca per staccare delle conchiglie commestibili che ci vivono inglobate, la temperatura dell’acqua in superficie è piacevolissima, però basta scendere un paio di metri per trovarla assai fredda. L’incontro più spettacolare di stamattina è un pescione lungo circa un metro con la coda sfrangiata verde e viola, ma la cosa più bella è nuotare, il mare mi mancava proprio. Esco dall’acqua che è già il tempo di partire, lasciamo buona parte del bagaglio nel campeggio e con un passaggio raggiungiamo il porto. Il biglietto passeggero è caro, 400 pound a persona, passiamo i controlli della dogana insieme a un gruppo di autisti libici e poi a piedi raggiungiamo l’imbarco, risalendo una grande fila di camion pronti per salire a bordo. Anche qui passiamo un paio di controlli sulla nave e poi si sale in coperta dove tutti cercano un posto all’ombra per sdraiarsi, è incredibile la capacità di adattamento della gente nel prendere la forma delle sagome scure dell’ombra, anche le più contorte. Il caldo è amplificato dall’assenza di vento e nel mare piatto si vedono un po’ di meduse che danzano a pelo d’acqua attirando l’attenzione delle gabbianelle. La nave ritarda di un paio d’ore la partenza per imbarcare tutti i camion in attesa a banchina che portano principalmente in Giordania i prodotti agricoli provenienti dal delta e dalla valle del Nilo. Verso le tre la nave stacca e si allontana lentamente dalla banchina per poi puntare la prua in direzione Nord Est, il Golfo di Aqaba è contornato da montagne brulle, la differenza principale è che la costa egizia è in gran parte cementata, mentre quella arabica è disabitata e completamente selvaggia, si naviga dentro la storia, le storie e le leggende della bibbia e del corano si sono svolte in gran parte fra queste montagne aride. La nave è un grande dormitorio, viene ravvivata dall’energia di un gruppo di delfini che si diverte a saltare sulla scia, si naviga da circa tre ore e ormai siamo nel punto terminale del golfo di Aqaba che è chiuso da un grande centro abitato, in realtà sono tre città di altrettante nazioni, infatti Taba in Egitto, Eilat in Israele e Aqaba in Giordania, sono praticamente attaccate, mentre ad est sul confine Giordano-Saudita si vede solo un grande complesso turistico con il mare antistante che pullula di motoscafi e moto d’acqua. Il traghetto si prepara per attraccare su un pontile dentro il porto commerciale colorato da tanti container e poi solo montagne impervie, potenti e desolate; ferma a banchina una grande nave mercantile che avevo visto transitare nel canale di Suez, qualche mese fa. Prima di sbarcare la polizia giordana ci trattiene i passaporti, lasciata la nave si attraversa un tunnel poi un bus navetta ci porta alla stazione marittima, solite formalità doganali, poi ci consegnano i passaporti con i timbri del regno hashemita di Giordania. Mentre si cerca di capire quale mezzo prendere, un episodio che ci fa capire che questo è un paese diverso dall’Egitto: un bimbo raccoglie la carta di un gelato e la butta nel cesto della spazzatura. Si sale su un bus mezzo vuoto e si parte in direzione del centro, si cambiano ancora due pullman, alla fine con tre pullman mezzi vuoti ne hanno fatto uno troppo pieno, una scazzottata fra bigliettai e passeggeri e si parte. Aqaba è un porto franco e si vede bene, ci scorrono intorno le vetrine illuminate di decine di negozi soprattutto di liquori e hi-tech. La maggior parte dei passeggeri sono donne e bimbi che dopo una giornata di mare e compere rientrano verso Amman. Usciti dall’area urbana ci fermiamo ad una specie di ingresso autostradale per un controllo di polizia, i doganieri fanno aprire la bauliera e tutti i bagagli tranne il nostro, controllano anche che il pullman non abbia doppi fondi, le donne mentre aprono le borse fanno un gran casino, lamentandosi e spargendo le merci, soprattutto coperte, scarpe e vestiti e mentre i poliziotti controllano i bagagli, fanno circolare sacchetti di merci fra un cumulo e l’altro, mandando in confusione i militari che non ci capiscono più niente, il finestrino del pullman è una postazione privilegiata per vedere tutti questi magheggi, fra uno sventolare danzato di veli neri è tutto un apri, chiudi, gira, ruota, scambia, ritorna, chiama e saluta, ammicca, protesta, piangi e ridi, sorridi, deridi e canta … dopo un’ora di intenso spettacolo ad alti livelli i poliziotti sempre più confusi e ormai fusi, fanno richiudere tutto e si riparte. Arriviamo ad Amman verso le quattro del mattino, dalla stazione con un taxi scendiamo nella downtown, la via è tutta un saliscendi, sembra di essere dentro una puntata di “sulle strade di San Francisco” Arriviamo nella città vecchia insieme alla prima chiamata alla preghiera del muezzin, la citta è deserta, seguendo un’insegna suoniamo un campanello e ci sistemiamo in un fonduk. |
La barriera corallina Finalmente do sfogo alla mia voglia di mare, la maschera subacquea dopo che per mesi ha fatto da zavorra nello zaino ritorna in mare, l’ultima volta era stata usata a Cap Bon in Tunisia. Nei primi metri di basso fondale cazzi marini giganti e strani ricci dalle lunghe spine, poi inizia la barriera corallina abitata da tanti pesci colorati, quelli che fino ad oggi avevo visto solo sui libri o alla televisione, i pesci pappagallo, scorpione, i grandi napoleone e tante altre strane creature dai colori sgargianti, peccato che la macchina fotografica sub non va. In serata rientrando al campeggio troviamo un grande crostaceo che assomiglia a una cicala gigante, Salem un pescatore beduino che sembra un orco, lo ha regalato ad Abdallah, Serena che sta decisamente meglio anche stasera si mette ai fornelli e prepara uno spaghetto sublime, assai apprezzato anche da Abdallah e da un paio di beduini che lo mangiano con noi. Poi sfruttando la wi-fi mi sento con Roberto per definire gli ultimi dettagli per il lancio sulla stampa locale Elbana di Base Elba a Kerkennah. |
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Dal Nilo al Golfo di Aqaba Lo stradone risale dritto l’Egitto, in alcuni tratti il deserto diventa più chiaro e riflette la luce delle stelle facendo intravedere le sue sagome sinuose, come da prassi il pullman avanza a fari spenti. Lasciamo la strada principale e prendiamo una deviazione per Asyut, la città che si sviluppa sulla sponda occidentale del Nilo famosa per essere uno dei centri Egiziani in cui l’integralismo islamico è più forte. Asyut fino a centocinquant’anni fa era la sede del più grande mercato di schiavi d’Egitto e anche il punto di arrivo della famosa Darb al-Arba’een, la via carovaniera dei quaranta giorni proveniente dal profondo Sudan. La notte viene accesa da un grosso complesso illuminato da tante luci che si riflettono e si spandono dentro nuvole di polvere creando un’ambientazione diabolica, che poi si rivela essere un enorme cementificio, passiamo una mezz’ora sgradevole partecipando a una folle gara fra il pullman e dei camion che dura fino all’ingresso nel centro abitato, dove si iniziano a vedere i canali secondari del Nilo. Ci fermiamo in una stazione per bus buia e malconcia dove facciamo rifornimento di gasolio, pochi minuti e si riparte ripercorrendo la stessa via fino a ritornare sullo stradone principale, la corsa a fari spendi riprende spedita nella notte, finché l’aurora ci svela un deserto color cammello da cui poco dopo sorge un sole gigante. La strada recente è ben fatta, avanza sempre dritta nel deserto che ora è diventato di roccia, una bolla di smog all’orizzonte ci annuncia che ci stiamo avvicinando alla terribile periferia del Cairo. L’agglomerato sta invadendo il deserto con discariche, baraccopoli e palazzine orrende, senza gradualità ci si trova dal deserto ad essere inglobati nel traffico urbano, le palazzine appiccicate le une alle altre si perdono nella nebbia di veleno che avvolge tutto. Non riesco ad immaginarmi una cosa più simile all’inferno, della periferia del Cairo, un luogo perfetto per coltivare l’abbrutimento dell’essere umano, questo posto è un crimine contro l’umanità, non è accettabile far nascere e crescere milioni di bimbi in questo schifo di puzzo e cemento sovrastato da grandi cartelloni pubblicitari. Un sotto passaggio ci inghiotte e quando si esce ci ritroviamo davanti alla modernissima bus station, le porte a vetri automatiche si aprono e ci si trova dentro una grande e asettica hall silenziosa e pulitissima dove tutti, dai poliziotti ai camerieri, ai numerossissimi adetti alla pulizie, sembrano delle comparse. Per andare ai pullman si prende una scala mobile che scende al vero garage della “truman show station” dove la fortuna ci assiste e in pochi minuti siamo già sul bus che sta partendo per Nuweiba, una cittadina egiziana affacciata sul Golfo di Aqaba, da dove prenderemo il traghetto per il porto di Aqaba in Giordania. Ci vuole più di un’ora per lasciare il taffico del Cairo, il pullman è mezzo vuoto e c’è anche qualche turista indipendente diretto nella regione del Sinai, mi aspettavo di rivedere il canale di Suez dal ponte che lo attraversa e invece passiamo sotto al tunnel “Ahmed Hamdi”con i suggestivi cartelli che indicano la profondità. Sbuchiamo nella penisola e iniziano i tanti posti di blocco dei militari, dove ogni volta ci controllano i passaporti, la via attraversa il Sinai dall’interno, è un deserto di roccia brullo e gli unici arbusti che si vedono sono delle rare acacie, ogni tanto dal nulla spunta qualche piccolo villaggio di baracche. Superiamo un paio di piccolissimi villaggi di cubi di cemento grigi dove l’unico edificio colorato è la moschea e poi ci fermiamo per la pausa pranzo nei pressi di Nakhl che è un insediamento piccolo ma importante perché qui si incrocia la strada (controllata da un blindatissimo posto di blocco) che salendo verso nord conduce a Al-Arish sul mediterraneo. Sul pullman ci sono anche due americani, i classici yankee pallidi, biondicci e grassi, che si fanno “spennare” compiacevolmente dal ristoratore, che col dollaro nell’occhio anche da noi pretende uno sproposito per un quarto di pollo mummificato, naturalmente pago il giusto, parte una sceneggiata di una ventina di minuti, il più insistente è l’autista che voleva la sua tangente sul pollo poi, anche per le proteste degli altri viaggiatori, si riparte fra i moccoli dell’autiere. La monotonia del paesaggio è interrotta da un aeroporto che come una visione appare dal niente, ci sono tanti aerei civili e militari, poi ritorna ad essere un altopiano di deserto roccioso, finché cominciamo a vedere delle belle montagne rossastre. La strada inizia a scendere sinuosa dentro delle strette gole che regalano paesaggi suggestivi ed arcigni, senza rendercene conto eravamo saliti tanto, la discesa dentro questi stretti e spettacolari canyon colorati continua ripida finché non ritroviamo il mare, siamo sulla sponda egiziana del golfo di Aqaba. Nuweiba, la nostra meta, è a una sessantina di chilometri da qui in direzione sud, prima però si prosegue verso nord in direzione di Taba, ultimo insediamento in territorio Egiziano prima del confine Israeliano. Meglio, così ci vediamo questo tratto di costa dove si trova anche la famosa Isola del Faraone, un piccolo isolotto vicino a riva quasi interamente occupato da una fortezza che fu costruita dai crociati all’inizio del XII secolo e successivamente ampliata dal famoso Salah ad-Din, dalla quale sventola una grande bandiera Egiziana. Ancora costa rovinata dal cemento e poi si arriva a Taba dove scendono quasi tutti, ripassiamo davanti all’Isola del Faraone e lo spettacolo triste di una costa devastata dal cemento, che si affaccia su un mare dai colori veramente belli, la maggior parte delle strutture sono incompiute e tante danno l’idea di essere abbandonate. La situazione di grande degrado sul lato mare della strada è amplificata dagli scarnai e malandati villaggi beduini a monte della via. Nei pochi punti che sono scampati al cemento il paesaggio di una bellezza angosciante, regala grandi suggestioni, con le montagne ripide e brulle che si spengono nel turchese del mare, e comunque subisco il fascino di trovarmi “dentro la Bibbia” e quello di essere in una delle zone geopoliticamente più importanti del mondo. Sul pullman siamo rimasti noi, i due yankee e un paio di egiziani, arrivati a Nuweiba porto l’autiere tangentista ci vuole scaricare in un albergo dicendo che è l’unico posto dove gli stranieri possono dormire, gli americani abboccano, noi si prosegue fino al porto, al tranviere l’idea di non beccare nemmeno un pound da noi non va proprio giù, e si propone di procurarci un taxi per andare in un campeggio, perché il porto è “dangerous”. Ignorando le sue cazzate prendiamo gli zaini e ci avviamo, mentre “tangente” mi saluta in arabo ma suona proprio come un vaffanculo. L’idea è di andare nella zona di Tarabin, a una quindicina di chilometri da qui, dove ci sono i campeggi, ci si ferma al bar del porto a prendere un the e poi dopo le immancabili trattative un pik up ci accompagna a Tarabin. La zona sembra in gran parte abbandonata, entriamo in un campeggio e ci troviamo Abdallah, egiziano che ci dice di aver vissuto trent’anni in italia. È un gran bel posto e anche economico, ci fermiamo. Il sole al tramonto illumina le montagne arcigne dell’Arabia mentre tramonta dietro le vette ancora più aspre del Sinai. Ci piazziamo nella capanna e si ritrova il norvegese incontrato a Mut che da un anno viaggia in moto. Nel frattempo è arrivato un pescatore che ha regalato un po’ di triglie ad Abdallah il quale ci invita a cena ingaggiandoci come cuochi, Serena prepara un eccellente spaghetto con le triglie, che dopo mesi di alimentazione sahariana sono la realizzazione di un sogno proibito. Il posto è molto bello e la voglia di fare il bagno è tanta e nonostante la stanchezza, Serena sta meglio, quindi decidiamo che domani ci fermiamo qui. Nel campeggio oltre al proprietario e noi c’è solo una tedesca. Abdallah mi spiega che qui lavoravano prevalentemente con gli israeliani, poi le vicende politiche degli ultimi tempi hanno bloccato questo flusso, ora stanno aspettando con grande ansia il viaggio di Obama in Egitto nella speranza di una distensione politica che riporti in questi lidi i turisti della nazione confinante. Tarabin è un villaggio beduino e in tarda serata diversi ragazzi vengono verso il mare, mi spiegano che vengono al mare per dormire perché pur avendo le loro case, i ragazzi dall’adolescanza fino a quando non si sposano non dormono mai in casa, ma in giro e di solito specialmente in estate, sulla spiaggia. |
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Si parte Serena sta meglio, decido di partire per la Giordania per andare a fare dei controlli medici ad Amman, la Giordania è la soluzione migliore per fare le analisi mediche e nel contempo rinnovare il permesso di soggiorno, stanno scadendo i sei mesi in Egitto e come sospettavo a Kharga non si può fare, e poi è un’opportunità per vedere la Giordania e la mitica Petra che ho una gran voglia di rivedere. Mut mi è diventata familiare e questa partenza anticipata lascia un po’ di cose incompiute, ma sicuramente torneremo, anche perché voglio visitare approfonditamente il villaggio di Al-Qasr che abbiamo solo intravisto arrivando da Farafra e gli importanti siti archeologici vicini, il tempio di Deir al-Haggar e la famosa necropoli dipinta di Muzawaqa, mentre a sud di Mut i villaggi di Balat e Bashendi, dove nei pressi di Ain al-Asil, l’antica capitale dell’oasi di Dakhla nel periodo faraonico, si trovano sei grandi Mastabe in mattone crudo costruite circa quarantaquattro secoli fa durante la VI dinastia per onorare e ostentare il prestigio dei potenti governatori della regione. Ma ora la priorità è la salute. Dopo le solite trattative alle 20,30 si parte con un bus che collega direttamente Mut alla stazione centrale del Cairo, l’avvio è lento si attraversa la cittadina fermandosi tre o quattro volte, dal finestrone lezzo del pullman vedo scorrere le solite scene di quotidianità, i carretti che rientrano dalla campagna, i venditori di minestra, i poliziotti abulici, poi la strada ritrova il deserto e il torpedone si lancia veloce nella notte buia fermandosi solo agli immancabili posti di blocco dei militari . la monotonia del viaggio è bruscamente interrotta da un incidente, un pik up è uscito fuori strada ribaltatosi con il carico di pecore e capre, l’autista, turbante e galabiyya bianca, se ne sta immobile seduto a bordo strada, mentre tutt’intorno gli agnelli e capretti irrigano il deserto con grandi pisciate di terrore, dentro la gabina del furgone ci sono due capre che ritte sui sedili si stanno mangiano la pelliccia di un parente stesa sul cruscotto. Qui viene fuori la solidarietà islamica, dal pullman scendono tutti a sincerarsi sulle condizioni dei due ruzzolati e poi dopo gli opportuni ringraziamenti ad Allah, al grido “arabìa arabìa” i passeggeri del bus raddrizzano il pik up e lo rimettono in strada. È mezzanotte quando si arriva a Kharga, il capoluogo del governatorato della nuova valle, una sosta breve nella scarna stazione e si riparte. |
Le tisane di Elba Serena tra il delirio febbrile e l’esasperazione da litania, stamani vuole uccidere il muezzin. Tutta Mut è preoccupata per Serena, alla gente fa strano vedermi a giro da solo, il fruttivendolo, Assaria, Malica, Farath, tutti mi chiedono “uèr Serena?” ognuno ha una soluzione: l’ospedale, le tisane di Elba -che qui sarebbe la pianta di finocchio- la carne di capra, special egyptian food. La cosa da fare sono dei controlli medici, ma questo non è certo il posto indicato. Faccio un salto a internet per definire con Roberto il comunicato stampa per il lancio di Base Elba sui giornali locali, al rientro incontro le volpi, sono sempre più magre e gironzolano fra i vicoli come spettri |
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© 2024 Elba e Umberto