Durante la notte il bus si rompe, dopo un paio d’ore di sosta si arriva lentamente a Laayonne e si cambia corriera, si viaggia spediti, attraversiamo Tarfaya senza fermarci, solita sosta per comprare e farsi arrostire la carne a Akfenir e poi dritti fino a Tan Tan Plage, il deserto dopo la pioggia è veramente fiorito, piccoli fiori bianchi e gialli adornano i pochi cespugli ora verdi.
Risalendo, la sabbia lascia il posto a un ambiente via via sempre meno arido, si può cominciare a parlare di campagna. Lo sguardo mi viene rapito da una ragazza che pascola le capre con un vestito verde tutto luccicante. Arriviamo a Iznegane dove dobbiamo cambiare. Quello che all’andata mi era sembrato il primo vero contatto con l’Africa mi sembra ora una città europea. E' incredibile come ci si adatti rapidamente alle nuove situazioni, tutti di tirano da tutte le parti e ti vogliono portare a Marrakech, i prezzi e gli orari variano continuamente, è veramente un altro Marocco. Alla fine prendiamo un pulman che partirà alle sette e arriverà verso mezzanotte. I venditori di tutto salgono sul pulman così come chi chiede l’elemosina.
Appena partiti due ragazzi fanno un specie di predica, capisco solo che hanno bisogno di soldi e che scendono ad Agadir. Mi sorprende vedere che hanno elemosinato tanti soldi , almeno 300 Dirham. Si sale verso Marrakech. Prima di arrivare ci si ferma in un enorme stazione dove cucinano Tajines, polli arrosto, oltre alla solita carne, è tutto grande frenetico e industriale ho già nostalgia del Sud.
Il primo impatto con la “città del Marocco” non è bello sembra una città come tante, tutte uguali specialmente di notte. |
CategoryGennaio 2008
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E’ mattina presto ma fa già molto caldo, voglio andare al villaggio fantasma. L’unica soluzione è nolleggiare un fuoristrada. Dopo una sofferta ricerca si parte direzione Echtoucan, così si chiama. Uscendo dall’abitato si rincontrano le tante caserme e un grandissimo capannone, come una gigantesca serra. Mi hanno spiegato che è un enorme coltivazione di pachini, i pomodorini tondi che qui vengono prodotti tutto l’anno e esportati in tutto il Marocco, ma soprattutto in Europa, vi lavorano tante persone che sono giunte qui da tutto il Marocco ma in particolare dalla zona di Casablanca e Agadir. Dakhla è un posto eccezionale sotto tanti aspetti, oltre ad essere una baia bellissima dove il Deserto e l’Oceano si incontrano nella maniera più spettacolare ha anche una zona dal microclima eccezionale. Qui non piove praticamente mai, mi sembra di aver capito che l’ultima volta è piovuto due anni fa, ma c’è tanta acqua dolce, il segreto sta nella grande differenza di temperatura fra il mare e la terra che crea una grande evaporazione, questa con il raffreddamento notturno torna al suolo sotto forma di nebbia e si impregna nelle rocce che sono formate da conglomerati conchigliferi del tutto simili a quelli che si trovano a Pianosa nella costa occidentale. Anche le conchiglie sono le stesse per forma e dimensioni, quindi c’è acqua per coltivare, il sole chiaramente non manca e con giusto apporto tecnologico il risultato agricolo è eccellente, la differenza fra i due elementi crea anche il vento forte e costante che piace tanto ai surfisti. Il sottosuolo e ricco di gas e fosfati e questo è uno dei motivi della presenza militare massiccia in questa zona insieme alla questione sempre viva del Polisario (l’organizzazione di guerriglieri Saharawi formatasi con la partenza delle truppe spagnole che vuole l’indipendenza del popolo del deserto da Marocco e Mauritania), oltre a queste questioni di fondo c’è anche il problema dei clandestini che cercano di raggiungere l’Europa. Vorrei saper di più, mi interessano questi movimenti autonomisti, ma ora non è il momento, non c’è il tempo e sono ancora troppo acerbo d’Africa per entrare in questi temi. Però mi viene da pensare come siano strani e in un certo senso limitati gli ''umani'' come ci chiama il mi nipote Matteo, ognuno vive nel proprio mondo come in dei compartimenti stagni e non sembra esserci ne contatto ne interesse per gli altri anche se ti sono affianco; i coltivatori di pomodori nella grande serra, i surfisti accampati sulla spiaggia che parlano solo di onde e vento, i militari ad eseguire ordini e gli osservatori dell’Onu a vigilare. Questo vale a Dakhla, ma anche in tutto il resto del mondo, Elba compresa. Dalla strada ogni tanto si vedono delle tende dei pescatori sul mare, dei pastori nel deserto. Ho una grande ammirazione per questa gente che sa vivere in posti così estremi. Finalmente arriviamo nella zona del villaggio, vicino alla strada c’è un piazzale con dei cani dove sono riposte alcune barche di legno simili a quelle viste a Tarfaya, una strada che scende ripida a Tornanti ci porta al villaggio. A Dakhla ci avevano detto che i pescatori c’erano ancora, sono pescatori che vengono dal nord, dalla zona di Casablanca per pescare perché qui c’è tanto pesce e si guadagna bene (i militari devono mangiare) ma come avevo intuito dall’alto non ci vive nessuno. La spiaggia è favolosa, sabbia bianca di conchiglie, il villaggio è surreale, all’esterno è tutto grigio, dentro ci sono tanti colori inaspettati, con tanti disegni che sembrano fatti da bambini, ci sono rappresentati fiori, barche, pesci il camion che porta il pesce, nomi e date, ci sono tanti indumenti abbandonati, ancore, taniche, alcune barche, funi e poi la sorpresa, c’è una persona. E’ un vecchietto rinsecchito che battezzo ''denti di seppia'' per il colore pece degli incisivi, è bruciato dal sole, le braccia piagate piene di mosche e la testa ricoperta di fango in tutto peserà trenta chili.Lo saluto avvicinandomi mi parla in francese, mi dice che ha capito subito che non ero mussulmano e che non vuole essere fotografato perché ha il fango sulla testa, credo per proteggersi dal sole e dalle mosche. Ci vive solo lui qui e sta facendo una sorta di raccolta differenziata, mi dice che i pescatori sono andati via e che non torneranno, lui sta raccogliendo e dividendo tutto perché poi arriverà un “grande barco” al quale venderà tutto, guadagnerà tanti soldi e abbandonerà il villaggio. Parla tanto ma capisco poco, nomina continuamente Hitler, Ghandi e Ramsete VI, mi invita a vedere la sua dimora sulla quale campeggia una svastica che mi dice fiero aver disegnato personalmente. Sembra la cuccia di un cane, la sua ammirazione per il dittatore tedesco deriva dal fatto che quando i tedeschi del terzo Reich arrivarono qui vennero in aiuto di tante persone povere facendoli lavorare nella guerra, Ramsete aveva fatto qualcosa di simile qualche millennio prima, mentre Ghandi per la gente povera ha fatto solo male. Mi vede perplesso e mi dice che non ha altro tempo per parlare perché deve lavorare. La folle determinazione che aveva negl’occhi mi ha turbato, in due giorni ho trovato Salek e l’Antisalek . Sulla via del ritorno mentre il sole si abbassa sempre più ci godiamo i colori del deserto, con le sagome dei pescatori che come spettri vagano sul margine della scogliera con gli attrezzi in spalla. Arrivo sulla laguna mente il sole sta tramontando , è tutto molto bello, mi immagino lo spettacolo di questo deserto bianco con la luna piena. Il tempo di consegnare la macchina, recuperare gli zaini ed è già il tempo di prendere il bus destinazione Marrakesh. Un viaggio di 24 ore per raggiungere la città più famosa del Marocco. |
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L’Alba è ancora lontana ma il paese è già attivo, le Land Rover scassate, cariche di pescatori vanno verso il porto. Lo spazzino pulisce le vie, non è facile pulire un paese di ''sabbia'', usa una cassetta e un rastrello, con la scopa consumerebbe la strada. Il pulman è in ritardo, arriva il sole ma il bus no, chiedo e mi dicono che probabilmente era completo e allora ha saltato Tarfaya, ma c’è subito pronta la soluzione. C’è una famiglia che deve andare a Lannyoune con il taxi, in sei facciamo l’equipaggio completo, si parte. C’è nebbia, si arriva a Laanyoune, è molto grande, ci sono caserme dappertutto e molti osservatori dell’ONU. Altro gran taxi destinazione Dakhla, è arancione come cinghio, il mio furgone lasciato al Viottolo. Penso ai ''viaggi di cinghio''. Inizialmente volevo fare dei reportages a sfondo sportivo-naturalistico usando cinghio come base, caricandoci sopra kayak e mtb e farla diventare un’attività, ma poi, una serie di circostanze mi hanno fatto prendere la decisione del grande viaggio, sono sempre più contento di questa scelta. Mi piazzo davanti come durante la prima tratta nel posto più scomodo ma anche più panoramico, sul tunnel del cambio rivestito di pelle di capra. 550 chilometri nel deserto praticamente un unico grande rettilineo fra il deserto e il mare. Si incontra un vero fuoristrada, nel senso di un Land Rover finito fuoristrada e impantanatosi. L’autista si è addormentato, la cosa comica è che è l’unico tratto umido vicino alla strada, una specie di grande polla. Ogni tanto bisogna fermarsi perché passano dei branchi di dromedari che attraversano fieri ed indifferenti, i pochi cespugli spinosi sono presi d’assalto dalle capre dei nomadi le cui tende si materializzano dal nulla come miraggi.La strada costeggia l’oceano e ci sono dei colori bellissimi, chiedo all’autista se è possibile fare una breve sosta per fare delle foto, gentilmente accosta, c’è uno spiaggione infinito con due relitti , verrebbe voglia di scendere ma non c’è tempo, mi giro e vedo che il deserto è diventato un cesso: chi piscia, chi caca, uno spettacolo, chissà perché mi vengono in mente Leo el Dotto.Fa un gran caldo ci sono più di 40 gradi, cominciano i controlli, saranno in totale una quindicina, la trafila è sempre la stessa: passaporto, nazionalità, professione, da dove vieni, dove vai, perché, per quanto tempo, ai marocchini controllano solo il foglio di viaggio rilasciato dal commissariato del luogo di residenza. È da un po’ di ore che mi chiedo se l’autista è destro o mancino, lo osservo ma non capisco, guida con le ginocchia ma questo non è un grosso problema visto che la strada è dritta, con la mano destra è intento a pulirsi i denti con uno stecco mentre con la sinistra si scaccola, ora normalmente è più impegnativo pulirsi i denti ma siccome la somma dei denti fra sopra e sotto non sembra superare le sette unità il dubbio rimane.
Ci fermiamo per una lunga sosta di ''mezzora'' in una specie di autogrill, ne approfitto per affacciarmi verso il mare , lo spettacolo è esaltante e angosciante allo stesso tempo, una spiaggia meravigliosa e un villaggio fantasma: è una visione surreale, mi propongo di venirci domani per approfondire.Stiamo per arrivare, i controlli si infittiscono cosi come le bianche camionette delle Nazioni Unite, la recente moratoria contro la pena di morte mi fà sentire orgoglioso di essere Italiano. Il deserto diventa bianco e le dune sempre più alte, è molto bello, all’improviso una depressione e poi una laguna profonda che si incunea nel deserto, è la baia di Dakhla, mare piatto e vento forte un paradiso per il kite ed il wind surf ci sono molti camper europei accampati sulla spiaggia della laguna. La citta è circondata da caserme, la più grande è quella lasciata dagli spagnoli, circondata da un lunghissimo muro ocra.Dakhla è una cittadina, nulla a vedere con Tarfaya, ci sono tanti negozi di elettronica, tantissimi barbieri – credo sia legato alla grande presenza di militari ma anche al gran, caldo -. Siamo sul tropico del Cancro e la temperatura è costante tutto l’anno sui 30 gradi di giorno e 15 la notte.
Ci sono anche donne vestite all’occidentale e ci sono anche le gioiose discrete (nel senso della della discrezione) ma ben identificabili, del resto con tutte queste caserme e un porto importante credo sia inevitabile. Il mercato della frutta e della verdura è spettacolare cosi come le pasticcerie.
Con l’equivalente di due euro si mangia una grigliata di pesce. Arriva il momento fatidico: ho promesso al mitico “Mendolone” testi e foto, ma anche stavolta non riesco a mandargli niente. Mentre scrivo mi si blocca il tasto che cancella tutto, nella frenesia di sbloccarlo lo pigio ancora di più, sta cancellando tutto, mi parte una scarica di bestemmie che la sentono dalla Mauritania, c’è un silenzio di tomba, tutti mi guardano allibiti, per un momento penso che verrò lapidato, non solo non ho spedito niente ma ho cancellato quasi tutto quello che avevo scritto.
Torno verso l’albergo, eccezionale nel rapporto qualità prezzo 50 Dirham a persona (5 euro), ma sono così incazzato che giro mezzora a voto prima di ritrovarlo. Mi ferma anche la polizia che però mi lascia subito. Non c’è più nessuno per le vie quando trovo la via di casa.
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Esco di casa con l’idea di andare su internet perché la sera c’è troppo traffico e la rete si paralizza, ma la giornata è bellissima e mi ritrovo a camminare fra le dune fuori paese mi colpisce una strana costruzione isolata fra il deserto e il mare: è un cubo con una cupola sopra tutto bianco, ha un apertura senza porta, sembra la tomba di un marabutto (santo) ma non lo è. Intorno c’è un pozzo secco e i resti di qualcosa ma non capisco cosa. Camminando fra le dune raggiungo la spiaggia dove i ragazzi di Tarfaya si divertono a surfare le onde e qui incontro un personaggio speciale, Salek il pescatore, mi fa un po’ di domande è curioso parla fitto in francese misto allo spagnolo con cadenza araba, mi fa vedere una lettera spiegandomi che lui legge e scrive arabo, inglese, spagnolo e francese. È una lettera speciale trovata otto anni fa dentro una bottiglia di vetro sulla spiaggia di Tarfaya, l’ha scritta uno spagnolo che allora aveva quarantotto anni in un momento di disperazione, era appena morta sua moglie. Salek gli ha risposto e da lì è nata un amicizia, prima epistolare poi vera, lo spagnolo viene tutti gli anni qui e lui è stato suo ospite in Spagna, mi fa veder anche l’ultima lettera, “è veritad tuta veridat”. Dice che sta andando alla baracca a limpiar gli rete. Gli chiedo se lo possiamo accompagnare, è sorpreso ma contento della richiesta e ci avverte che sono otto chilometri per andare e otto per tornare e che bisogna essere molto allenati come lui che fa questo tutti i giorni. Iniziamo questo cammino lungo la spiaggia, Salek ci tiene a precisare che lui non è un marocchino ma un Saharawi, un uomo del deserto, i marocchini pensano solo ai soldi e chiedono sempre, sanno solo prendere ma non sanno vivere nel Sahara. Gli chiedo della bianca cupola e mi spiega che è un monumento in memoria di Antoine de Saint –Exupery che precipitò proprio lì. Grazie a lui riesco a vedere il piccolo aeroporto fra le dune che prima avevo attraversato senza vederlo. Quelle che sembrano baracche dei pescatori sono in realtà postazioni della gendarmeria che vigilano lungo la costa contro l’immigrazione dei clandestini verso la Spagna che arrivano soprattutto dal Mali, dalla Mauritania e dalla Nigeria. Sono senza divisa, vestiti come pescatori, ma si riconoscono dalle impronte degli anfibi. In realtà i militari non hanno molto da fare e alcuni hanno messo una rete per pescare. Salek ha una passione per le impronte: le sue, le mie di prima, quelle di un amico, quelle dei militari, le bici, le auto, ieri, oggi, stamani, due giorni fa… “i Saharawi guardano sempre le impronte” dice. Si cammina e si parla. Salek controlla tutto quello che porta il mare. Arriviamo alla famosa e decantata capanna. In realtà Salek non ha da fare niente, le sue reti sono in terra. A lui piace camminare sul mare, pensare e parlare con la gente che incontra. Mi ricorda un vecchio cacciatore isolano che mi confidò che a lui della caccia non gliene fregava niente, ma per anda in giro pe i monti senza esse preso per matto prese il porto d’armi. La capanna è un mirabile esempio di riciclo. È costruita interamente con materiale di recupero con estrema cura, le pareti sono di tavole coibentate all’interno con cartoni e plastica per non fare entrare il vento; fra i chiodi e il rivestimento ci sono delle guarnizioni fatte con plastica più doppia. Ci offre di dormire nella sua reggia sul mare, sono tentato ma declino l’invito. La zona di Dakhla mi attira molto, questa notte o domattina voglio partire. Capisco a cosa serviva il carbone, a cuocere il thè, perché il vero thè si cuoce sul carbone non con il gas come fanno i marocchini. È arrivato un altro pescatore, siamo in quattro. Salek ha un panino e una sardina, prepara quattro parti, la sua è la più piccola e si fa merenda, bevendo un thè eccelente. Parla come un profeta, i poveri vivono meglio dei ricchi e qui si sta meglio che in Europa e lui l‘ha vista, è un posto dove se non lavori muori di fame, qui qualcuno ti aiuta sempre. Le città sono tutte pericolose e la gente diventa cattiva perché non parla con il vento e con il mare, e lui le persone le giudica dagli occhi, dal sorriso e dalle mani, non gli interessa se uno è ricco o povero, se cristiano o mussulmano e mi esorta a diffidare di quelli che pregano troppo. Spiega che lui ha sempre voluto pescare con la rete fissa perché vuole pescare per mangiare e i pescatori con le barche devono pescare per la barca, per la benzina e poi per loro. Dice tante cose ma è soprattutto la coerenza fra le parole e lo stile di vita che rendono questi momenti intensi. Si riparte per accompagnare un giovane pescatore al controllo della sua rete. Con una muta rattoppata, un sacco e un legno va a controllare le reti che partono dalla riva. Camminando fra le grandi onde dell’oceano dopo mezzora di controllo il bottino: un sarago che regala a Salek. Rientriamo a Tarfaya che è notte. Il bus della notte è completo, si parte domattina alla 5. |
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Appuntamento alla bottega del “Paron” così lo chiamano tutti, è un Saharawi che parla benissimo il francese, con lui ho parlato di “Base Elba” e mi ha organizzato per questa mattina un incontro con il direttore della scuola. Mentre ci incamminiamo mi riconferma che a Tarfaya tutti vogliono essere amici di tutti.
La scuola è semplice non ci sono bidelli e segreterie, solo professori e studenti. Il direttore ha fretta, deve andare a Lannyoune per una riunione importante. Gli spiego velocemente il progetto, all’inizio è un po’ perplesso soprattutto per la mia incapacità di comunicare in francese ed in inglese ma poi grazie all’aiuto di Serena, del “Paron” e di un Prof particolarmente entusiasta, la cosa prende una buona piega. Gli piace sopratutto che dietro non ci sia nessun ente o compagnia petrolifera, si tratta di uno scambio “alla pari” fra realtà e culture differenti, cercare di accrescere la curiosità e la conoscenza, la tolleranza e la collaborazione fra i bimbi del mondo che abitano in posti isolati e su isole. Ci scambiamo gli indirizzi, sono contento, è la prima pietra di un progetto che se seguito con impegno e costanza darà frutti rivoluzionari.
Mi sposto al porto, le barche dei pescatori stamattina sono uscite e ora stanno rientrando, portano a terra soprattutto totani e seppie giganti ma anche razze e grandi pesci che loro chiamano Corvina ma che nulla hanno a che vedere con le nostre corvine.
Il pesce viene venduto principalmente alla grande pescheria del porto dove viene preparato per essere caricato sul “grande barco” e venduto alle Canarie.
Mi viene voglia di risotto con la seppia, chiedo a un pescatore se mi vende una seppia, me la fa scegliere e poi me la regala.
Nel porto ci sono grandi lavori: grossi camion portano sassi e una draga gigante sfonda il porto, è dissonante questo grande molo in costruzione con le piccole barche dei pescatori. Arriva la nave dalle Canarie, la manovra è molto lunga. Il primo tentativo fallisce goffamente, entra troppo larga e rischia di insabbiarsi. Mi diverto a vivere l’ilarità che produce l’impaccio della nave fra i pescatori, proprio come quando guardi i milanesi che ormeggiano al porto di Campo.
Le vie del paese sono tutte sconvolte perché stanno facendo le fogne, è un “lavoraccio”, perché è tutto sabbia (basta la pala, il piccone un serve) e frana, ma soprattutto appena sfondi un po’ di più, entra l’acqua del mare. Alcuni operai sono proprio buffi, scalzi col vestito lungo il turbante e l’elmetto. Certi pregano sempre.
C’è sempre più persone che ci salutano, la notizia di Base Elba si è diffusa a macchia d’olio, mi chiamano il professore italiano… “dovesse pe come parlo bene l’francese”…
In serata incontro un francese con cui ci eravamo scambiati un saluto due giorni fa. Anche lui vuole sapere di “Base Elba”. È un artista, un pittore di Tolosa che si stà comprando casa qui e ha in progetto di allestire a Tarfaya una mostra fotografica con foto di un viaggio che parte a Parigi e arriva in questo paese.
Sta traducendo per due spauriti motociclisti francesi in fuga dalla Mauritania dove sono stati presi a fucilate. Il loro sguardo mi fa venire in mente l’assasino del “Pescatore” di De Andrè.
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Colazione-pranzo con una Corvina fritta e poi escursione sulla grande spiaggia. È un concetto strano di spiaggia, è il deserto che incontra il mare. Qui il concetto di erosione del mare è distante, è la sabbia, il deserto che avanza. Tarfaya come tutti gli agglomerati sahariani è circondata da mura per difendersi dalla sabbia.
La bassa marea cambia profondamente il paesaggio, l’oceano sembra allontanarsi e si forma una specie di grande laguna dove i gabbiani banchettano mangiando pesci e molluschi traditi dal rifluire del mare. Ci sono spiaggiate delle seppie giganti lunghe fino a 40 centimetri, il sole è caldo ma si sta bene per via del vento sempre costante, andando verso nord si intravede la sagoma di un relitto, avvicinandosi ci si rende conto che i relitti sono almeno tre tutti traditi dai fondali sabbiosi e dalle luci ingannevoli del paese.
È sera quando si rientra in paese. Ormai siamo conosciuti, i vecchi ci parlano in spagnolo, i giovani in francese. Ci sono tanti militari che qui sembrano più che mai inopportuni, siamo comunque in una zona di confine giovane dove la “marcia verde” da molti e stata vissuta come un invasione straniera.
Vado all’internet point, la piccola Tarfaya ne ha tre. Inizio la solita battaglia con la tastiera araba e non riesco ad inviare niente.
È un posto particolare questo Internet Point: ci sono ragazze sempre rigorosamente velate e molti ragazzi che sembrano studenti della Madrasa di Fes, è un luogo di studio più che di comunicazione. |
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È mattino inoltrato quando apro la porta di casa, una luce accecante ci accoglie, il sole è finalmente caldo proprio come me lo aspettavo. Le vie del paese sono sterrate ma più che terra è sabbia e questo è un vantaggio perchè si alza poca polvere. Tarfaya è un paesone di pescatori con le vie piene di bimbi e tanti caretti trainati dagli asini. Lo sguardo è catturato dal fumaiolo di una nave che sembra uscire dal deserto è il “grande barco” una grande nave che viene dalle Canarie, porta turisti ma a Tarfaya li vedono solo arrivare e partire e di questo si lamentano e ne sono dispiaciuti (come i Portoferraiesi con le navi da crociera) davanti al porto c’è una spiaggia riparata dove le piccole barche dei pescatori sono in buona parte in secca. Sono delle lance di legno lunghe 6/7 metri con le murate alte e la prua molto alta per contrastare le grandi onde oceaniche. Qui il mare calmo calmo è come il mare lungo di Ponente ma mi sembra di capire che non c’è quasi mai. Con la bassa marea le poche zone rocciose si popolano di gente, soprtratutto donne e bimbi in cerca di “favolli”, polpi e “granite” e pieno di “lampate” ma non le fanno. Appena fuori dal paese ci sono le capanne dei pescatori. Sono di persone che vengono dal deserto e sono qui per pescare. Ci sono grandi lavori intorno al porto, ho letto di un progetto della Shell che potrebbe portare a Tarfaya un impianto, cerco di informarmi, ma mi dicono che sono solo piccoli lavori di ammodernamento del porto, spero sia vero ma ho dei dubbi. Dietro il porto c’è “un castello nel mare”, è forte Mckenzie o Casa Mar come viene chiamata semplicemente qui. È una suggestiva costruzione circondata dal mare raggiungibile con la bassa marea quando il mare si ritira di una trentina di metri. Il paese fu fondato proprio da Donald Mckenzie un commerciante scozzese alla fine del 1800, che lo chiamo Port Victoria trasformato successivamente in Villa Bens dagli Spagnoli. L’ambiente è sereno e gioioso, i bimbi giocano sulla spiaggia, sono tutti gentili e incuriositi e si riesce a comunicare perchè tutti sanno un pò di francese e di spagnolo. Dietro la spiaggia c’è un monumento, un aereo biplano di metallo, dedicato alla memoria di Antione de Saint Exupery, l’aviatore scrittore autore del “Piccolo Principe” che morì precipitando da queste parti. A Tarfaya c’era e c’è tuttora una piccola aviosuperficie dove i piloti del servizio aero postale facevano tappa. Il sole è tramontato quando dopo essere passato davanti alla grande caserma militare mi ritrovo nelle viuzze del paese, c’è una festa nella strada è stata montata una grande tenda lunga più di venti metri, fuori due dromedari addobbati con colori vivaci, la tenda è occupata da sole donne tutte in abiti sgargianti, mi invitano nella casa nella zona riservata agli uomini, c’è un ospitalità vera che mi colpisce, sembra la festa del maggio coi corolli al circolino della Bonalaccia una trentina di anni fa. Mi offrono da bere aranciata e dolci buonissimi col miele che assomigliano ai fichi mielati. È una grande festa perché si festeggia il “Hadj” ritorno dal viaggio alla Mecca, quello che ogni buon Mussulmano deve fare almeno una volta nella vita, è una famiglia che è ritornata e la festa è soprattutto per una ragazza e per l’anziana nonna. Mi chiedono se io sono mai stato in pellegrinaggio in Vaticano, mi spiegano che Allah è il Dio di tutti e che Gesù qui chiamato Ajssa è il secondo Profeta dell’Islam, che questa è una famiglia Sahary e che sono venuti tutti i parenti anche da lontano, anche quelli che vivono ancora nomadi nel deserto. Col mio linguaggio fatto di gesti e suoni più che di parole, cerco di conversare, passo un ora bellissima con persone che mai avevo visto e che probabilmente mai più rivedrò ma che mi hanno fatto sentire parte di una comunità. Tarfaya mi ha conquistato, voglio che Base Elba parta da qui. |
Dopo una notte di pioggia, albeggia nei pressi di Auorir, fra l’oceano e un ambiente che si fa sempre più desertico, con la luce si popola il paesaggio. Attraversiamo la periferie di Agadir incontrando centinaia di bimbi che vanno a scuola a piedi. Dopo Agadir sosta a Iznegane. Durante la notte sembra di aver viaggiato cosi tanto da avere raggiunto un altro mondo.
Iznegane è il primo paese che sa di Africa, perlomeno dell’Africa del mio immaginario, grandi piazzali polverosi dove si trova di tutto dai venditori di asini a quelli di profumi questo paese è un importante crocevia di comunicazione da qui si cambia e si parte per Marrakech, per Laayoune, per Casablanca e per tutte le destinazioni.
Ci sono soprattutto i gran taxi scangherate, mercedes berlina anni 70 colorate di bianco e “celeste Ponzese” che portano fino a 6 persone e se riesci a fare un equipaggio completo sono veramente
economici. Poi ci sono le Land Rover, anche queste mediamente vecchie e scassate che vanno verso il deserto o la catena dell’Atlante, i bus di tipo europeo quelli turistici, e quelli marocchini i più pittoreschi. È un mondo di odori forti e contrastanti fiori, spezie, merda, haschish, menta, sudore, carne di montone, si sovrappongono continuamente, i bus non sembrano esserci, chiedo un collegamento con Tarfaya, spostamento in piazzale laterale e bus vecchio ma perfetto.
9.30 si parte, nella bauliera, casse di pomodori, balle di erba, patate e bagagli. La vendita dei biglietti è uno spettacolo, credo che nessuno dei passeggeri abbia pagato lo stesso prezzo, ogni tagliando è una trattativa. Con il pulman già in movimento i vari bigliettai si dividono i compensi sembra sempre che sia sul punto di scoppiare una rissa ma poi torna tutto tranquillo.
Nella corriera c’è gran varietà di abbigliamento, turbanti e tuniche multicolori, ciabatte, anfibi, babbucce; fra le donne nessuna è vestita all’occidentale, ma solo poche hanno il volto coperto. Si procede a grande velocità, nei pressi di Tinznit sosta pausa pranzo c’è un macello, con carne di capra, mucca, agnello e montone, un arrostitore, un venditore di pane, salumi inscatolati e bibite e un bar.
C’è un rituale ben preciso: tutti in fila a lavarsi le mani, poi dal macellaio a farsi tagliare la carne in piccoli pezzetti, si passa a prendere il pane e poi si porta la carne ad arrostire e si mangia il tutto seduti. Qualcuno preferisce il panino alla marocchina, un pane morbido che viene aperto tipo marsupio e riempito di pesce carne e salse varie. The o caffè e si riparte.
Il paesaggio è ormai desertico ma la pioggia lo farà fiorire.
Arriviamo a Tan Tan per un’altra grande sosta le mercedes bianco celesti stanno lasciando il posto a vecchie Land Rover e i carretti trainati dagli asini sono sempre più numerosi. Si scaricano quasi tutti i pomodori e le balle di erba. Il paesaggio diventa sempre più affascinante, con le onde dell’oceano che incontrano il deserto e le incredibili case baracca dei pescatori. È notte quando arriviamo a Tarfaya, tira vento e fa freddo, è tutto molto tranquillo, un bimbo ci accompagna ad un piccolo hotel, non c’è posto, ma ci offrono una vera casa marocchina con turcae secchio sciacquone, camera con letto basso e sala con tappeti, tanti cuscini e materassi, piastrelle multicolori, pareti verdi, soffitto bianco.
La giornata finisce davanti ad un tajine di pollo, il mare è agitato e non c’è pesce.
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Piove e tira vento, non c’è corrente elettrica e quindi neanche internet in attesa del bus per Agadir si mangia caramelle alla stazione.Arriva la connessione mando ma non riesco mai ad inviare tutto, il problema è aprire la posta ma poi un bar con la connessione senza fili risolve tutto. Finalmente riesco ad ammirare il nuovo elbacomunico.Partenza da Rabat alle 22.
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Il bus per Rabat parte con un’ora di ritardo c’è già luce, la giornata è ventosa, terra rossa, palme e agrumeti ad ovest l’oceano con i bianchi frangenti ad est. La stazione dei bus dista circa tre chilometri dalle mura della città, che si raggiunge da una strada congestionata di traffico.
L’ingresso da una delle porte aperte nelle mura Almohadi fa venire in mente le foto ingiallite dei primi reportage fotografici di inizio secolo.
D’incanto l’assordante rumore del traffico (qui tutti suonano il clacson continuamente) scompare, dentro le mura sembra di essere in un’altra dimensione.
L’Hotel della Paix nei pressi della Medina diventa la base con 100 dirham circa 9 Euro si dorme in una camera con bagno.
E’ un alloggio di grande fascino non ha l’acqua calda e manca un vetro nel bagno ma il letto è molto comodo e la vista interessante.
Rabat non è una meta turistica, nei bar tutti molto frequentati, la gente passa tanto tempo sorseggiando lentamente caffè o thè alla menta.
Mi piace fare colazione con la paste calde e il the alla menta e osservare come i quotidiani vengano letti con grande meticolosità, ossevandoli da vicino si capisce che ognuna di queste pagine contiene più caratteri di un intero Tirreno.
Le Mura chiamate Andaluse delimitano la Medina, è strano questo mondo a compartimenti stagni, fuori dalle Mura della città una periferia simile a tutte le periferie povere, poi dentro le mura la città di impostazione francese, quasi una città europea, poi la Medina che è un mondo a sé dove tutto è piccolo e collegato, dove non si vedono divise e si trova tutto.
I profumi della Medina stimolano l’appetito, il pane farcito con pomodoro patate e sardine è buonissimo .
La Medina di Rabat è più tranquilla rispetto a Casablanca ed è molto più bella perché meno turistica. Uscendo dopo pochi metri si entra nella Kasbah bellissima e monumentale con la sua grande porta, le mura difensive ed il giardino Andaluso, ma sopratutto perché ancora abitata e viva, con le case e i vicoli dipinti di bianco celeste e blu.
Girando fra queste mura che evocano storie di pirateria e mercati di schiavi penso a quanto sono belle le Fortificazioni di Portoferraio.
Mi sto avvicinando al fiume che divide Rabat da Sale la famosa città dei pirati. Ho voglia di vedere questo luogo per capire cosa è rimasto dello spirito indipendente e ribelle della mitica repubblica di Bou Regred
La leggenda e il mito di questi pirati anarchici dell’Islam mi ha fatto venire fin qui, le barche dei pescatori sono distese sulla spiaggia sull’imboccatura del porto canale a causa della bassa marea,
Le voglio fotografare da vicino, ma le guardie me lo impediscono, stanno realizzando un mega progetto con passeggiate in marmo lucido, vialoni stile Miami e marina turistica.
I pannelli che spiegano il progetto sembrano quelli della spiaggia del Cavo alla 12°.
Una cosa mi colpisce nei disegni 3D del progetto: nel paese delle donne velate i mitici pescatori di Sale sono tutti neri gobbi e tristi nelle loro barche mentre sul ponte acciaio e cristallo sfilano delle bionde sorridenti col bellico di fori . La spiaggia, le barche, i cormorani e le garzette stanno per essere sfrattate del nuovo progetto.
Voglio veder Sale prima che sia troppo tardi ho gia visto troppi Mc Donald in questi due giorni in Marocco.
Sale – Le guide quasi non parlano di Sale ma ho seguito l’istinto e sono stato premiato, la grande porta della città, da dove un tempo entravano i navigli, ci dà il benvenuto, la città è viva e vera, non c’è traccia di europei, lungo le via si cuociono delle frittellone di pane dal nome impronunciabile ma dello stesso sapore di quella che si facevano una volta nel forno del pane della Bonalaccia .
Il tempo diventa sempre più grigio e si avvicina la pioggia ma questo luogo è magico, i vicoli sono pieni di persone tutte gentili e sorridenti, colori e profumi d’oriente, e botteghe e situazioni che mi fanno ritornare all’Elba della mia infanzia e soprattutto quella raccontatami quando ero bimbo.
Quanto è lontana la dimensione puttana di mercato senza anima Valencia e Malaga.
Piove tutto si bagna e si sporca, le donne dalle loro case portano il pane a cuocere al forno, il lattoniere disegna mirabili sviluppi di imbuti e stampi, i fabbri forgiano punte, asce e scalpelli, un urlo più forte di tutto ogni tanto si eleva dal brusio costante, è quello del pollo acquistato che vienne trasferito dal pollaio al banco. È ormai sera il mullah ha chiamato alla preghiera, dalla moschea principale ridiscendo i vicoli di questo presepe confuso e armonico che sprizza vitalità da ogni vicolo, lasciate le mura antiche mi ritrovo nel cantiere che rischia di inghiottire una favola di realtà, e sogno un finale alla Zabrinski Point dal Longio al Oued Boud Regreg.
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© 2025 Elba e Umberto