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Verso la Libia fra illusioni marine e tombe misteriose Dopo una serie di giornate pigre è tornata la voglia di movimento, si rimedia due bici e si parte verso ovest in direzione dell’Adrar Amellal, la strada fiancheggia il lago di Siwa che sta cambiando velocemente fisionomia, dove una settimana fa c’era l’acqua ora c’è il fango salato, i cristalli salmastri riflettono la luce del sole rendendo il paesaggio accecante e i fenicotteri delle sagome indefinite. La strada costeggia il lato nord del lago che verso occidente aumenta di profondità e regala un bell’effetto mare, c’è anche una piccolissima spiaggia con una sfinge di fango che guarda in direzione della “Montagna Bianca”. Si prosegue passando a fianco della zona in cui domenica ci siamo fermati a vedere cavare la pietra e poi si continua in direzione di Kamisa, lasciandoci alle spalle il birket (lago) di Siwa, ancora qualche chilometro e arriviamo nei pressi del villaggio di Kamisa vicino al quale si trova un importante sito archeologico risalente al periodo Romano, con centinaia di tombe scavate nella roccia bianca. La necropoli si vede già dalla strada, si raggiunge con una pista di qualche centinaio di metri e poi proseguendo a piedi verso Nord. A valle delle tombe scavate, i resti di una grande muratura in mattone crudo che ricorda un pilone di un tempio Egizio e alcuni resti di colonne in pietra più dura, le tombe si sviluppano su più livelli, rispetto a quelle viste al Jebel Mawta sono più grandi, le facciate più monumentali e all’interno ci si sta comodamente in piedi, di solito sono formate da più stanze che a volte ospitano numerosi loculi tanto da ricordare le catacombe. Ne visitiamo una trentina, alcune sono scavate in maniera elaborata però non ci sono tracce né di pitture né di iscrizioni. Il sito è molto più esteso di quello che sembrava ad osservarlo dal basso, ma la cosa più impressionante è che tutte le montagne qui intorno sono disseminate di aperture, centinaia le tombe che si intravedono sui fianchi di queste montagne dalla sommità spianata che si spingono in direzione Nord, in realtà siamo noi che ci troviamo all’interno di una depressione e quella che sembra una catena rocciosa è un grande plateau di roccia. Vista l’estensione non credo che si tratti solo di tombe del periodo Romano, sono tantissime forse migliaia, sicuramente in passato le condizioni ambientali erano più favorevoli rispetto ad oggi per gli uomini e qui vivevano delle comunità molto numerose, potrebbe essere stato questo uno dei punti di incontro fra la civiltà dei Garamanti con quella degli antichi Egizi, quello che è certo è che questa interminabile necropoli rende ancora più affascinante e misterioso il passato di questa terra. Saliamo per qualche decina di metri fino al livello superiore delle tombe per ammirare in direzione sud il lago di Maraki che, ancora più del birket Siwa, regala tonalità mediterranee, indicandoci anche la parte più bassa della depressione, mentre alle sue spalle si vedono le geometriche colline a forma di piramide visibili anche dalla fortezza di Shali. Camminando fra le rocce calcaree ogni tanto spuntano degli affioramenti di minerali ferrosi che ricordano i filoni scuri che all’Elba si trovano lungo la costa Orientale e vicino alle sepolture più grandi si vedono dei viottolini che entrano verso l’interno marchiati dalle evidenti tracce fresche degli asini dei cavatori di pietra, qualcuno di questi “dannati del deserto” si intravede in lontananza ma soprattutto si sente il rumore sordo delle mazze e dei picconi di questi intrepidi faticatori che spaccano la pietra sotto questo sole cocente. Lasciato il sito entriamo nel minuscolo villaggio di Kamisa alla ricerca di qualcosa da mangiare e da bere, si vede bene che qui di turisti non se ne fermano, sembra di essere in un luogo molto più isolato di quello che è in realtà, ma ha il fascino dei posti veri, la prima bottega che si incontra ha il negoziante che dorme pesantemente sdraiato al fresco di una tettoia, ce n’è però un altro dove ci sono un po’ di merci, non l’acqua perché qui nessuno comprerebbe mai l’acqua in bottiglia, però ci sono le banane e gli yogurth, stupisco l’anziano negoziante rivolgendomi a lui in un misto di Arabo e Amazigh. Velocemente si è fatto gente, sono tutti stupiti dal vedere due in bici e soprattutto una donna, siamo a una ventina di chilometri da Siwa ma qui stranieri non sono abituati a vederne, sicuramente qualche turista con i tour in fuoristrada passa per visitare la zona archeologica, ma difficilmente passano per il villaggio, perplessi dal fatto che si arriva da così lontano e nel timore che ci siamo persi ci consigliano di aspettare all’ombra nell’attesa di qualche mezzo che prima o poi passerà in direzione di Siwa. Salutiamo e si riparte andando avanti, dopo poco la strada comincia a salire dolcemente fiancheggiando “le Piramidi” anche qui ci sono cave dove lavorano a mano e all’interno ancora piste che entrano verso nord nelle montagne bianche che svelano centinaia di tombe e gente che lavora a tagliare la pietra in posti impossibili. Il lago a Ponente delle colline è ancora più bello e fa venire una gran voglia di bagno, si avanza cercando un ingresso alla ricerca dell’acqua del lago, c’è un uomo che carreggia sabbia (siamo nel Sahara) gli chiedo la via per il lago ma ci indica una vasca, per la gente di qui il lago non è associato all’acqua, è un’entità negativa di cui non si vuole nemmeno parlare, come non esistesse, l’acqua salata da cui sono tanto attratto è un’inutile distesa sterile che con la sua concentrazione salina minaccia i coltivi. Arrivati al vascone si lasciano le bici e si prosegue a piedi, le sorgenti calde hanno sempre il fascino del sovrannaturale, ma una buca di acqua calda, specialmente con queste temperature, non è per niente invitante. Si cammina fra sorgenti tiepide, orti, olivi e piccoli appezzamenti di grano che cresce eroico fra sabbia e sale, il lago sembra vicino ma raggiungerlo non è facile, bisogna attraversare una grande distesa di fango argilloso secco. C’è un escavatore che sta scavando un canale di scolo per drenare il terreno che è formato da argilla grigia, è in corso un’operazione per ampliare la zona agricola, ma l’impressione che mi da non è buona, queste piccole oasi sono micro mondi dagli equilibri assai delicati, in cui le infiltrazioni di acque salate e gli strati impermeabili di argilla giocano ruoli fondamentali, basta un niente e tutto diventa deserto, l’argilla bagnata tirata su dalla benna dell’escavatore in un attimo diventa secca e sbriciolante, non ho competenza per giudicare ma mi sembra di assistere ad un’operazione scellerata e sacrilega. Avanziamo ancora in un terreno che diventa sempre più salmastro, finché non si incontra un largo canale artificiale che ci impedisce di avanzare e si torna indietro. Tornati nella parte verde ritroviamo gli orti con campi di agli e cipolle e poi le palme, gli olivi e qualche pergolato basso di vite, a ricordo degli estesi vigneti che i Romani avevano impiantato in queste zone un paio di millenni fa. Si riprendono le bici avanzando immersi in paesaggi che sembrano alieni, le dune del deserto Libico sono sempre più vicine, mentre le montagne bianche continuano a svelare tombe, sempre di più. Sono luoghi densi di mistero che chiamano, chissà quanti misteri si nascondono fra queste montagne, è una necropoli che si estende per almeno una ventina di chilometri, ora non è il tempo ma negli anni a venire vorrei tornare da queste parti, magari con un ultraleggero, per studiare la zona e cercare di capire di più … inshallah. Incontriamo un altro paese, dovrebbe essere Bahaj el Din e ancora un lago circondato da un’oasi verdeggiante, la logica direbbe che è l’ora di tornare indietro ma l’istinto no, si avanza ancora un po’ finché la strada finisce con una strana rotonda e inizia una pista nel deserto, intorno a questa specie di eliporto un piccolo villaggio che sulla mappa che ho non esiste, formato da quattro case-baracca e da una piccionaia. C’è la sensazione netta di essere arrivati a fine corsa, siamo quasi in Libia il confine è a pochi chilometri, ma sembra che non ci sia nessun controllo, del resto le frontiere controllate sono solo dove ci sono le strade, già in Tunisia camminando nei viottoli nella macchia di lecci e sughere nei pressi di Ain Draham c’eravamo trovati quasi dentro i confini Algerini. Le frontiere sono una prepotenza ovunque, ma specialmente nel deserto, qui la natura ha disegnato scenari estranei al concetto di confine, niente è più indefinito e mutevole di un mare di sabbia, trovo assurdo e profondamente ingiusto che si debba rischiare la galera o anche peggio, nell’attraversamento di un confine. Anche culturalmente il concetto di confine non appartiene ai popoli che vivono nel deserto, queste righe dritte che attraversano la sabbia non hanno nessun senso, sono invenzioni dei colonizzatori occidentali, per le tribù sahariane questi luoghi si sposano con il nomadismo, lo stile di vita che maggiormente si avvicina al concetto astratto di libertà. Curioso è che i più strenui difensori del rispetto dei confini siano sempre quelli che si definiscono paladini della libertà. Si torna indietro, anche perché Siwa è lontana, lungo la strada incontriamo qualche carretto e un paio di bici, la luce sta diventando bella e mi fermo a fare qualche foto in questi scenari densi di mistero, in una radura una grande tomba isolata fa pensare al sepolcro di qualche personaggio importante, ma l’unica cosa certa è che ora ci vive una famiglia di cani paurosi, mi viene da pensare che l’armata di Cambise non si sia mai persa, che la famosa armata dei cinquantamila uomini si sia fermata fra queste oasi dove magari avevano trovato delle Berbere piacenti… Superate le Piramidi ci si ferma in un tratto desertico dove l’erosione ha disegnato delle forme surreali, un antipasto del deserto bianco che vorrei visitare fra qualche settimana. Il suolo è disseminato di fossili di conchiglie e di coralli di gesso, ci sono anche tantissimi cristalli, alcuni dei quali molto grandi e trasparenti anche se fragili. La luce è bellissima e svela forme e colori sfumati che con il sole a picco neanche si intuivano, la superficie del terreno è come cotta ma basta smuovere questa sottile patina grigia che viene fuori una polvere bianchissima di gesso, è quello che rimane del fondo marino che un tempo ricopriva questa zona. Sullo sfondo, poco prima del tramonto, si rivede Siwa che illuminata dalla luce bassa e calda si colora di rosso, con il jebel Mawta e la montagna dei fantasmi a cingere la magnifica fortezza di Shali. La posa del sole arriva quando si ritrova il lago di Siwa e ci regala cromie marine. È notte quando si rientra, Serena è schiantata ma come sempre non molla mai. |
© 2024 Elba e Umberto
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