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Smisurato Murzuq

Mi sveglio nel freddo asciutto della duna, nel cielo pallido di Ponente la luna galleggia come una medusa di ghiaccio. Stamani la potenza vermiglia dell’alba è smorzata da un tendaggio di nuvole bigotte e irradia insolitamente pallida la smisurata distesa di sinuosità accavallate.
Nella luce ovattata di questa mattina il maremoto statico di Wan Casa ha un aspetto gassoso e onirico, ma il sudore che mi scalda mentre risalgo la sabbia gelida e compatta delle dune, mi conferma che è tutto vero.
La macchina fatica un po’ a mettersi in moto, ma poi si decide e si va in direzione dell’Idhean Murzuq, mitico deserto dove ci sono le dune più alte del mondo.
Come predetto da Yaya le nuvole si diradano e il sole torna padrone di tutto, la macchina fotografica è un po’ di giorni che fa le bizze e la devo usare anche con parsimonia perché mi è rimasta solo mezza batteria carica. Si avanza nella pianura di sabbia rossastra a cui piano piano si sta sostituendo un deserto di roccia nera, dopo un paio d’ore ci fermiamo nei pressi di un panettone di roccia scura che esce dalla pianura su cui si può salire facilmente. E’ un paesaggio familiare ricorda le miniere del Riese in particolare quella del Calendozio, i colori e le forme sono simili solo che è tutto enormemente più vasto. Mentre si osserva in lontananza le sagome del Msak Settafet, arriva un fuoristrada militare per il solito controllo. Riprendiamo il percorso in un paesaggio monotono dove niente pare muoversi, solo la fiamma di un pozzo di petrolio in lontananza, anche questa zona della Libia è ricca di gas e giacimenti petroliferi e i ricercatori di petrolio si stanno spingendo sempre più verso queste terre di confine, in questa zona ci dicono che stanno perforando delle compagnie coreane. Gradualmente il deserto sta diventando una sterminata distesa di arroventate lastre nere che si interrompe soltanto con i ciottoli chiari del letto seccho degli wadi, questo è il wadi Ina Ramas. In passato questi erano fiumi nei pressi dei quali viveva l’uomo e qui gli antichi abitanti hanno lasciato delle importanti tracce, infatti salendo sulla grande roccia spianata sopra lo wadi troviamo delle sepolture e dei graffiti che riproducono gazzelle, antilopi, sciacalli, giraffe e grandi bovini, che risalgono a novemila anni fa. Questi blocchi rocciosi, che a me viene di chiamare isole, sono gli unici approdi in questa desolazione piatta che ti concedono un po’ d’ombra e dove si concentra la vita, poca cosa rispetto ai nostri parametri, un po’ di sterpaglia e qualche acacia strimizzita, le immancabili mosche e un po’ di topi e serpenti. Ci fermiamo all’ombra di un cespuglio dove fra i rami fa capolino un serpente perfettamente mimetizzato, è uno di quelli che se ti morde non ti da scampo, ma appena avverte il pericolo velocemente si nasconde fra la sabbia e i rami. È una convivenza scomoda ma inevitabile, il serpente e l’uomo si temono, si eviterebbero volentieri a vicenda ma sono obbligati a condividere lo stesso spazio, entrambi senza panico ma sempre un po’ guardinghi. Ripartiamo in direzione del Murzuq, si avanza lentamente nella distesa sempre più calda di sassi neri, non ci sono punti di riferimento solo ogni tanto qualche lastra messa per ritto e le dune giganti del Murzuq all’orizzonte, è un posto estremo in cui la vita sembra totalmente assente, qui prima dell’avvento dei fuoristrada nessuno ci si addentrava, troppo caldo e sterile per essere attraversato a piedi o con i cammelli. Avvicinandosi alle dune il grande lastricato scuro lascia il posto a una pianura di terra rossastra dove ci sono centinaia di piante di zucca i cui frutti che assomigliano a dei piccoli cocomeri, sono prelibatezze per le gazzelle ma velenosi per l’uomo. Il Murzuq è una striscia lunghissima di dune rosse, la roccia è diventata terra bruciata e ora possiamo andare più veloci, fra il riverbero e i miraggi le dune si avvicinano diventando policrome con cumuli bianchi e grigi davanti alle gigantesche dune gialle e rosate. I tanti colori sono un’illusione ottica, man mano che si avanza tra le tante piccole dune il colore diventa uniforme e poi finalmente ci troviamo davanti il muro delle grandi dune che immense sembrano avanzare e inghiottire tutto. Risalendo tra i cordoni di sabbia si prende rapidamente quota, il panorama sotto di noi prende forma e si ha la percezione della strada che abbiamo percorso, ma davanti le dune sono sempre più grandi e sempre di più, ci fermiamo sotto un muro di sabbia, ancora una volta devo resettare i parametri, le gigantesche dune di Wan Casa non reggono il confronto. Inizio a salire, questa è veramente una catena di montagne di sabbia, la macchina di Yaya e Haroun diventa un puntolino e poi scompare. Per arrivare sopra a quella che sembra la duna più alta ci vuole più di un’ora e il paesaggio che mi si apre davanti non ha aggettivi. All’interno di questo primo cordone si apre una depressione, come un grande mare su cui convergono gigantesche lingue di sabbia, è come essere affacciato su un ghiacciaio senza ghiaccio o su un arcipelago senza mare eppure tutta questa immensità e complessità è formata da minuscoli granellini di sabbia. È molto difficile descrivere il deserto, questa è una dimensione aliena ai parametri umani, uno smisurato vuoto di forme complesse avvolto nel silenzio, dove i pensieri sembrano distendersi su spartiti sconosciuti e ogni cosa che aggiungi sembra allo stesso tempo troppo e poco. Sotto di me la duna si tuffa quasi verticale dentro un cratere, scendo dalle pareti compatte scivolando dentro l’imbuto che sembra convogliare al suo interno tutto quello che passa, una trappola di inaudita bellezza, la sabbia è così compatta che risalendo sembra di camminare sul ghiaccio. È un paesaggio che fa perdere la cognizione del tempo, le ombre si stanno allungando in gigantesche frecce scure fra le infinite valli e il cielo diventato blu rende tutto definito e perfetto. Inizia una discesa fantastica, nella sabbia compatta sembra di volare, c’è come un effetto volano e le gambe sembrano fuggire, la sabbia è così dura che i piedi fanno male, poi improvviso un filone di sabbia morbida che mi inghiotte e ammortizza un gran rufolone. È talmente divertente che rido da solo come un ebete, mentre riprendo la corsa penso a quanto si divertirebbero i bimbi in queste infinite discese. Si riparte, ritorniamo nelle terre bruciate risalendo ancora per qualche decina di chilometri in direzione nord, una sosta per far prendere ad Haroun un po’ di ocra rossa e poi attraversiamo una distesa chilometrica di zucche cocomero che riempiono il letto del wadi Ina Hammam. Ormai prossimi al tramonto ripieghiamo verso il Murzuq, ancora una volta entriamo veloci nel campo di piccole dune e poi iniziamo a risalire “la cordigliera” di sabbia, si sale spediti nella sabbia compatta ma poi “uhuhuh fish fash” cominciamo un’avanzata sinuosa nella sabbia soffice scendendo e risalendo un paio di volte e la corsa finisce poco dopo. Sgonfiamo le gomme e si sale ancora un po’ e poi dopo un discesone ci fermiamo per la notte dentro una scenografica duna a semicerchio aperta verso est. C’è ancora il tempo di salire sulla lama rosata di una duna piramide per ammirare il Murzuq sempre più inghiottito dalle ombre, il sole tramonta dietro il Msak Settafet e la temperatura cala di botto. E ritorna preziosa la legna secca raccolta nel wadi per passare un’altra bella serata a parlare intorno al fuoco.