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L’ecolodge e la mazza da otto chili
Mattina serena e fresca, si prendono le bici e si va verso Adrar Amellal, la montagna bianca con la cima piatta che domina il lago di Siwa sul lato opposto al villaggio. Questa distesa di acqua salata fa venire voglia di mare, mi piacerebbe trovare un barchino per fare una vogata. Dopo qualche chilometro si lascia la strada principale (quella che va a Marsa Matruh) e si prosegue verso ovest sull’asfalto che costeggia il lato nord del lago, i cui confini sono delimitati da grandi zone secche con croste di sale e fango che brillano al sole, mentre più a largo i fenicotteri camminano riflettendosi nelle acque basse e immobili, che si trovano una dozzina di metri sotto il livello del mare. Provo a camminare su questo pavimento di sale, ma dopo qualche metro mi devo arrendere all’effetto sabbie mobili di questo pantano salato. In questa zona ci sono delle strutture turistiche segnalate con la dicitura ecolodge, imbocchiamo una strada che porta a un villaggio di capanne su un’isola di palme secche, a meta via c’è una grande palma finta che nasconde un’antenna e a fianco un gruppo elettrogeno, la strada rialzata prosegue dentro la laguna e la percorriamo insieme a un cucciolo di cane che ci segue. L’ingresso del villaggio è sorvegliato da un hasky impazzito che qualche sciagurato ha portato nel deserto per incatenarlo a un tronco di palma, si riesce comunque a passare. Il villaggio si vede che è nuovo ma è già abbandonato, le padrone sono un gruppo di oche che schiamazza beato nel laghetto di una risorgiva. C’è un pedalò su un carrello e una barca sfondata, evidentemente qualcosa non ha funzionato, mi viene da pensare “e se quando torno all’Elba la trovassi così?”. La laguna è bella anche se un po’ tetra e surreale, la calura e l’assenza di vento rendono tutto velato e senza colore e le piastre di sale lungo le sponde asciutte del lago ne esaltano l’effetto algido. Le palme sull’isola sono tutte secche, forse proprio a causa di questo insediamento totalmente fuoriluogo che nell’aspetto sembra il classico villaggio turistico della Polinesia con le capanne di canne e gli ombrelloni alla Paglicce beach.
Riprendiamo la strada che costeggia il lago, ogni tanto si incontrano delle chiazze verdeggianti con palme, olivi e campi di erba medica, si avanza fino alla grande montagna bianca, un’altra scritta ecolodge, ancora una strada sopraelevata ci porta verso la zona degli insediamenti. È un tratto bello e ci sono tante garzette e alcuni aironi grigi, passa un turista a cavallo totalmente dissonante con tutto il resto: gilet, stivali e caschetto e tutori che lo controllano a vista da dentro un fuoristrada a poca distanza, questa è la zona dei residence di lusso e anche qui nonostante siano tutti vuoti, ne stanno costruendo ancora, la follia globalizzata dell’edilizia turistica non risparmia nemmeno Siwa.
La strada che conduce ai piedi della Montagna Bianca è chiusa da una sbarra e controllata da guardiani che fanno un po’ di storie dicendo che è tutto privato, poi però ci fanno entrare. Arrivati ai piedi dell’Adrar ci troviamo davanti un grande complesso turistico costruito in kershef, arriva un ragazzo che, una volta chiarito che non possiamo andare a giro da soli, ci invita a mettere le nostre bici scarcassate dentro il parcheggio per nasconderle alla vista e poi ci accompagna a visitare il lussuoso resort. Ecolodge spartan chic come lo definiscono, è indubbiamente molto bello e curato, costruito tutto di sale, argilla e legno di palma, ma nonostante la grande cura costruttiva i letti e i tavoli di sale, è senza anima. L’impressione è che tutto questo esclusivo “eco lusso” sia un bluff, anche come affluenza, mi sa che anche qui la crisi è arrivata, io vedo solo cinque o sei pancioni americani all’ombra del palmeto accanto alla piscina, in compagnia dei loro immancabili beveroni alcolici e i fuoristrada con gli autisti a pochi metri. Hanno costruito queste cose per ricconi spacciandole come modelli di turismo ambientale, ma per come la vedo io mi sembra più un capriccio di stile che un esempio di turismo in sintonia con l’ambiente e poi stando dentro questo lagher dorato, dove una camera costa cento volte di più che nel “nostro” ostello, sei isolato dalla realtà del posto e non hai nessun rapporto con la gente che ci vive. Anche se costruito secondo i principi della bio architettura applicati alle tecniche tradizionali di Siwa, sotto la scorza di sale rimane un villaggio turistico e i ragazzi Siwani in elegante divisa da servo, sono qui a confermarlo. Recuperiamo i nostri claudicanti cicli e ritorniamo sulla via, due bimbi hanno lasciato l’asino con carretto sulla strada e con i falciotti stanno tagliando i giunchi nel canale, sono piccoli ma lavorano a capo basso. La strada attraversa un palmeto con gli orti e poi incontra il deserto, anche qui si lavora duro, ci sono tre uomini che spaccano le pietre, battere la mazza sotto il sole cocente nel deserto sa di galera e di inferno e invece è semplicemente lavoro. Qui sabbia non manca ma i sassi sono cosa rara, è molto più facile trovare sale e fango e questo spiega la tradizione costruttiva Siwana, ma oggi la pietra bianca di questa zona è molto richiesta. Gli uomini lavorano seguendo un filone in superficie, usano mazze molto pesanti, da 8 chili, che sono manicate con legno d’olivo, mazzoli, pali di ferro a punta di subbia e zeppe di metallo molto larghe spesse meno di un centimetro, mi piacerebbe fare un filmato e delle foto ma capisco che la cosa li imbarazza e allora saluto e tiro dritto. Il deserto è un mare di conchiglie e coralli ormai sbiancati, ci sono migliaia di ostriche, alcune gigantesche, tante conchiglie a pettine e delle larghe conchiglie bivalve che sembrano cozze giganti. Fa caldo ed è tutto molto fosco e polveroso, un peccato perché la vista sul lago salendo solo di pochi metri, è notevole, la cosa bella è che non si suda per il gran secco. In questo deserto il colore prevalente è il giallo, ma ci sono delle lunghe strisce bianche di sale e varie tonalità di ocra che si scuriscono fino al rosso porpora, le rocce calcaree sono scolpite dal vento che ne ha disegnato le forme stondate. Nelle parti rocciose più alte e compatte ci sono scavate centinaia di tombe di cui nei libri che ho non c’è nessuna menzione, gironzolando dentro una depressione ne troviamo una sessantina numerate, alcune hanno più di una camera, ma la maggior parte sono piccole e spesso l’ingresso è ostruito dalla sabbia, in alcune si vedono le tracce di pitture e in altre si intuisce che sono state scalpellate di recente come per togliere pitture murali, tutt’intorno ci sono tanti resti di ceramica e decine di resti di ossa umane. Riprendiamo le bici e si ritorna verso Siwa, che da qui dista una ventina di chilometri. Avvicinandosi al villaggio principale si ricominciano ad incontrare i carretti trainati dai ciuchi e le moto col cassone, che mi fanno tornare in mente Umberto di Daria che quando ero bambolo con un mezzo simile girava portando le bombole del gas per Filetto e Bonalaccia. E’ormai sera, a Siwa la vita scorre tranquilla regolata dal ciclo del sole e dalle chiamate dei muezzin. Mi piace Siwa e la tranquillità della sua gente anche nei confronti del turismo, qui voglio stabilire un contatto per Base Elba, la comunicazione è complicata, il Siwi è diverso dall’Amazigh di cui in Marocco avevamo appreso qualche vocabolo e la lingua straniera conosciuta è l’inglese che per me è peggio dell’arabo, ma comunque sforzandoci ci si intende sempre.