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L’incontro con Fathi Malim
Dormitona, colazione e poi a scrivere. Osservando la velocità della Signora Australiana mi rendo conto che sono lentissimo a scrivere, questo viaggio ci vuole più a scriverlo che a farlo, però mi piace e quando rileggo i mesi passati riaffiorano subito tante immagini che se non fossero state bloccate ormai sarebbero perse per sempre.
Il fonduk si è riempito di tante persone, alcune quasi invisibili altre più appariscenti, come una svampitissima austriaca dal sorriso siliconico che passa le giornate a specchiarsi nel corridoio raccontando a tutti quelli che le passano davanti, con un risolino isterico che lei viene da “Insbruck snow!!” ma malgrado il suo entusiasmo giulivo, la sua esuberanza non contagia nessuno, meno che mai i Siwani che in silenzio la osservano perplessi, è arrivato anche un giovane babbo inglese vestito da Indiana Jones con il figlio, un biondissimo piccolo lord di quattro anni tutto eccitato da questa vacanza avventurosa.
Siwa mi incuriosisce sempre di più, è un luogo denso di storia e di fascino che regala sensazioni e emozioni profonde, ma sempre sfumate e avvolte nel mistero. In questa piccola oasi circondata dal nulla si incontrano la cultura Amazigh e la Civiltà Egizia, gli aspetti più entusiasmanti dal punto di vista umano e da quello storico di questa prima parte del viaggio. L’Oasi Siwana è il posto più orientale in cui si conserva la cultura Amazigh e anche il luogo dove i Culti dell’Antico Regno Faraonico si sono conservati più a lungo. Grazie all’isolamento qui è nata una piccola (in dimensione) Civiltà, unica e diversa da tutte le altre, che per certi versi mi ricorda quella di Rapanui, la favolosa Isola del Pacifico a cui l’isolamento fece dimenticare alla gente  la terra di provenienza e la capacità di navigare l’oceano. Anche i primi abitanti di Siwa erano nomadi ma giunti in questo luogo così idilliaco si fermarono e diventarono stanziali, perdendo l’attitudine al viaggio e dimenticando le proprie origini, ma allo stesso tempo proprio per l’isolamento perpetuarono culti e tradizioni che nei luoghi di partenza si erano ormai persi. L’interesse e la curiosità per Siwa si è poi amplificato leggendo “L’Oasi di Siwa dall’Interno” uno dei libri scritti dal Siwano Fathi Malim, in cui ho trovato la conferma alle senzazioni delle tante similitudini che ci sono fra le Isole e le Oasi. Il racconto di Fathi Malim mi è piaciuto tanto e mi ha fatto venire la voglia di conoscerlo, per saperne di più e anche perché a Siwa vorrei prendere dei contatti per “Base Elba”e questo antropologo Siwano potrebbe essere un prezioso contatto, gli telefono e gentilmente mi da appuntamento in tarda serata nel piccolo bookshop dove sono in vendita i suoi libri.
Come spesso succede con chi scrive mi trovo davanti un uomo diverso da quello che mi ero immaginato, anche perché depistato dalla foto dell’autore nell’ultima pagina del libro che lo ritrae ragazzo, vestito all’occidentale e sbarbato. Mi trovo davanti un omone alto e severo che dimosra almeno una decina di anni in più rispetto ai suoi trentaquattro, galabiyya (camicione lungo) bianco e barba lunga da integralista islamico, ha occhi profondi da indagatore e mani grandi. Ci sediamo in fondo alla stanza sul tappeto, accanto al fornello da campo su cui Fathi prepara il the alla maniera tradizionale, gli racconto del viaggio e le mie sensazioni sulle affinità fra le Oasi e le Isole e sul pericolo che rappresenta il turismo organizzato, ma la conversazione versa soprattutto sull’Islam, mi chiede cosa penso dell’Islam e che differenze ho notato fra i Mussulmani dei vari paesi visitati, gli racconto la grande ammirazione e riconoscenza che provo verso la cultura Amazigh con cui ho convissuto per mesi nell’Atlas Marocchino e che mi ha fatto apprezzare anche l’Islam e i suoi precetti e anche della grande ipocrisia che invece ho respirato nelle città egiziane, soprattutto al Cairo. Fathi dice che sono i modeli occidentali che allontano la gente dalla perfezione del Corano, che solo seguendo rigorosamente i comportamenti dettati dal Corano e sottomettendosi alla volontà di Allah gli uomini possono vivere felicemente, cerco di spiegargli che la parola sottomissione non mi piace, ma la lingua è un limite troppo grande e fraintendimenti sono fin troppo facili. Passo comunque un paio di ore molto interessanti facendo comparazioni fra la cultura Siwana e quella Elbana, fra il sentirsi prima Siwani o Elbani e poi Egiziani o Italiani, argomentazione su cui Fathi costruisce un articolato anatema sulla divisione politica del mondo per esaltare ancora una volta l’Islam come strumento di unione e pace nel mondo in quanto slegato da qualsiasi concetto di nazione o di confine. Per quello che riguarda “Base Elba” a Fathi piace l’idea ma per entrare nel concreto mi consiglia di contattare Laura e Silvia, due italiane che lavorano a Siwa per conto di un progetto di cooperazione con il quale anche lui collabora. Ci salutiamo, è stata una conversazione interessante purtroppo limitata dalla mia ignoranza linguistica e dal concetto di sottomissione che non fa parte del mio modo di concepire la vita.