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La magia degli ksour Fa freddo all’alba quando il gallo ci sveglia, le donne del villaggio sono già in azione e stanno spazzando le corti terrose delle loro case. Metto in moto e si parte in direzione della Douiret vecchia, il sole arriva e la luce calda dell’alba colora il deserto di toni rossi. Il villaggio sembra molto più piccolo di Guermessa, anche qui c’è una moschea bianca alla base dell’abitato che si sviluppa su un unico colle sul cui culmine c’e’ la fortezza (kalaa) diroccata. Sul lato di Ponente a un chilometro da qui c’è un grande marabutto che il sole incendia di luce dorata, Douiret è un paese meraviglia che si sta svelando man mano che il sole sale abbassando il sipario dell’ombra fino alla moschea, facendo risaltare le pietre dorate nel cielo terso e potente di questa mattina. Prima di salire mi fermo a fare un giro nel cimitero dove ci sono tre tombe a cupola di marabutti e altre tombe bianche di importanti uomini di fede, da sempre il deserto è patria della mistica e qui evidentemente i santi abbondavano. La strada arriva dritta fino all’inizio del paese, in una stalla ci sono due ciuchi, mentre dalle prime case delle persone ci stanno osservando, sono affacciate su un pianerottolo di un piccolo albergo aggraziato in costruzione, ma ormai praticamente ultimato, certo leva un po’ di fascino ma penso che sia il modo giusto di fare turismo, portando i visitatori a pernottare dentro le mura si permette di mantenere in vita, magari anche solo parzialmente, questi villaggi eccezionali, è costruito con cura in armonia con l’architettura del villaggio e gli impianti elettrici sono alimentati con cellule fotovoltaiche ben mimetizzate. Poco più avanti la moschea nuova che è aperta, l’interno è scarno e si sviluppa in un grande stanzone vuoto, pero’ è collegata attraverso un cortile coperto alla vecchia moschea che è scavata dentro la montagna, questa è molto più bella e affascinante con la grande sala sostenuta da grosse colonne cilindriche e adornata con tante iscrizioni a rilievo nelle mura, saliamo in cima al minareto che ci regala una prospettiva impagabile sul villaggio e sul deserto. Risalendo i vicoli si incontrano due case ancora abitate, assomigliano tanto alle case grotta dell’Isola di Ponza, il villaggio si sviluppa come un forte che sale a spirale fino al vertice della collina, da qui si vede che le abitazioni si estendono anche lungo una fenditura che si trova nella lunga collina sul lato opposto alla moschea, disegnando un serpente sinuoso lungo sei o settecento metri. Le case abbandonate sono il regno dei “caterulli del deserto” c’è anche un grande frantoio con il tetto di tronchi di palma che probabilmente verrà restaurato. La vicinanza con la strada asfaltata sicuramente agevola le visite turistiche e stimola progetti di recupero, l’impressione è che si stiano facendo le cose per bene, speriamo che stavolta non vengano fatte schifezze. In vetta come sempre i corvi la fanno da padroni, sullo sfondo si avvista la polvere che sale dalla strada, sono dei fuoristrada con i turisti che arrivano mentre la luce magica va via e anche noi ce ne andiamo. Cielo blu e montagne aride a righe ci fanno da sfondo, siamo nella zona dei grandi ksour, per primo incontriamo lo ksar di Ouled Debbab anche questo famoso per essere stato usato per le riprese di Guerre Stellari, ma è una delusione è stato trasformato in albergo e ha perso tutto il fascino diventando pacchiano come il dinosauro stile elbaland che fiancheggia l’ingresso. Andiamo in direzione di Ouled Soltane dove dovrebbe esserci lo ksar più bello della regione. Lungo la via incontriamo le donne al pozzo che con un bidoncino di latta travasano l’acqua nelle stagne attaccate sulla sella del ciuco, con la macchina si fa tanta strada e si vedono tante cose pero’ filtrate e un po’ da spettatori, non come quando si viaggiava col mulo, arrivare a questo pozzo con Tambone avvrebbe significato fare conoscenza con queste ragazze e magari finire a casa loro, arrivando cosi’ ti poni troppo come corpo estraneo e anche le foto sanno un po’ di furto. Arriviamo al villaggio dello ksar più famoso, temevo di trovare file di pullman, biglietterie, bancarelle di souvenir e guide incartapecorite in cravatta e giacca forforosa stile villa di Napoleone di San Martino e invece anche qui ci siamo solo noi. Il gran Ksar di Ouled Soltane è irreale nel suo splendore di forme senza linee rette, un favoloso alveare di luce, sinuosità e armonia disuguale, naturalmente non è passato inosservato agli autori di Star Wars che qui avevano ambientato le abitazioni degli schiavi. Lo ksar è il simbolo di questa regione, è un tradizionale granaio fortificato costruito per conservare e proteggere i raccolti, ogni ksar è formato da “ghorfa” piccole stanze lunghe e strette con un'unica apertura che affaccia sul cortile e che viene chiusa con porte di legno di palma, sono costruite con pietra e gesso e rifinite con il fango, il clima arido permetteva di conservare i cereali per decine di anni. Lo ksar era il cuore del villaggio, le ghorfa erano padronali ma c’era un custode spesso “uomo di moschea” che ne gestiva l’utilizzo impedendo sperperi e speculazioni ai proprietari e razionalizzando i consumi in maniera da avere delle riserve in caso di carestia, per garantire la sussistenza per tutti gli abitanti del villaggio. Lo ksar dall’esterno ha l’aspetto di un forte con un'unica porta detta la skifa da cui si accede al cortile, le ghorfa si sviluppano su più piani, questo ksar ne ha quattro, in alto si conservavano i cereali e in basso l’olio, i legni murati sopra le nicchie più alte facevano da gru per caricare con un sistema a carrucole il frutto dei raccolti nei vari livelli collegati solo da rampe di scale e da lastre inserite nella muratura che ricordano i gradini che sporgono dai muri a secco delle vigne alte nella Valle del Poio. Il sistema degli ksour era perfetto per queste terre e fu adottato anche dagli arabi e la maggior parte degli ksour, compreso questo, sono successivi all’invasione araba. Di solito lo ksour si sviluppa intorno a un'unica piazza ma questo ne ha due, dal primo cortile passando da una piccola porta si accede al cortile più interno, qui la struttura che è stata splendidamente restaurata lascia senza fiato, è anche troppo perfetto tanto da risultare asettico, comunque bellissimo. La luce è calda e potente e lo sfondo blu perfetto. Quattro piani di stanzine stondate a formare un anfiteatro di decine di nicchie ombreggiate che mi guardano come gigantesche tope rasate, mentre i legni di olivo e le ”lastre scalino” disegnano ombre nelle pareti come meridiane. Padroni silenziosi dello ksar sono dei grossi passeri con un collare che cangia dal grigio al turchese a secondo di come ci riflette la luce. Prima di andare via mi fermo a chiacchierare con dei regazzi che gestiscono un piccolo bar, si lamentano perché non viene mai nessuno a parte qualche gruppetto di turisti frettolosi di stanza a Jerba che ogni tanto capita d’estate, sono dispiaciuti perché sono giustamente orgogliosi del loro gioiello architettonico, vorrebbero costuirsi un futuro qui, ma non vedono molte prospettive, parliamo un po’ e gli racconto del Viottolo e delle mie idee sul turismo. Sono contento, a Bizerte in un mese non ho strinto nessun rapporto umano vero, in questa regione seppur visitata in maniera frettolosa ho ritrovato l’entusiamo e la magia dell’Atlas. Il sole è ormai alto e fa caldo, una stradina tutta dossi ci porta a Ksar Ezzahra, sono solo pochi chilometri ma sufficienti per entrare in una dimensione totalmente estranea al turismo, è un villaggio piccolo ma vivo con i vecchi Peugeot 404 cassonati che troneggiano nella piazza. E’ un crescendo di bellezza, questo è un paese vero con lo ksar ancora attivo, dalle vie passano una serie di personaggi favolosi con i vestiti tradizionali, che qui arrivino pochi estenei lo si capisce dal fatto che siamo noi l’attrazione del paese. Serena mi chiama è davanti alla skifa che come a Ouled Soltane si apre sullo ksar, una luce magica filtra all’esterno, dalla piazza di terra con al centro un albero. E’ la porta delle porte, la vera porta spazio temporale, entri dentro e si apre un'altra dimensione, la porta di questo ksar è la trasfigurazione della fica, ti apre orizzonti inimmaginabili. Appena dopo l’ingresso ai margini del cortile interno i vecchi saggi del villaggio sono riuniti nello scuro irregolare di un ombra composita, giocano e disegnando con le mani universi nella sabbia, sereni e fieri, distaccati dal mondo esterno, quello dei soldi e dei cercatori di esclusive, senza parole capisco che la foto bellissima che vorrei scattare è inopportuna, uno sguardo collettivo di intesa me lo comunica, le parole non servono. Mentre cammino mi perdo nelle forme surreali e nel silenzio di questo universo di sagome e ombre sinuose, salgo dalle scale di lastre inserite nelle pareti, nelle ghorfa più alte, alcune delle quali conservano ancora un po’ di grano, gli “scalini” sembrano buttati a casaccio nella parete, ma è tutto calcolato e ti permettono di salire con facilità. E’ un posto incantevole, che sa di libertà dove contemporaneamente ti senti libero e ignorato. Osservo il rito del the e la dama di sabbia e sassolini, poco distante c’e chi dorme nell’ombra dentro una coperta. Qui l’aria è densa di saggezza, mi sdraio in un angolo all’ombra di una ghorfa, gli aromi di terra e di sansa, di olio e di polvere mi invadono piacevolmente, anche le mosche addosso non disturbano, anzi portano messaggi, un anziano mesce il the scandendo frasi lente e rituali e su tutto questo la luce forte del deserto che ti rimbalza di fianco anche quando ti accucci all’ombra di una delle mille curve dello ksar la percepisci sempre, anche ad occhi chiusi. Nelle vesti ampie, nelle rughe, nel rito del the, nella schacchiera disegnata nella sabbia e nelle pedine di sasso, una sensazione di pace e verità rivelata, è il regno dell’essenza dove l’apparente nulla diventa tutto e allo stesso tempo qualsiasi cosa è di troppo. E allora la macchina fotografica diventa un sasso dalle forme sgraziate e le ciabatte sgradevoli preservativi che ti allontanano dal contatto con il suolo. Non so quanto tempo è passato quando apro gli occhi, forse un’ora o magari solo dieci minuti, ma è stato un tempo speciale, “hai già dormito?” mi chiedono ironici con il palmo aperto delle mani i “padroni di casa” mentre mi appresto ad uscire dalla skifa, saluto muto e rituale come un Amazigh e lascio i veri jedi nel “tempio senza tempo”. Uscendo ritrovo la luce piena del deserto, quella che ti abbassa lo sguardo e ti ingigantisce le grinze dell’occhi. Continuiamo nell’arsura lungo una stretta carareccia e ci ritroviamo al grande ksar abbandonato Jelidet, è il più grande di quelli visti, si entra da una larga porta blu, è sbiancato da una luce accecante e circonda una vasta piazza rettangolare con una costuzione nel mezzo. Poi ancora deserto e ksour, uno per ogni villaggio incontrato, la pista è stata cancellata dalla pioggia e una deviazione ci porta sulla strada asfaltata per Tataouine. Appena passata la cittadina, come spesso è capitato in questi giorni, diamo un passaggio, da queste parti sono poche le persone che hanno una vettura propria e per spostarsi si usa tantissimo il passaggio, si vedono tante persone che con l’immancabile sacchetto di plastica nero porta tutto, camminano apparentemente verso il nulla, vanno senza sapere quando arriveranno… inshallah. Siamo molto vicini alla Libia e ormai siamo vicini al mare, attraversando una zona che le carte stradali e le guide ignorano, è un deserto strano questo, è tutto coltivato ad olivi che si estendono per decine di chilometri fino al mare … radio tunisi trasmette in lingua italiana e ci fa ascoltare le canzoni di un cantautore siciliano, il tormentone “ventu quandu te’ncazzi mi fai paura” mi si inculca nel cervello. Il nostro passeggero ci saluta alle porte di Ben Guerdane un paese dai tanti distributori che non esiste sulla guida della Lonely Planet, come non esiste tutta questa zona. Nelle vie c’è tanta gente e i cartelli stradali che indicano Tripoli e il Cairo ci fanno capire che il confine è vicino, le donne sono vestite in modo molto più “coranico” rispetto a Bizerte, è tutta un'altra Tunisia, diversa come per l’Italia lo sono Bolzano e Palermo. Nei pressi di El Marsa finalmente arriviamo al mare, Douiret che abbiamo visitato all’alba è un mondo lontano, il mare davanti a noi è una laguna dove pascolano fenicotteri rosa e garzette. Sfrutto la bassa marea per camminare dentro l’acqua e fare qualche foto ai fenicotteri, poi prima che la marea si prenda la macchina ripartiamo. Il tramonto è ormai vicino queste giornate piene mi hanno fatto tornare l’entusiamo e fra pochi giorni La Galite, ancora non ci credo che abbiamo l‘autorizzazione. Lungo la riva le donne raccolgono la “salycorn” l’erba grassa che cresce sul limite della marea e che avevo già visto a Kerkennah. Una lingua di terra sottile chiude la laguna che parte dal forte di Naoura e porta fino a un piccolo villaggio di pescatori, le barche di legno e le gorgoulette richiamano immagini kerkenniane, come anche il marabutto di Sidi Ahmed Chaouch che si trova proprio alla fine dell’istmo, su un piccolo isolotto che si puٍ raggiungere a piedi con la bassa marea. Le ultime barche rientrano quando cala il sole, si riparte in direzione di Zarzis, c’è traffico, è normale siamo alle porte di Jerba. Con il buio la situazione diventa infernale, motorini a fari spenti, macchine contromano e senza fari, è come un video gioco di quelli che diventa sempre più difficile, arriva anche Medenine e poi ancora Gabes, da un camion volano pancali con casse e scatole di frutta. Nella notte la strada si illumina di rosso con i “distributori” segnalati da neon messi dentro le stagne rosse, è il gran souk del petrolio che si estende per decine e decine di chilometri, nell’attesa dei clienti si mangia arrostendo la ciccia e scaldando the con il fuoco riparato da un cerchio di contenitori di benzina, fanno tutti cosi’ come se fosse la cosa più normale del mondo, è come percorrere una chilometrica bomba molotov. Poi arriva anche la pioggia con gli immancabili incidenti, quando la strada si allarga e diventa a due corsie il traffico scorre più veloce ma bisogna fare ancora più attenzione perché i motorini e i furgoncini senza fanali viaggiano contromano per vedere chi arriva e poi ci sono i mitici Stop della polizia, quelli che se ti fermi ti guardano come a di’ “oh fava ma che ti sei fermato a fa’!” ma se passi anche piano piano ti fermano e ti cicchettano per non aver rispettato lo Stop. Per fortuna sono quasi sempre a mangiare in qualche chiosco e ci sono solo i cartelli incustoditi, comunque quando vedono che sei italiano ti lasciano passare, ma con i Tunisini “c’è un gran commercio”. Da Sousse prendiamo la nuova autostrada, i caselli sono ancora in costruzione quindi non si paga, arriviamo a Bizerte che è quasi l’alba. |
© 2024 Elba e Umberto
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