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Arsura desertica e surreale paesaggio Artico
Sveglia prima dell’alba, con una grande scorta d’acqua si parte alla volta del Deserto Bianco, ci prendiamo due the “tin shai” al bar del benzinaio e poi ci avviamo lungo la strada. Dopo un paio di chilometri arriviamo al controllo di polizia che stamani passiamo senza problemi, proseguiamo lungo la strada e dopo poco un pik up si ferma e ci da un passaggio, lo guida un ragazzo diretto a Bawiti, per noi è perfetto io voglio essere lasciato alla Montagna di Cristallo, il punto di confine fra il Deserto Bianco e quello Nero. Si fila spediti, il “Sahara Beida” ci scorre sui lati, superiamo la zona più bassa della depressione, quella totalmente bianca , poi la strada comincia impercettibilmente a salire. Nonostante il mattino sia appena iniziato fa già caldo e dai finestrini aperti entra già aria calda, ci fermiamo quando incontriamo un cantiere stradale dove Hammed deve consegnare sigarette e schede telefoniche a un suo amico contattato telefonicamente, se le viene a prendere con una grande livellatrice portando via una bella fetta di massicciata. Il cantiere ha un aspetto infernale, baracche di lamiera, ruspe, silos e un frantoio per macinare la roccia con cui fare l’asfalto, l’aria è calda, densa e velenosa, una miscela unta di gasolio, polvere, catrame e grasso che fa bruciare gli occhi e irrita la gola all’istante, questi operai prenderanno anche una bella mesata ma a che prezzo? Sicuramente qualcuno li racconterà come eroici portatori di progresso, ma io li vedo come schiavi dannati, mi ritorna in mente Angiolino di Pomonte che mai aveva voluto lavorare da “sottoposto” mi diceva “le ditte ti promettono le mesate sicure e la pensione da vecchio, ma puntano a fatti mori’ prima di diventallo, meglio vive povero che sottoposto” ribadendo fiero “noi alla miseria siamo abituati da sempre, ma anche a un ave’ padroni”.
Si lascia il cantiere, ogni tanto a fianco della strada appaiono dei chiusini che mi sembra di capire siano una conduttura di acqua, arrivati alla collina di cristallo salutiamo e ringraziamo Hammed che ci ha regalato questo passaggio. Questo è uno dei punti più famosi e reclamizzati del Parco e anche uno dei più visitati, anche perché si trova a pochi metri dalla strada asfaltata, anche ora ci sono un paio di fuoristrada con un gruppetto di giapponesi, un autista-guida  ci riconosce, è uno dei tanti visti a Bawiti, è sorpreso di vederci ancora in zona e ancora di più del fatto che siamo senza macchina. Il sito per la verità è piuttosto deludente e soprattutto ridotto male, nonostante la zona dei cristalli sia circondata da una corda per non far avvicinare le persone, dentro non c’è rimasto gran che; comunque dopo, quando il gruppo sarà andato via, gli voglio dare un’occhiata più approfondita, intanto lascio lo zaino grande con viveri e tenda in un grottino e cominciamo a salire sulla collina nera sopra di noi da dove si dovrebbe godere un bel panorama. Mentre si sale nello sfasciume di basalto e cristalli smuovo un sasso e viene fuori un grande ragno giallo dalle inquietanti mandibole a forma di pinza. La vista dalla vetta è notevole, questo è il punto di confine reale fra il Deserto Nero (Sahara Suda) e quello Bianco “Beida” la strada che risale verso nord-est è circondata da montagnole coniche di basalto, intorno le polveri nere di questa roccia vulcanica formano un tappeto scuro che si esalta a contrasto quando icontra le sabbie gialle di arenaria, mentre volgendo lo sguardo verso sud-ovest il serpente bitumato si perde nella depressione del Sahara Beida dove predominano i bianchi calcari organogeni. Andati via i nipponici scendiamo alla “montagna di cristallo” anche se in realtà tutta questa zona ha una struttura simile e di cristalli ce ne sono molti di più qui in cima, nel frattempo è arrivato un altro un gruppo, sono francesi e la loro guida è un effemminato rasta biondo; scendono dal pulmino, pochi passi, tre minuti di spiegazione, cinque minuti di foto e via in direzione di Farafra, quando arriviamo sono gia partiti. Come avevo intuito, nonostante le corde a difesa, il sito è devastato e gran parte dei cristalli sono stati distrutti per portare via cimeli geologici e ormai sono solo anonima polvere. Ci mettiamo in marcia verso il Sahara Beida, la via bitumata si stringe verso l’orizzonte e poi scompare nel bianco, anche stavolta rimediamo velocemente un passaggio, dopo una ventina di minuti si ferma un fuoristrada un po’ scarcassato di una delle tante guide di Bawiti, il driver ha un solo cliente, un tedesco strano e silenzioso che sembra interessato solo ad accarezzare il suo orsacchiotto di peluche. Dopo qualche chilometro lasciamo l’asfalto per entrare nel Deserto Bianco da Aqabat per imboccare il cosidetto “passaggio difficile”, si tratta di una pista sabbiosa con dei tratti in controtendenza che danno continuamente l’illusione di cappotare, il percorso ha il momento clou nella discesa a precipizio da un’alta e ripida duna veramente divertente, il tedesco però non gradisce e protesta dicendo che l’orsachiotto ha paura, Mohammed autoproclamatosi il miglior pilota delle oasi occidentali, torna sull’asfalto senza raggiungere il Double Peak, un massiccio blocco di calcare con due torrioni gemelli, che è uno dei picchi più famosi di questo deserto e in passato era un importante riferimento per le carovane di dromedari che lo attraversavano. Si torna di nuovo sulla strada, dopo qualche chilometro il driver lascia nuovamente l’asfalto e rientra nel deserto dalla pista che conduce alla sorgente di Ain Khadra dove si fermeranno a riposare, salutiamo lo strano duo e continuiamo lungo la via principale, poco più avanti incontriamo un ragazzo con un paio di cammelli che aspetta accovacciato a una catasta di coperte, nella speranza che qualche turista si fermi per fare un giro, per ripararsi dal sole si è coperto con le coperte di lana, fa strano con questo caldo ma è il sistema usato dai beduini quando non c’è nessuna possibilità d’ombra. Il caldo oggi è devastante non c’è un alito di vento e il paesaggio tende sempre più ad assumere un’illusoria forma liquida e confini indefiniti, provvidenziale arriva un altro passaggio, si fermano due fuoristrada così lindi che sembrano appena usciti da una concessionaria, sono anche loro guide di Bawiti e fanno parte dell’organizazione più forte dell’oasi di Bahariyya, stanno andando a Farafra e in serata porteranno nel deserto un gruppo dell’hotel di Mister Pharaon. È un tipo che trasmette competenza, è incuriosito dal nostro modo di viaggiare e ci fa i complimenti per come vogliamo visitare il deserto, prima di lasciarsi si accerta che abbiamo acqua a sufficienza. Mi faccio lasciare nel cuore del Deserto Bianco, ormai siamo proprio sul chiocco del sole, il caldo è abbioccante e la luce accecante, sentenziamo che l’unica cosa da fare è fermarsi all’ombra del primo fungo e aspettare. Per un paio d’ore l’unica azione è quella di ruotare insieme all’ombra, a queste temperature anche scacciare le mosche è uno sforzo, l’aria è così calda che se respiri con la bocca la saliva ti si secca in gola.
La calura fa oscillare tutto, le forme e i pensieri, si fluttua dentro un’indefinibile sensazione di movimento statico e il deserto si svela poderoso, una sublime rappresentazione della bellezza che uccide, è una dimensione contemporaneamente onirica e reale che ti predispone a uno stato di sogno cosciente, mi sento come un’entità gassosa, è come se i pensieri mi galleggiassero intorno. In questo clima estremo mi trovo a confrontarmi con un concetto di presente nuovo, un qui e ora fluttuante  dove quello che vedi è più miraggio che realtà, sei circondato da illusioni e il reale lo devi immaginare, è difficile spiegarlo con le parole ma è come una dimensione parallela e ci vuole disciplina per non farsi dominare dal delirio, ma in questo il deserto è onesto, ti chiarisce subito che la sua potenza ti può uccidere, ci vuole poco per morire disidratato sul fondo di questo antico mare. L’ombra di questo fungo è una postazione di osservazione eccezionale, un privilegio assoluto, come lo potrebbe essere una bolla d’aria sul fondo del mare e mille visioni e infiniti pensieri pulsano intorno a questo fungo di calcare mentre gli si ruota intorno come lancette di orologio.
Dopo un paio d’ore ci spostiamo verso un grande fungo qualche centinaio di metri più all’interno, è circondato da morbida sabbia dorata, perfetta per montarci la tenda, e piastroni di basalto, facciamo calare luce e temperatura e poi iniziamo a camminare nella grande pianura bianca. Si avanza dentro questa surreale distesa di giganteschi “selvi” albini, cerco lo sguardo di Serena per condividere la magia di questo posto e ne trovo conferma nell’ espressione di meraviglia disegnata nel suo volto, i blocchi di calcare si susseguono in centinaia di figure fantastiche le cui forme cangianti variano ad ogni passo, case dei puffi diventano torri di vedetta e poi relitti di astronavi e il dinosauro una sfinge e poi un grande cobra, si cammina sulla sabbia finché non arriviamo in una zona dove predominano i lastroni plastici di calcare bianchissimo, ma ci sono anche degli strati più sottili che nella parte superiore, cotti dal sole, si induriscono e si colorano di un grigio metallo così lucido da sembrare lamiera. Ricominciamo a trovare conchiglie, qui ce ne sono di molto più grandi rispetto a quelle viste nei giorni scorsi. Mentre il sole si abbassa il gioco delle ombre distende nelle sabbie nuovi fantasmagorici personaggi, contemporaneamente le formazioni rocciose si svelano acquistando profondità. Questo deserto bianco sembra diviso in capitoli, ogni zona ha una sua caratteristica, attraversiamo un tratto con decine e decine di forme così simili da sembrare clonate, che ricordano una fornata di meringhe giganti e poi una distesa di corrosi pipi ritti tutti rivolti allonsù come se aspettassero una pioggia di tope spaziali.
Un tratto sabbioso con qualche giunco ci ricorda che qui sotto c’è acqua, poi ancora sculture di calcare in forma di campane e meduse giganti, non c’è nessuno in questo paesaggio di magia e l’assenza di tracce di pneumatici ci conferma che qui solitamente non ci viene nessuno. Arriviamo in una depressione dove incontriamo uno scenario se possibile ancora più esaltante, è come un fermo immagine di quando spengi la calce per fare il bianco di pisa, solo che qui è tutto solido e si  estende per chilometri. Sulla via del ritorno incontriamo degli affioramenti di basalto, queste rocce vulcaniche scure le cui forme, per quanto erose, ricordano ancora la fluidità della loro arcaica forma liquida . Ci godiamo un tramonto pallido, la potenza del sole è contenuta dalla foschia, sembra di essere dentro un paesaggio artico, quello che fino a pochi minuti fa era una fornace ora appare come una banchisa polare. È ormai buio quando si monta la tenda, fa comunque sempre un gran caldo, si decide di dormire fuori anche per godersi la stellata.
 
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