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Siamo chiusi a chiave nella casa fortezza, il vento è calato e c’è il sole però i padroni di casa dormono. I fratelli hanno chiuso a chiave tutte le porte, anche quella della loro camera. Finalmente si esce, Tambone è iper agitato per il vento, è schizzato, scalcia, non ne vuole sapere del tagrart. Carchiamo alla meglio, salutiamo i due generosi ladroni e ci avviamo sulla strada per Aouli.
Per fortuna è una bella giornata e non c’è il vento di ieri, la strada è godronata, attraversa un paesaggio arido di colline rossastre dove ogni tanto si incontra qualche pastore, man mano che si scende il vento scompare, lungo la strada scorre un torrente dove cantano numerose le rane. Ogni tanto si vede qualche galleria e discarica di miniera abbandonata. La strada scende sinuosa fra le gole aride, dopo tre ore di cammino incontriamo il oued Molouya, confine geografico dei nomadi dell’Atlante. Il fiume è ricco d’acqua, lo attraversiamo su un vecchio ponte di travi di legno che risale ai tempi della miniera, poi proseguiamo lungo l’altra sponda. È una gola alta e molto suggestiva, le montagne sono formate da rocce stratificate in cui si individuano bene i filoni dei minerali, lungo le sponde del fiume sono numerosi i tamerici, ci sono anche piante di capperi. Continuiamo lungo il corso del fiume dove si vedono numerosi piccoli pesci. Dopo un’oretta di cammino iniziamo a trovare le prime case di questo villaggio abbandonato. Ci sono decine di case in pietra semi distrutte che salgono sulla montagna come in un presepe diroccato, in tutto questo abbandono spicca il cartello pubblicitario di un’aranciata dai colori brillanti. Un cane sopra un pilastro di cemento ci accoglie all’ingresso del centro di quella che un tempo veniva chiamata la piccola Parigi. Le strutture della miniera sono imponenti ed estese su un area di diversi chilometri, nel centro del paese c’è un grande ponte in ferro alto una ventina di metri che attraversa il fiume e collega le gallerie che si sviluppano sui due lati, con la torcia entro in quella a nord che nell’aspetto ricorda il livello di – 54 del Ginevro, è molto ampia e dentro ha una estesa ferrovia che si perde nel ventre della montagna. Il paese è praticamente disabitato, qui all’inizio degli anni ottanta vivevano più di diecimila persone richiamate dalle miniere di piombo, fa impressione vedere dal nulla apparire questo agglomerato di “modernità abbandonate”, negozi, il cinema, la centrale telefonica, viali alberati, giardini, tutto in degrado, ci sono decine di porte blindate e saldate, su entrambe le sponde del Mouloya tante case inghiottite da una vegetazione anomala di piante importate come i pergolati di vite che testimoniano la presenza francese. Si lascia il fiume, la strada sale fra grandi colline di scarti minerari e regala grandi paesaggi. Troviamo una montagna bianca, in alto il villaggio di baracche dove viveva gran parte della manovalanza marocchina. Sotto come in un miraggio, intorno ad un ansa del Mouloya una grande macchia di verde intenso nel deserto di pietra, e a fianco il piccolo villaggio di Aouli dominato da una grande kasbak degradata. Il villaggio esisteva prima della miniera e gli è sopravissuto con una popolazione dimensionata ai prodotti che riesce a fornire l’oasi. Sembra un posto fuori dal tempo, armonico e vivo con le donne che lavano al fiume e gli asini che vanno e vengono fra l’oasi e il villaggio, tutto dominato alle spalle da una montagna magica, di rocce verdi e rosse, domani ci fermiamo qui è un posto che merita di essere conosciuto bene. Ci viene incontro Said offrendoci ospitalità, facciamo un giro nel villaggio avvolto nelle ombre lunghe della montagna che ora è diventata rossa nell’ultima luce del giorno e poi andiamo nella casa dove ci stanno aspettando. E’ una casa grande con una corte interna che ha un piccolo giardino, le mura sono di fango e paglia e il tetto di argilla poggia sui travi ricavati dagli alberi dell’oasi. Alì, il figlio maggiore, è un ragazzo di 23 anni che in casa viene venerato come un semidio perché conosce il francese, il tedesco e l’inglese, ha un cervello vivace, raccoglie l’agata sulle montagne qui intorno per conto di un tedesco che lavora le pietre a Monaco di Baviera, ne raccoglie 20 quintali, poi fa venire qui un camion e porta il bottino a Marrakech. Mi parla con orgoglio dell’identità Berbera, dell’antichissima scrittura Tamasir: “Questo è un anno estremamente importante per la gente perché per la prima volta nella storia del Marocco nella scuola si insegnerà la lingua Tamasir e la vera storia del Marocco, non quella degli arabi scritta dagli arabi, la storia del popolo nomade che da sempre abita il Marocco” dice “il problema è che i berberi non andavano a scuola perché avevano da lavorare e gli arabi sono diventati i padroni del paese con un’ amministrazione scritta e gestita in arabo e insegnando una storia di parte, ma grazie ai berberi che hanno studiato e sono arrivati vicino al potere oggi si riscrive la storia e gli arabi sono obbligati a conoscere la nostra storia, e allora tutto cambierà“ afferma fiero.
Mi viene in mente la cena fatta un mese fa ad Anarghi con una coppia di Marocchini Arabi di Casablanca, contrariati per questa novità scolastica che secondo loro avrebbe creato solo confusione e rallentamenti nella scolarizzazione del paese.
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© 2024 Elba e Umberto
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