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Jerba, gli Ibaditi, la Sinagoga spaziale, Dragut e la torre dei teschi, i galeoni tarocchi Arriva l’alba che svela la grande affinità paesaggistica con le isole di Kerkennah, è un’isola piatta e brulla con terreni circondati da muri a secco e tante piccole palme, pero’ qui ci sono tanti olivi secolari con i tronchi larghi e contorti. Siamo più o meno al centro dell’isola ai limiti dell’abitato di El May, il sole illumina una piccola bianca moschea che si trova proprio davanti a noi circondata da grandi olivi, è una struttura tozza l’aspetto è quello di un forte, è una caratteristica dell’architettura tradizionale di Jerba qui tutto era fortificato ed improntato alla difesa verso possibili aggressioni, dato che il continente cosi’ vicino e il territorio piatto non davano garanzie naturali di protezione. La storia di Jerba è eccezionalmente varia ed interessante è ricca di storie epiche che sfumano nella leggenda. Quando i Fenici arrivarono qui intorno al settimo secolo avanti cristo trovarono diversi insediamenti, il più importante era quello dei Gerbitani sulla costa nord orientale, i Fenici costruirono un insediamento isolano sul lato sud fondando Menix dove qualche secolo più tardi i Romani costruiranno, grazie al basso fondo, un ponte per collegare Jerba con il continente. Jerba è stata anche una delle prime zone ad essere conquistata dagli arabi, ma nel mondo Islamico è famosa per essere l’Isola rifugio degli Ibaditi una setta di origine Kharigita. I Kharigiti la cui parola significa “coloro che vanno fuori a combattere la Jihad“ (la guerra santa). Gli Ibaditi costituiscono l'unico ramo oggi esistente dei Kharigiti, la corrente religiosa islamica che costituisce una "terza via" tra Sunniti e Sciiti, le cui origini risalgono ai primi tempi dell'Islam. Come gli altri Kharigiti da cui si distinguono per moderazione e ripudio della violenza, anche gli Ibaditi ritengono che il comando della comunità non spetti per obbligo a un discendente del Profeta, ma al più degno dal punto di vista religioso, a prescindere da parentela etnia o colore. Il movimento Ibadita nasce come fronte moderato all’interno del movimento Kharigita e fu fondato da Abd Allah ibn Ibad al-Tamimi, intorno al 685 a Bassora nell’attuale Iraq e grazie al suo successore Jābir ibn Zayd al-Azdi, divenne rapidamente una setta assai seguita, fu causa di cruenti scontri con gli uomini dell’allora governatore Al-Hajjāj Ibn Yūsuf, in seguito ai quali Jābir e i suoi fedeli si spostarono in Oman (unica regione dell’Arabia ancora oggi rimasta a maggioranza Ibadita). Da li’ in breve l'Ibadismo si propago’ in gran parte dell'Arabia meridionale e poi nell'Africa orientale e a Zanzibar. Ma la diffusione maggiore avvenne in Nord Africa, dove la setta riscuoteva grandi consensi per la sua apertura nei confronti delle altre etnie e la possibilità di scegliere il capo religioso all’interno della propria comunità, cosa che permetteva ai Berberi (a differenza degli Sciiti e dei Sunniti) di non farsi governare dagli Arabi, la tradizione Ibadita infatti permetteva ad ogni regione di avere un proprio Imam. Tra la metà dell’ottavo secolo e l’inizio del decimo il dominio Ibanita copriva gran parte del Magrebh ma fu rapidamente sconfitto e quasi cancellato dai Fatimidi (sempre di etnia berbera ma di credo sciita) ne rimasero solo delle piccole comunità che si rifugiarono in luoghi appartati come la regione del Mzab nel deserto Algerino, il Jebel Nafusa in Libia e l’Isola di Jerba, che sono ancora oggi le uniche comunità Ibadite presenti in Nord Africa proprio in virtù della scelta di vivere in luoghi isolati che ha permesso loro di difendersi nel corso dei secoli dalle frange Sunnite più intransigenti. Attraversiamo la campagna da stradine secondarie, ci sono tanti piccoli villaggi e tante case in costruzione che aumentano avvicinandosi alla costa, siamo nella parte sud orientale dell’Isola più o meno nella zona dove i Fenici dovrebbero aver fondato Menix, pero’ non si vede niente di evidente. si risale lungo costa in senso antiorario, il mare è una laguna, incontriamo le prime donne con i costumi tradizionali di cui mi aveva parlato con toni entusiasti Walid e poi arriviamo nella famosa zona turistica, grandi palme e lampioni, sul lato interno bar, ristoranti, noleggi e tanti cantieri di strutture ricettive, sul lato del mare una gran fila di ingressi di grossi albergoni che lasciano intravedere prati e piscine in offesa alla cronica carenza idrica dell’Isola, è come un grande viale di carceri in ghingheri totalmente separato dal resto dell’Isola, che è stato costruito davanti alla lunga spiaggia di Sidi Mahres. Vedere la costa è impossibile, è tutto cinto, stanno costruendo ancora tanto, la grande spiaggia è tutta degli alberghi. I Jerbani che io mi immaginavo come indomiti eredi della pirateria moresca hanno l’accesso interdetto alla parte più bella della costa. All’Isola noi altri Elbani si parla sempre della nostra coglionaggine nei confronti dei forestieri, pero’ non avemo permesso, a parte Ortano mare e Capo d’Arco, che la costa e le spiagge venissero interdette alla gente del posto e in particolare i Campesi hanno avuto il gran merito di rispedire al mittente il club mediteranee riappropiandosi della parte più bella della spiaggia (anche se ultimamente fra nuove concessioni, bar e punti blu c’è stato un deciso sputtanamento). La strada prosegue ormai sul lato nord fiancheggiando una laguna ricca di alghe dove ci sono tanti fenicotteri rosa e diversi tipi di aironi e anche tanta plastica in mare. Houmt Souk è il capoluogo dell’Isola, la Portoferraio di Jerba, ma niente di paragonabile come architettura. Tante cupole, case bianche di calce, porte e inferriate color celeste Ponzese, ormai è tutto in funzione del turismo con le scritte in inglese, francese, tedesco e italiano in ogni dove, ma turisti non ce ne sono o almeno non si vedono, saranno tutti nei grandi complessi perché sopra di noi arrivano in continuazione aerei provenienti dall’Europa. Ci sono tante facce diverse come sempre nei porti e questo era il principale dell’Isola, un importante scalo commerciale per inviare i prodotti africani verso l‘Europa, c’è ancora qualche vecchio fonduk che non è stato ancora trasformato in albergo o negozio, un tempo in questi edifici si fermavano le carovane con i cammelli che portavano le merci, sono strutture che ricordano gli ksour fortificati della zona di Tataouine, all’esterno una cinta di mura e dentro le stalle a piano terreno e le camere sopra e al centro il gran cortile con le preziose cisterne. Attraversiamo le piazzette del centro con i cafè tutti specializzati in spremute d’arancia che evidentemente tirano molto. Per me Jerba rimane la base da cui Barbarossa e Dragut partivano per fare le loro scorrerie all’Elba e un po’ in tutto l’Arcipelago Toscano e nel poco tempo disponibile voglio vedere se trovo qualche traccia legata all’Elba. La prestigiosa Zaouia di Sidi Zitonui è stata trasformata in museo pero’ è chiusa, quindi andiamo al castello, il Borj Ghazi Mustapa passato alla storia come la fortezza di Dragut. La piazzaforte in realtà fu costruita dagli spagnoli nel milleduecento e solo dopo alterne vicende nella prima metà del cinquecento diventa la principale base della pirateria barbaresca, quando Khayr al-Din (Barbarossa) stabilisce a Jerba il suo quartier generale. La fama della fortezza è legata alla disfatta Spagnolo-Genovese del 14 maggio 1860, i cristiani volevano impossessarsi dell’Isola e distruggere la flotta di Dragut, Kapudann (ammiraglio) della flotta Ottomana, ma furono massacrati dai “mori”. A battaglia finita Dragut fece uccidere tutti i seimila prigionieri e ne impilo’ le ossa costruendo “la torre dei teschi” nel piazzale a fianco al forte, per avvertire la fine che toccava a chi osava attaccare Jerba. La torre dei teschi rimase in piedi fino al 1848, e più o meno anche la pirateria ando’ avanti fino a quel periodo. Il forte di per se non è niente di eccezionale ma evoca storie epiche avvolte nel mistero, chissà quanti Elbani fra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo sono arrivati qui come prigionieri, quanti saranno finiti ai remi o venduti come schiavi a terra, sicuramente i più si saranno convertiti all’islam e avranno ripreso la via del mare e per le donne, magari per le più belle e scaltre, la sciagura della cattura si sarà trasformata in un opportunità di vita migliore. La giornata è grigia ma il vento sembra in procinto di ripulire il cielo, nel mare stagnante le feluche si appoggiano sul fondo per la bassa marea, mentre aironi e garzette beccano il fondo, a riva gli uomini con i cappelli di paglia chiacchierano appoggiati a cataste di gourgoulette. Entriamo nel porto dove è ormeggiata una grande finta flotta pirata in attesa di essere abbordata dai turisti degli albergoni, i galeoni posticci se ne stanno ormeggiati con decine di "black jack" (che poi erano il simbolo della pirateria europea e “caraibica”) che sventolano dai pennoni. Faccio un calcolo veloce per difetto, per riempire tutte queste barche contemporaneamente ci vogliono almeno quattromila persone, credo che in estate ‘sto posto sia un vero inferno, nonostante la pacchianaggine la flottiglia fa un certo effetto ma è tutto finto e fatto male, gli unici cannoni veri sono pitturati di bianco e di rosso e sono usati come bitte. Rientriamo verso il centro di Houmt Souk che è un paese carino anche se è un bazar per turisti, è tutto misurato anche le moschee sono piccole e non sovrastano tutto. C’è un’atmosfera tranquilla di paese di mare alla fine della stagione turistica quando la gente si riappropria dei propri spazi, le vie del centro sono sgombre, ma dal tipo di strutture si capisce che qui i turisti ci arrivano prevalentemente intruppati, passano, comprano e ritornano nel recinto dorato, come un pascolo di pecore, e mentre lo penso passa un gruppo con tanto di guida con la paletta. Mi piace osservare gli anziani impegnati in interminabili partite di back gammon, nei loro tratti somatici cosi’ diversi l’uno dall’altro c’è tutta la genia del Mediterraneo. Il posto più divertente e originale di Houmt Souk è pero’ il mercato del pesce, in pratica è un asta pubblica che si svolge dentro un padiglione del souk, i proprietari della licenza di venditori stanno seduti su un seggiolone alto un metro e mezzo posto alle spalle del banco di vendita e gestiscono l’asta a cenni, mentre i collaboratori espongono e consegnano i pesci, ci sono tre banchi e si contendono l’attenzione del pubblico che in maggior parte è più interessato a osservare le trattative che a comprare. Ci spostiamo verso l’interno alla ricerca della Jerba meno conosciuta, a sette chilometri dal capoluogo c’è il villaggio di Hara Seghira (piccolo ghetto) dove risiede la comunità ebraica dell’Isola, appena fuori dall’abitato c’è la famosa Sinagoga di El- Ghirba che vorrei visitare, purtroppo non è possibile perché le visite sono momentaneamete sospese. Più che un luogo di culto sembra una base militare, con i blocchi di cemento davanti all’ingresso, le guardie armate e la recinzione intorno, le misure di sicurezza sono altissime, anche perché qui nell’aprile del 2002 ci fu un attentato kamikaze che provoco’ diciannove morti, attentato che fu profondamente condannato dalla comunità ibadita di Jerba che, congiuntamente agli ebrei isolani, dichiaro’ che gli attentatori erano estranei alla gente dell’Isola. La storia di questa Sinagoga considerata la più antica del Nord Africa, sembra risalire al 586 avanti cristo a seguito della distruzione di Gerusalemme e del suo tempio nel 587 ad opera del leggendario re Babilonese Nabucodonosor II. Una piccola parte della popolazione di Gerusalemme riusci’ a sfuggire alla deportazione imposta da Nabucodonosor e raggiunta Jerba edifico’ la Sinagoga nel punto dove cadde una pietra dal cielo e i lavori furono diretti da una misteriosa donna apparsa dal nulla. La storia leggendaria di questo luogo prosegue con una profezia che afferma che quando l’ultimo ebreo lascerà l’isola le chiavi della Sinagoga saliranno in cielo. Che sia andata cosi’ o come altri suppongono che la comunità sia stata fondata nel 71 dopo cristo a seguito del saccheggio Romano di Gerusalemme, rimane comunque la più antica comunità ebraica del Nord Africa. La confraternita vide crescere il suo numero anche per l’apporto di berberi convertitisi all’Ebraismo e di profughi provenienti nel corso dei secoli da Spagna Italia e Palestina, rimanendo sempre una comunità rigida e fedele ai precetti ebraici. Oggi a Jerba gli ebrei sono solo poche centinaia, la maggior parte degli Ebrei isolani si è spostata a seguito delle guerre arabo israeilane del 56 e del 67 nella nuova nazione giudaica. La sinagoga di El – Griba rimane comunque un simbolo importante per gli ebrei ed è meta di pellegrinaggi anche in onore di Talmud bar Yashai un rabbino che oltre quattro secoli fa insegnava in questo luogo la comprensione del Talmut la cosidetta Torah orale. Il Talmut a differenza della Torah è ritenuto testo sacro solo dagli ebrei, rivelato a Mosè è stato trasmesso a voce per secoli fino alla conquista romana, quando fu messo per iscritto per paura che venisse disperso. Il Talmut è un complesso codice sui significati e le applicazioni della Torah che secondo gli ebrei non può essere applicata senza lo studio del Talmut. Lasciamo il misterioso luogo sacro degli ebrei con le sue seriose guardie armate vestite stile blues brothers e ci spostiamo ancora verso sud, le stradine interne sono fiancheggiate da muri a secco e non si vede granché, ogni tanto si incontra qualche carretto trainato da ciuchi con sopra i jerbatani vestiti con i costumi tipici. Arrivati a Guellala ci fermiamo adescati da un grigliarolo sulla via che arroste saraghi e poi andiamo sul mare ad El Kantara dove è stata costruita una strada asfaltata che collega Jerba con la costa, proprio sopra l’antica strada romana. I ponti che collegano le isole con il continente per me sono degli atti di profanazione, con queste propaggini l’Isola non è più Isola e perde la sua essenza massima, qui pero’ è anche un osceno scempio alla storia con la strada bitumata che ha cancellato per sempre l’antica via costruita un paio di millenni fa dai romani. Qui Thorgoud Rais detto Dragut nel millecinquecentocinquantuno si produsse in una delle sue imprese più leggendarie, quando si trovo’ accerchiato dalla grande flotta ispanico-genovese comandata dal suo più grande rivale di sempre, il mitico Andrea Doria che all’epoca aveva ottantacinque anni. Doria con la sua flotta costrinse gli armi capitanati da Dragut all’interno del Golfo di Bou Grad chiuso ad oriente dalla strada romana, ormai bastava attendere il giorno per sferrare l’attacco decisivo, ma durante la notte Dragut fece aprire un varco nell’antica strada e traino’ la flotta in mare aperto sfuggendo all’agguato della flotta imperiale. Oggi è una giornata strana, sarà il cielo ovattato che lascia filtrare una luce onirica o le tante storie e leggende legate a questa terra, ma i pensieri partono continuamente e si arzigogolano in mille congetture. Il ponte è pero’ un ottimo punto per osservare gli aironi pescare, guardando verso est si vede una struttura che si specchia nel mare, da qui sembra staccato dall’isola ma è un’illusione ottica, dovrebbe essere il Borj Kastil (nome deprimente degno del nostro Monte Cima del Monte) un’antica fortezza costruita in origine dai Romani. Ritornati sull’isola risaliamo la costa est , ci sono un po’ di kite surf ma il poco vento non permette grandi evoluzioni, per avvicinarsi al “castello in mezzo al mare” bisogna attraversare una distesa piatta e salmastra che con l’alta marea viene in gran parte sommersa, ne faccio qualche chilometro in macchina e poi si prosegue a piedi, fra piccole dune di sabbia e canali salmastri, ritroviamo anche il salycorn l’erba morbida che ricopriva l’isolotto di Grimdi nell’arcipelago di Kerkennah. Il castello abbandonato giace sull’ultimo lembo isolano circondato da piccole dune di sabbia e posidonia, anche questo è un luogo che evoca leggende come quella dei fiori di Loto, chissà se come si dice, Jerba sia veramente la terra dei Lotofagi, l’isola dei mangiatori di fiori di loto cantata nell’Odissea, dove Omero racconta che Ulisse sosto’ durante il suo straordinario e tormentato viaggio di ritorno verso Itaca. Disobbedendo ad Ulisse i suoi compagni d’avventura mangiarono i fiori di loto donati loro dagli abitanti dell’isola e poi storditi e senza memoria non volevano più saperne di ripartire per tornare a Itaca. Dei fiori di loto s’è persa ogni traccia, magari non sono mai esistiti, forse sono stati estirpati per evitare l’oblio del popolo o magari i lotofagi erano cosi’ assuefatti che i fiori sognerini se li sono mangiati tutti, sta di fatto che la storia dell’Isola dei mangiatori di Loto continua ad affascinare. La marea comincia a salire ed è bene rientrare verso la macchina prima che il mare la circondi, guidare su questa pianura salmastra è divertente, sembra di guidare dentro il mare, prima di riprendere terra incontriamo un grande rapace, dalle dimensioni credo sia un aquila, appena possibile faro’ vedere le foto ad un esperto. Si sta avvicinando il tramonto, rientro nell’interno, lungo le vie ora c’è un gran movimento soptrattutto di donne, tutte vestite con i costumi tipici della comunità Ibadita, assomigliano a quelli di Kerkennah ma sono più eleganti. Fra gli olivi vedo le cupole della moschea sotterranea di Cedouikech che unisce originilatà delle strutture troglodite con il fascino mistico del luogo di culto, è una zona di Menzel e case scavate nel terreno, le abitazioni tutte candide di calce e circondate da olivi secolari danno un senso di sacralità a tutto l‘insieme che, per quanto ermetico e chiuso su se stesso, si rileva armonico. Passa un gruppetto di giovani donne vestite di bianco con i consueti veli bianchi a righe rosse, camminano con portamento aristocratico, sembrano sacerdotesse di un tempo arcaico. Siamo a una quindicina di chilometri dalla zona turistica ma questo sembra un mondo refrattario a tutte le influenze esterne e totalmente disinteressato al luccichio effimero dei casermoni costieri, nei vestiti, nei gesti e nei volti si percepisce il valore di una tradizione cosi’ rigida e radicata che si tramanda e si rinnova nella ritualità e nei costumi e che trasmette fiera il suo spessore e il proprio distacco senza che ci sia bisogno di essere esternato o raccontato. Negli sguardi di questa gente non c’è la rabbia dei sottoposti, ma la serenità superiore dei tradizionalisti per i quali il fascino effimero dei facili guadagni, ieri nella pirateria oggi nel turismo, è solo uno sterile miraggio senza spessore, fragile e passeggero, un urlo senza fiato che non riesce nemmeno a sfiorare il fiero e sereno sapere ormai genetico che si tramanda e si rinnova da secoli e secoli, che trova le sua fondamenta nella lingua Amazigh e ha le sue radici nel passato arcaico dell’Isola. Valori profondi ed elevati che hanno permesso la millenaria convivenza pacifica fra la comunità ebraica e quella Ibanita. E’ ormai il tramonto, il sole scende dietro la bella moschea di Guellala a pochi metri dal mare affacciata sul golfo Bou Grara, nel cielo vermiglio del tramonto gli uccelli volano in direzione della terra dei Garamanti dove inschallah andremo domani. |
© 2024 Elba e Umberto
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