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Kaf Ejoul

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Ghat

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La montagna dei fantasmi e il pianeta Acacus
Mi sveglio con il primo chiarore, è freddo ma secco il telo della tenda è asciutto, la sabbia è fredda ma già spolvera sotto i piedi, salgo sulle prime dune per fotografare il sole che sorge da dietro l’Acacus, i corvi che nei posti più belli non mancano mai mi osservano dalla duna più alta. Arriva il sole e la sterminata e informe distesa di sabbia prende immediatamente forma tingendosi di rosso e di arancio, è un mare di onde giganti e immobile che si perde infinito a ovest in territorio algerino.
Ritorniamo sulla pista principale per raggiungere Ghat, lentamene davanti a noi si inizia a definire la sagoma scura di Kaf Ejoul la montagna dei fantasmi, man mano che ci avviciniamo  la forma diventa sempre più complessa e somigliante a una gigantesca cattedrale gotica, poi la calura che comincia a far salire la foschia aggiunge un ulteriore tocco mistico ai picchi erosi.
Incontriamo un palmeto e una zona con un po’ di vegetazione che cresce grazie ai “foggara” canali sotterranei scavati dai Garamanti per portare in superficie le acque del sottosuolo, che mi riportano alla mente i canali nel deserto peruviano scavati dai Nazca che costruivano acquedotti sotterranei portando l’acqua originata dai nevai dei picchi andini nel deserto e poi fino al mare.
Ci fermiamo  vicino a una carcassa di dromedario, per i Tuareg Kaf Ejoul è un posto da evitare, è
il luogo dove si danno appuntamento i “Djinn” gli spiriti immortali dalle sembianze umane che fra i picchi arcigni della montagna si ritrovano tutte le notti proveniendo da luoghi e epoche lontane. I  “Djinn” si dice che abbiano barba e capelli rossi (questa credenza ha portato i tuareg per secoli ad evitare il contatto con i rossicci europei) nella notte si sente il suono dei tamburi e il canto ammaliante di donne che festeggiano, ma nessuno di quelli che si è avicinato è mai tornato  indietro, chiedo a Yaya e Haroun di raccontarmi della montagna, non si sbilanciano però assolutamente non ci vogliono andare e non vogliono nemmeno che ci si vada noi, Yaya racconta “una volta io sentito musica la notte e andato via, io paura non sai cosa c’è, ma c’è qualcosa tutti lo sanno e nessuno va”. Yaya assolutamente non ne vuole sapere, ma Haroun che è giovane e ha gli occhi scintillanti sarebbe tentato di salire con me però il capo è Yaya e comunque va bene così,
la carcassa di dromedario a bordo strada sembra ammonire sul non forzare le credenze. Il cielo diventa sempre più tremolante e vaporoso e le figure disegnate dall’erosione che sui picchi scuri di Kaf Ejoul sembrano acquistare movimento, è un paesaggio maestoso e inquietante dove non riesco a percepire dimensioni e distanze, e il reale si miscela con il fantastico è difficile mantere la mente nei binari della razionalità e se nella montagna delle adunanze dei Djinn si nascondesse una porta spazio temporale? Un passaggio verso la quarta dimensione e i misteriosi e terribili spettri dalle chiome rosse potrebbero essere eruditi viaggiatori nel tempo costretti a custodire con spietato rigore questo immane potere troppo grande per essere divulgato alla stupidità umana.
Il rettilineo si dissolve nell’ennesimo miraggio, ma questa volte non si perde nell’aridità, cresce in una grande macchia verde, è un oasi siamo arrivati a Ghat.
Ghat è un villaggio di confine siamo sulla frontiera Algerina e a un centinaio di chilometri dalla frontiera del Niger, attualmente con Ubari è il più importante insediamento fisso dei Tuareg. Ghat fu fondata dai Garamanti era una delle oasi fortificate più importanti del loro regno perché proteggeva il fianco meridionale di Garama (la Capitale) la medina attuale risale in gran parte al  1200 ma qui c’era un insediamento importante gia nel primo secolo avanti cristo. Al tempo delle grandi carovane transahariane era una città ricca e importante, anche se non come Ghadames, in posizione strategica per raggiungere le oasi del Niger e poi proseguire nel Mali per la mitica Timbouctu, Ghat si avvaleva della protezione delle le tribù guerriere tuareg alle quali i mercanti e i carovanieri pagavano il pizzo per garantire l’incolumità dei convogli. L’accordo funzionava bene tanto che la zona “protetta” fra Ghat e il Niger era chiamata dai tuareg “terra di pace”. Gli uomini blu erano i caschi blu del tempo, sembra un paragone irriverente e forse offensivo ma le camionette armate dei caschi blu visti lo scorso anno al confine tra il Marocco e la Mauritania a supervisionare sulla questione dei Saharawi, mi sembravano semplicemente corpi di militari professionisti (volontari è più elegante di mercenari ma secondo me anche più improprio) ingaggiati per difendere la pace. Ghat era governata da un sultano la cui discendenza si tramandava come da tradizione tuareg da linea femminile, il sultanato mantenne una grande autonomia che gli permise di commerciare senza problemi con gli stati vicini, questa situazione di “stabilità” si interruppe nel milleottocentosettantacinque quando i Turchi occuparono il Sahara e l’indipendenza di Ghat finì, fatto che unito all’abolizione della schiavitù avvenuta pochi anni prima ne sancì il declino.
L’insediamento fu poi amministrato dagli italiani durante il periodo coloniale e subito dopo dai francesi. Arrivati alla porta della medina Yaya ci lascia e va a fare benzina, lui qui non sarebbe venuto, per lui non ne valeva la pena di allugare di duecentocinquanta chilometri per venire qui e poi i tipi che gestiscono la medina non gli stanno simpatici “non c’è niente da vedere solo souvenir per turisti”. Ormai il sole è alto e abbagliante avvolge tutto, caldo secco, polvere, silenzio, mosche e contrasti netti di colore ma su tutto una luce forte acceccante che ti sfida ad attraversarla, è la luce dell’Africa. All’ombra di una tettoia di foglie di palme un gruppetto di uomini attende i visitatori,ci osservano in silenzio e ci offrono un the, si vede che non sono arabi, si paga il biglietto e il custode della medina ci indica la via. La porta d’ingresso è molto piccola è un arco che si apre nella muratura di paglia e fango, i vicoli dal fondo di sabbia sono stretti e ci proteggono con la loro ombra, la maggior parte delle case sono abbandonate da quando gli abitanti originari di Ghat si sono trasferiti nel nuovo insediamento poco fuori le mura, il solito processo di modernizzazione voluto da Gheddafi. Solo qualcuno è rimasto perché non ha voluto rinunciare al confortevole fresco delle case della medina, oggi però specialmente nella parte bassa della città vecchia ci sono diverse case abitate che sono state occupate da immigrati provenienti dal Niger. Una rampa di scale porta a una piazza rialzata, questo era il cuore della città dove si radunava la gente e venivano pronunciati i discorsi publici. Una scalinata ci porta sulla roccia che domina la medina dove si trova il forte italiano, rispetto alla medina la roccaforte in pietra ha un aspetto imponente con le massicce torri rotonde che ne potenziano le difese sui fianchi, dentro è una caserma, con questo clima secco tutto si conserva immutato e anche il forte sembra essere appena stato abbandonato, dalle sue mura si vede tutta la medina, il souk e anche l’oasi e il villaggio moderno. Scendendo incontriamo un anziano “buongiorno italiano” quando era un bimbo qui c’erano i soldati italiani e lui ha imparato un po’ di italiano, mi dice che qui gli italiani si sono comportati bene a differenza dei francesi che sono arrivati dopo, ha rughe profonde e occhi larghi e sognanti mi piacerebbe fargli un ritratto ma è sempre imbarazzante fare le foto alle persone con cui scambi emozioni, a volte sembra di sminuire il valore degli sguardi e delle parole. Passiamo davanti alla casa di un gigante arrivato dal Niger e poi usciamo dalla città fortificata. Yaya ci sta aspettando, partiamo subito non ha ancora fatto benzina perché la fila era troppo grande, per quanto possa sembrare strano fare benzina da queste parti è complicato perché i distributori sono pochi e non sempre c’è il carburante e spesso la fila è composta da decine di macchine e durante l’attesa il distributore diventa una specie di piazza.
Fatta benzina si torna verso Nord, pranzo sotto le acacie, poi sosta a Al-Aweinat per comprare l’olio per il motore del vecchio Land Cruiser e si parte verso il mitico deserto delle pitture rupesrti.
Insieme al Murzuq e al deserto bianco, l’Acacus era uno dei luoghi del Sahara che sognavo di vedere quando all’Elba  mi immaginavo e sbozzavo il percorso del giro del mondo. Siamo dentro, è come essere in un altro pianeta, racchiuso fra imponenti montagne nere l’Acacus è diverso da tutto quello visto prima, un deserto di sabbia dorata e basalti scuri erosi nelle forme più incredibili che si perdono in un paesaggio indefinito, rarefatto e nebuloso, tutto sembra evaporare per il gran caldo.
Ci sono delle impronte di fuoristrada, ma Yaya è schivo e prende un'altra direzione e questo mi piace, la magia di un luogo è fatta anche dalle persone e la fortuna ha voluto che l’Acucus lo vedessimo insieme a Yaya il silenzioso. Attraversiamo uno dei tanti Wadi della zona, il calore del sole nebulizza i contorni delle mille forme cangianti che ci scorrono intorno, un mondo di roccia nera e sabbia ocra, i basalti che galleggiano nel riverbero della sabbia come piramidi e isole, il “pianeta acacus” è un “inferno paradiso”. La mente non ce la fa a stare ai fatti, troppi stimoli di figure indefinibili e mutevoli e in un caleidoscopio di suggestioni in controluce diventano faraoni, guerrieri, odalische, sceicchi e draghi. Attraversiamo un mare di piccole dune compatte e poi ci fermiamo ad ammirare il grande dito di roccia, vediamo anche le prime incisioni, sono iscrizioni in carattere Tifinagt la lingua dei tuareg (i cui caratteri sono molto simili al Tamazigh) e dovrebbero risalire a tremila anni fa. L’Acacus è il territorio Tuareg per eccelenza, vivono qui da sempre con i loro animali spostandosi costantemente per gestire in maniera oculata le poche risorse di acqua e vegetazione che questo ambiente offre, oggi si sono quasi tutti trasferiti a Ghat diventando stanziali ma qualche famiglia continua a vivere qui nella maniera tradizionale, schivi e refrattari ai cambiamenti. Vediamo le case di un nucleo familiare, sono capanne di paglia appoggiate sotto una grande parete scura, mi immaginavo di trovarle ai margini della foresta ma non nel deserto le capanne di paglia, ma come dice Yaya “c’è acqua, biggolo bozzo per gente di acacus e erba basta per fai casa” gli chiedo se possiamo andare a vedere ma mi dice che “loro piace tranquilli” “tuareg no arab” aggiunge Haroun e di nuovo Yaya a chiudere “IMASHAGHEN” altro modo per definire i tuareg che significa nobili e liberi a significare che se uno sceglie questo stile di vita è per avere la tranquillità e la libertà che svanirebbero avendo intorno estranei in cerca di souvenir.
In alcuni punti c’è un po’ di vegetazione, acacie e strani alberi che fanno un frutto tondo tipo una zucca, è un albero che non ha nome, non se lo merita perché non è buono “nemmeno per cammello”. La giornata è volata andiamo verso le montagne più alte e montiamo il campo in un posto fantastico. Salgo da una duna appoggiata al monte per raggiungere un picco che regala un panorama a cui nessun superlativo può rendere giustizia, il sole sta ponendo mentre sale la luna piena, intorno a me un mare di forme e colori, isole e piramidi nere e perfette si ergono dal lago di sabbia mentre il disco gigante dell’astro infuocato si cala dietro il crinale nero che chiude un orizzonte circolare. Devo cambiare l’uso degli aggettivi, da oggi sarò molto più parco nell’uso dei superlativi, ma non per questo tramonto bellissimo. Serata intorno al fuoco illuminati dalla luna tonda fra racconti e indovinelli spesso disegnati nella sabbia, è una notte di stelle cadenti anche loro qui sembrano più grandi. Prima di entrare in tenda  mi godo il privilegio immenso di una camminata notturna nelle sabbie del Pianeta Acacus.