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La “Cattedrale” e i meravigliosi picchi bianchi del “Deserto Gotico” Ci svegliamo con la prima luce che precede un’alba ovattata dalla foschia, intorno a noi le tracce di un fenec che ci è venuto a trovare durante la notte, pochi minuti e il sole esplode la sua potenza, fa già caldo. Lasciamo quello che non serve nella tenda e ci avviamo in direzione del Deserto Bianco Occidentale, i cui picchi elevati e maestosi si stagliano in direzione delle Libia, passando dalla zona più famosa dei Mushroom fino a raggiungere l’asfalto e passare oltre. Avanzo tenendo come riferimento il picco più alto, da questo lato il deserto è prevalentemente roccioso, si cammina su un pavimento di blocchi di compatto calcare scuro che si alternano a quelli più teneri e canditi. In una ventina di minuti raggiungiamo il primo wadi secco, si scende da uno scivolo bianco nel fiume asciutto il cui letto è coperto di sabbia, qui dentro i picchi scompaiono e si vede solo questa larga pista sabbiosa e le sue alte sponde bianche, ci sono le tracce del passaggio di un dromedario, un tempo questi wadi erano le vie privilegiate dei predoni perché consentivano un’andatura sostenuta agli animali e allo stesso tempo li nascondevano alla vista di eventuali vedette, era comunque assai rischioso perché da qui non vedi niente e in caso di imboscata non c’è scampo. Ritornati sul plateau bianco, ancora piastroni di calcare ora circondati da sabbia di arenaria e da qualche stentata traccia di vegetazione, la depressione sprofonda incontrando un nuovo wadi, superato il secondo canale la “cattedrale bianca” comincia ad avere una forma più definita e ricorda veramente un’architettura gotica. Saliamo sopra un “isolotto” bianco che si affaccia sul mare di sabbia gialla che precede il grande picco, finalmente è a tiro, da quando l’ho visto la prima volta che siamo entrati nel Sahara Beida è diventato un obbiettivo, fra noi e il gigante bianco solo una distesa di sabbia gialla. Avvicinandosi al picco si incontra una distesa di funghi che cinge il massiccio principale, sembrano sculture messe lì a protezione del gigante bianco e parte dello stesso progetto architettonico, più in alto già sul massiccio principale, c’è una grande scultura naturale a forma di testa umana che sembra osservare e proteggere il “grande edificio” come fa la grande Sfinge con la Piramide di Chefren. Il paesaggio è da sogno, per le forme, i contrasti di colore e per l’assenza di rumori di fondo che ci permette di ascoltare il suono flebile prodotto dal rotolare dei granelli di arenaria, il vento scava la sabbia intorno a queste protuberanze di calcare, creando delle buche in cui si accumulano i piccoli detriti vegetali che attraversano il deserto. Girandogli intorno sul lato est il massiccio bianco svela un secondo picco rimasto finora nascosto, ora l’architettura della cattedrale è veramente completa e le sagome delle due torri appaiono massicce e squadrate come due grattacieli, tutt’intorno qualche picco isolato che anticipa una cordigliera di guglie giganti, tutte diverse anche se simili, un paesaggio che ricorda le grandi vette Alpine delle Dolomiti e anche i mitici picchi Andini della zona di El Chalten, il CerroTorre, Fitz Roy, tutto è maestoso, candito e rivolto verso l’alto in questo monumentale paesaggio gotico di montagne senza nome. Come tutti i deserti anche il “bianco occidentale” ti fa sentire polvere, microscopico nell’immensità ma questo deserto roccioso regala emozioni diverse dal “mare di sabbia” o dai “campi di funghi”: le grandi dune ti spiazzano perché sono un’immensità fatta di microscopici granelli, essenza stessa del divenire in costante movimento, inesorabile, imprevedibile e invincibile, mentre questi blocchi enormi dalle forme potenti li percepisci come colossi fragili, hanno sculture poderose ma crepate, le cui forme consumate sono state decise proprio dalla piccola sabbia, i colossi aristocratici hanno il destino segnato, sono destinati a scomparire perché non possono lottare contro l’azione combinata e costante di un esercito di miliardi di granelli di arenaria e basalto, un invincibile esercito di pulci plebee decide le forme dei giganti e già ne sentenzia il futuro crollo. Queste architetture decise dalla sabbia e dal vento sembrano uscite da un progetto prestabilito, da un disegno concepito da una mente sovrannaturale. Anche i funghi ti raccontano una storia diversa, loro ti confondono e ti deridono perché le loro forme surreali miscelano il sogno con il reale, ti spalancano un universo infinito ma lo scavano dentro di te, mentre questi picchi imponenti e arditi mi spiazzano e mi stupiscono ma rimangono esterni a me, il loro disegno geometrico, colossale e ripetitivo sembra frutto di un disegno razionale nato per costruire una monumentale metropoli di pietra bianca, progettato e scolpito da una mente sovrannaturale che ha concepito queste architetture e gestito le forze della natura per realizzarle, qui si respira la meraviglia di un deserto monumento che più che al delirio dei pensieri ti porta alla contemplazione della potenza della natura . Cominciamo a salire sull’ormai battezzata “Cattedrale” anticipata da colate sciolte di calcare che scendono giù dai fianchi del massiccio come immani sculture dalle forme sinuose e plastiche, come immensi e candidi veli di sposa pietrificati da qualche sortilegio mentre sventolavano. Ormai siamo sotto le guglie, si cammina dentro il calcare precipitato dai fianchi dei torrioni, in gran parte la roccia si è ormai trasformata in una polvere fine come il talco, ovunque sbucano grandi cristalli spesso in forma di spettacolari rose del deserto albine. Le due grandi torri sono segnate da impressionanti fratture dovute principalmente allo shock termico che questi colossi devono sopportare, sembrano opere di giganteschi scalpellini, che io mi immagino come polifemi con subbia e mazzolo a dare forma a queste guglie a volte obelisco, a volte piramide, intorno a ogni “opera” gli scarti della lavorazione, risulta difficile immaginare che tutto questo un centinaio di milioni di anni fa era sedimento sul fondo del mare. Si sale fino alla base della torre che si è rivelata nel finale, mentre si cammina fra i due torrioni si ha la sensazione di camminare sul tetto di un grande e immacolato duomo, mi viene da pensare che questa mastodontica scultura di calcare sia proprio il mitico palazzo che i nomadi del deserto avevano eletto regale dimora del potente Re Higgin, il gran signore padrone del Sahara Beida. Qui era la porta per entrare in Egitto per le carovane Tuareg provenienti dalla Libia, provo ad immaginarmi l’emozione di un giovane carovaniere Tuareg quando per la prima volta si trovava ad attraversare il Sahara Beida, dove secondo le leggende viveva una misteriosa e potente tribù di spettri al cui comando vi era l’immortale Higgin, un Dio fantasma dotato di poteri straordinari. Spesso per evitare la calura vi transitavano di notte sfruttando anche il potere riflettente di queste pareti bianche, sicuramente doveva essere un momento di grande emozione e suggestione e questi picchi giganteschi e geometrici dovevano sembrare ai carovanieri gli edifici di una città monumentale abitata da divinità. Da qui in cima si domina il Deserto Bianco, grande è la meraviglia di queste montagne candide che si perdono verso la Libia, nonostante la luce ormai accecante tenda ad appiattire tutto. Ci fermiamo un po’ all’ombra dell’arco a due fori, la grande testa a guardia del palazzo da qui è soltanto un pulpito da scalare, certo che declamare da qui qualsiasi cosa sapendo le sembianze che ha questa roccia dal basso, avrebbe fatto sicuramente un grande effetto e mi viene da pensare che questi fantasmi potenti e leggendari fossero in realtà degli istrioni sahariani che si divertivano a suggestionare chi passava da qui. Il tempo sta cambiando velocemente, il vento sta aumentando e si sta alzando da ovest una nuvola di polvere bianca, bisogna andare, scendiamo dal lato sud velocemente dalle ripide pareti ricoperte di polvere bianca che rendono facile e divertente la discesa; centinaia di conchiglie, delle strane bolle di roccia scura che escono dal calcare più compatto, la catterale da qui è diventata una grande e slanciata torre. Si cammina nella cappa alzata dal vento che sta diventano sempre più forte, è un vantaggio per la temperatura però non si vede niente, questo è un percorso semplice e nelle zone sabbiose dentro gli wadi si vedono ancora le nostre tracce, ma sono condizioni in cui perdere l’orientamento può essere facile, voltandosi è solo una nuvola bianca. Arrivati alla strada, attraverso per l’ennesima volta la zona dei funghi e vado a smontare la tenda che trovo rovesciata dal vento e poi ritorno da Serena che mi sta aspettano sulla via. Questa volta l’attesa è abbastanza lunga e i pochi mezzi che passano tirano a dritto, finalmente si ferma una macchina, è il tedesco dell’orsacchiotto, stavolta è da solo, ieri è tornato al Cairo ha noleggiato una macchina e stamani è partito dalla capitale per raggiungere Farafra, sembra un'altra persona rispetto all’alienato passeggero di ieri, chiacchera ed è di buon umore, ci scende al distributore e poi si va a sistemare all’Hotel del Faraone. Si ritorna al fonduk per lasciare i bagagli e poi si va a vedere la famosa fonte magica di Farafra, orgoglio dell’oasi da cui sgorga, a quanto dicono, acqua fresca in estate e calda in inverno, ora è sicuramente calda. Dopo una partitina a pallone con i bimbi del villaggio, si ritorna al ristorante di Hssein, dove lavora anche il figlio Hammed che ci racconta dei malesseri di Farafra, del suo desiderio di sposare una donna occidentale e della droga che sta alienando tutti i giovani egiziani, anche quelli che vivono nelle piccole oasi come Farafra, passiamo una serata a conversare e a raccogliere informazioni, poi ci salutiamo, domani si parte la prossima oasi sarà Dakhla. {youtube}ue6CLg0dFf8{/youtube} |
© 2024 Elba e Umberto
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