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Laghi e Sorgenti fra Siwani e Beduini pensando a Cambise e al kayak
All’alba dal palmeto sorge un sole infuocato e le garzette s’involano verso il lago. Anche stamani fa freddo ma non c’è vento, ci troviamo in piazza con Roxy (che in realtà come quasi tutti si chiama Mohammed) un ragazzo con cui abbiamo concordato un giro in motocarro per raggiungere i villaggi di Zaytun e Ain Safi. Sono le sette quando si parte, il triciclo di fabbricazione cinese accusa la temperatura bassa e c’ha messo un po’ prima di mettersi in moto, si attraversa il villaggio mentre i bimbi in divisa si preparano per andare a scuola e poi si passa dalla strada rialzata che divide la laguna di Aghurmi dal lago di Zaytun, che visto dal basso non ha confini definiti e sembra un mare. La strada costeggia il lato nord del bacino in direzione est e dopo pochi minuti ci si ferma alla prima pozza di acqua dolce Ain Qurayshat, che si trova proprio al confine con la laguna salata, la vasca contornata da palme e alimentata da una sorgente tiepida è bella, profonda e isolata, si prosegue per quattro o cinque chilometri e si arriva alla famosa sorgente di Abu Shuruf considerata dai Siwani quella con l’acqua più pulita. È più grande dell’altra e anche questa è tiepida, al suo interno ci sono centinaia di pesci, i più grandi sono lunghi una quindicina di centimetri, però il contorno non è un gran che, a pochi metri dalla sorgente c’è uno stabilimento per l’imbottigliamento dell’acqua che con i suoi pozzi ha fatto seccare tutte le palme qui intorno. Mototopo Roxy cerca una sorgente a suo dire bellissima, ma nonostante le informazioni chieste a un paio di contadini, sbaglia strada più volte e comincia ad agitarsi, da buon Siwano non ama i grandi spostamenti e da quando abbiamo lasciato la sorgente di Abu Shuruf si sente un po’ spaesato, la sensazione è che sia una delle prime volte che oltrepassa la famosa vasca. Per noi in realtà è una fortuna perché sbagliando via si vede di più e poi gironzolando finiamo in un tecnologico cantiere agricolo ai margini del deserto dove stanno piantando gli olivi nella sabbia grazie all’installazione di un impianto a goccia che si alimenta da un pozzo, fa un certo effetto vedere questi sottili tubi di polietilene che si perdono nel deserto con a fianco le piantine di olivo e tutt’intorno solo sabbia e polvere.
Passiamo davanti all’insediamento beduino di Ain Safi per poi arrivare dopo qualche chilometro al villaggio abbandonato di Zaytun. La zona del paese è totalmente spoglia di vegetazione ed è circondata solo dall’aridità del deserto. L’insediamento è costruito con il solito impasto di sale e fango, all’interno più o meno al centro c’è un interessante e misterioso tempio in pietra a pianta rettangolare, probabilmente risalente al periodo Faraonico, l’edificio si è ben mantenuto e conserva completamente la copertura, all’interno è annerito e si capisce bene che in periodi recenti è stato usato come abitazione. Tutt’intorno al tempio il villaggio si sta rapidamente sgretolando e soltanto pochi tetti che sono fatti con cannicciati ricoperti di fango, sono rimasti a coprire i tronchi di palma e i cannicci penzolanti creano degli affascinanti giochi di ombre nelle mura sgretolate. Sparse per le case ci sono tante tracce di vita quotidiana, dalle  piccole macine a mano a un frantoio, che fanno pensare ad un abbandono piuttosto recente, ovunque nelle abitazioni si aprono grandi crepe, uno degli edifici più suggestivi che probabilmente era la  moschea, è un grande stanzone con il tetto crollato che conserva dei grandi travi di tronco di palma poggianti su robuste colonne poste all’interno e nel fianco di una parete il rudere ha una piccola abside completamente staccata dal resto della muratura.
Ritorniamo da Roxy che ci aspettava sulla via e si prosegue lungo una pista per paio di chilometri arrivando in una grande necropoli dentro il deserto, è un sito molto esteso che dovrebbe risalire al periodo Romano, ci sono centinaia di tombe alcune hanno ingressi importanti con architravi lavorati e all’interno si sviluppano con più stanze, dentro ci sono decine di scheletri e anche qui come nella necropoli vicino al lago di Siwa, molti scheletri sono praticamente integri. La sabbia ha ricoperto quasi tutto ma si capisce bene che questa era una collina, intorno affiorano anche resti di murature importanti, forse dei templi. Ancora una grande necropoli a testimoniare che un tempo questa zona era molto popolata, poi qualcosa di grave deve essere successo, guerre o epidemie o più facilmente le condizioni ambientali si sono modificate velocemente riducendo le risorse idriche, guardando la grande desolazione che ci circonda rimane difficile immaginare grandi insediamenti umani nel passato. La desertificazione è un processo assai veloce e in queste settimane Siwane tante cose ci hanno fatto capire che l’azione dell’uomo, anche quella apparentemente più marginale, può incidere in maniera profonda sui delicati equilibri idrici di questo ambiente, rendendo sterili e inabitabili aree fertili, ma anche come abbiamo visto poco fa rendere fertili zone aride. Sicuramente le dinamiche del pianeta, così delicate e collegate fra di loro, in questi ambienti estremi si leggono meglio e questi luoghi aiutano a ragionare in maniera globale valutando sempre causa ed effetto di ogni azione. È un po’ di giorni che penso, senza avere nessun elemento che me ne dia fondamento, a la causa della scomparsa di questa grande popolazione che gli storici mi sembra di capire collegano alla fine dell’Impero Romani, e se fosse legata a un aumento spropositato della popolazione? Magari legato a un improvviso incremento collegato con la famosa armata di Cambise che invece di essere scomparsa nelle sabbie del Sahara come ci racconta la storia, si era pacificamente dispersa nella fertile depressione Siwana e che magari nei secoli a seguire, anche a causa delle richieste di derrate alimentari da parte di Roma, l’agricoltura si sia sviluppata così tanto da rendere sterile questa grande area, seguendo le stesse dinamiche che oggi stanno portando ad aumentare la salinità del lago di Siwa? Tutte domande che vorrei fare a chi studia la storia e la geologia di queste terre e spero in futuro di averne occasione.
Ritornando verso Ovest si entra nel villaggio beduino di Ain Safi, i Siwani rispettano i Beduini ma ci tengano a marcare le differenze e ha non mischiare le etnie e assolutamente non gradirebbero una comunità beduina all’interno dell’oasi. I Siwani sono di ceppo Amazigh (berbero) e i beduini sono di origine Araba, i primi da secoli contadini e stanziali, i secondi da altrettanto tempo pastori e nomadi; e da che mondo è mondo contadini e pastori non si sono mai potuti vede’, che sia all’Elba, in Corsica, in Sardegna, sull’Atlas o nel Rif, nella steppa di Sirte o nella depressione di Siwa, la solfa è sempre quella. I coltivi sono un pascolo ambito per le greggi e i contadini hanno sempre visto i pastori come vagabondi e potenziali razziatori.
È un insediamento recente di poche case, quasi tutte di fango e sassi, che sorge in una zona estremamente brulla, nonostante ci sia una conduttura che porta l’acqua non ci sono ne frutteti ne orti, fra le abitazioni ci sono un paio di essenziali fonti (tubo e rubinetto) per l’uso domestico. Si riconosce subito un villaggio beduino, ci sono le greggi di capre e anche qualche pecora, le donne sono velate ma vestite in maniera più povera rispetto alle Siwane e si muovono nel vento che alza la polvere e fa svolazzare le loro vesti. Si vede solo un uomo nel villaggio e sembra felice della sua scelta di diventare un beduino stanziale, anche perché si sta costruendo una casa con i blocchetti di pietra bianca. I beduini a differenza dei Siwani, che sono contadini e preferiscono lavori statici, non sanno e non amano coltivare la terra e ormai impossibilitati alla vita nomade ambiscono a fare tassisti o camionisti, attività che più si confanno alla loro indole errante. Come avevamo già visto in Libia e nella zona mediterranea dell’Egitto, i governanti non amano le popolazioni nomadi e spingono in tutti i modi per farle diventare stanziali con incentivi e sovvenzioni per costruire villaggi e deterrenti e limitazioni per scoraggiare, se non addirittura proibire, la vita nomade.
A poca distanza dal villaggio c’è una micro oasi, una specie di stagno dove si concentra la vita animale, ci sono tanti volatili e per la prima volta vedo gli ibis neri, c’è anche un grande falco che volteggia sullo stagno a caccia di prede, ai margini della pozza pascolano gli asini dei beduini con le zampe anteriori legate fra loro, come usavano fare anche in Libia, dentro il laghetto c’è anche un isolotto con un po’ di arbusti secchi e due dromedari, anche loro con le zampe legate, che mangiano polvere e legna secca. È molto bella questa macchia di verde in mezzo al niente brulicante di vita, si avanza ancora un centinaio di metri e ci fermiamo a una sorgente caldissima dove da un tubo bucato esce una nuvola di vapore, l’acqua sgorga dal terreno con una grande potenza e fra i giunchi si vedono gorgogliare le polle, anche qui ci sono tante canne, giunchi e piccoli tamerici e un rigagnolo di acqua calda e rossa che va ad alimentare il vicino stagno. Tornati sulla strada asfaltata avanziamo nuovamente verso est fino ad arrivare a un controllo di polizia posizionato sul limite percorribile senza l’autorizzazione per attraversare il deserto, da qui inizia la pista che attraverso 350 chilometri di Sahara conduce fino all’oasi di Baharyya. Roxy si prende un po’ di informazioni e poi si ritorna verso ovest, gironzolando un po’ tra deserto e palmeti e fermandosi di tanto in tanto a vedere acque sorgive a volte fredde a volte calde, che alimentano le piscine che servono per irrigare. Si incontrano delle piccole oasi veramente rigogliose, con grandi palme circondate da fitti canneti che spesso nascondono le vasche, ci sono anche pozze scavate di recente con gli escavatori e canali di drenaggio che evidenziano uno strato di argilla grigia che segna il limite delle acque superficiali, come avevo già visto nella zona del lago di Malaki, con questi canali profondi invece che drenare il terreno si rischia di portarci dentro il sale e renderlo sterile. Speriamo che la saggezza antica dei coltivatori non venga spazzata via da mezzi meccanici e bramosia; e che al contempo invece si sposi con i nuovi sistemi di irrigazione a goccia, come fa ben sperare una piccola vasca tradizionale di acqua fresca e pulitissima, che collegata ad un impianto a goccia irriga un coltivo. Ci fermiamo a vedere un grande impianto di pompaggio sul lago di Zaytun, anche qui ci sono tanti pesci, il lago è già in gran parte secco e bordato da grandi placche di sale, verso l’interno si estende in un suggestivo scenario formato dal fondo di fango salmastro arricciolato in forme geometriche e poi in pozze sempre più ampie che regalano effetti miraggio, fino a perdersi nell’orizzonte di dune sabbiose. Rientriamo verso Siwa ripassando dalla strada che attraversa il lago salato, è uno dei tratti più belli con gli isolotti di fango che sbucano da tutte le parti e i grandi cristalli di sale che si addensano sul terreno ai margini dell’acqua. A Roxi il lago salato proprio non piace, lo considera inutile e dannoso, gli spiego che lo trovo bellissimo e che mi ricorda il mare e che se fossi un Siwano organizzerei dei giri con le canoe nei laghi principali per visitare i tanti isolotti, mi dice perplesso che non avrei concorrenza perché nessun Siwano farebbe mai una cosa così stupida, anche in questa conversazione ci ritrovo qualcosa di familiare e già sentito.
Rientrati a Siwa, tempo di mangiare qualcosa, andiamo a vedere un bel tramonto da una nuova angolatura e poi si passa a salutare Mohamed nel suo studio dentro la vecchia città.

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