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Dougga la Dorata Un ragazzo tunisino dai riccioli rossi mi consegna la classica sgraziata clio tre volumi con in dotazione un mazzo di datteri e un cd di Ramazotti in omaggio alle italiche origini. Lasciamo una Bizerte che si sta dormendo il mattino del suo ultimo giorno di Ramadan e dopo un tranquillo controllo della gendarmeria cominciamo ad entrare nella campagna. Ci lasciamo alle spalle il Jbel Ickeul dove però voglio tornare prima di lasciare la Tunisia, sono stati percorsi solo pochi chilometri ma è già un altro mondo, pochissime macchine, ogni tanto un pik up carico di poponi gialli, quella che stiamo attraversando è una pianura brulla dove passano lenti carri trainati da asini che sembrano ignorare la pioggia, poi risaliamo le colline del Teboursouk ricoperte di pini striminziti stile monte Orello, passiamo dall’omonimo paese e poi finalmente il Tell, un altopiano roccioso che stamani è fasciato dalle nebbie. La pianura sopraelevata del Tell è assai adatta alla coltivazione del grano, caratteristica che rese questa regione ricca e importante già prima delle dominazioni Cartaginesi e Romane. Siamo qui per vedere i resti di Dougga considerata con la Libica Leptis Magna la più bella città del periodo Romano dell’Africa. Dopo una serie di ripidi tornantoni la strada spiana, sulla nostra destra i resti delle cave Romane con ancora evidenti le tracce dei solchi di cesura per il distacco di blocchi e colonne, in lontananza si vedono le prime colonne che si stagliano austere nel cielo plumbeo. Il sito è deserto, solo un paio di persone alla biglietteria, la pioggerellina e il vento freddo esaltano ancora di più il silenzio aumentando la suggestione. Davanti a noi c’è il teatro un perfetto semicerchio che poteva ospitare più di tremilacinquecento persone, fu fatto costruire da Marcus Quadratus (è scalpellato proprio così) uno dei più ricchi abitanti di Dougga nel 188 dopo cristo, la parte bassa dominata dalla scena è ricca di stanze e cunicoli, saliamo in cima al camminamento alto sopra le gradinate, nel mentre la nebbiolina che circondava i monumenti si è dissolta aprendo uno scenario favoloso che domina tutta la città. Dougga si è conservata così bene perché dopo il declino dell‘impero Romano è stata praticamente abbandonata come centro urbano, ha continuato ad essere abitata ininterrottamente (e in parte lo è anche oggi) ma da pastori e contadini che si sono insediati fra le monumentali opere dell’epoca classica. L’agglomerato si sviluppa su un colle morbido ricco di acqua sorgiva e di grotte naturali dunque perfetto per un insediamento umano, alla nostre spalle ci dovrebbero essere degli insediamenti risalenti al secondo millennio avanti cristo. Un viottolino risale fino al Tempio di Saturno, si trova a mezzo chilometro dalla zona adibita alla visite ed è quello ridotto peggio fra i tanti templi, ma da quello che rimane si capisce che doveva essere enorme anche perché Saturno prese il posto di Baal Hammon la principale divinità dei Cartaginesi, che i Romani da paraculi quali erano trasformarono in Saturno. Il tempio si trova su una grande terrazza che si affaccia da una posizione di dominio sulla ricca pianura circostante dove oggi come al tempo dell’Impero Romano si estendono grandi oliveti. In basso a poca distanza l’unica traccia cristiana del sito, la chiesetta di santa Vittoria che fu costruita dai vandali nel V secolo, quasi invisibile al cospetto di tanta grandezza, rudere che nelle dimensioni e nella forma ricorda le chiesine di Epoca Pisana della montagna Elbana come San Frediano e San Bartolomeo. Di fianco c’è la cripta dove ci sono ancora dei massicci sarcofagi in pietra in uno dei quali ci dovrebbero essere le reliquie della santa. Fra asini e i fichi d'india risalgo la collina in cerca delle tracce preistoriche, qui c’è anche una fattoria abbaraccata, a metà strada fra la casa del vecchio Urru e il caprile di Evangelista sopra San Piero, davanti all’uscio il padrone di casa mi osserva da un bel po’ è in compagnia di un paio di cani, ci saluta e ci viene incontro e con fare alla”Gino Brambilla” mi indica la zona delle tombe che si trovano poco più in alto. Sono tombe dolmeniche piuttosto massicce le più grandi sono di forma ovale costruite con grossi lastroni e ricordano quelle delle Piane della Sughera, il padrone di casa mi ha accompagnato e mi fa vedere resti di ceramica e forni per la terracotta, ma soprattutto mi vuole far vedere la sua catana piena di monete e lari di terracotta che dice aver trovato zappando qui intorno. Siamo sul dorso del colle, da qui si vedono bene le imponenti cave da cui proviene tutta la pietra color oro usata per la costruzione di Dougga. Ritorniamo in direzione del sito principale camminando fra i coltivi dove fra le zolle sbucano continuamente pezzi di ceramica, scendendo fiancheggiamo un acquedotto Romano usato ancora oggi per portare l’acqua alle casa di Dougga nuova, anonimo paese di case a forma di scatola di scarpe costruita a valle dell’insediamento antico dove è stata fatta trasferire la popolazione quando la città monumento è stata aperta alle visite turistiche. Ritorna a piovere, ci ripariamo nelle vecchie cisterne dove ci sono ricoverati centinaia di reperti, ci sono tante statue alcune veramente grandi, mosaici, are e un po’ di tutto. Lo scroscio dura poco e passando fra olivi e melograni ci troviamo “in centro”. Finalmente osservando da dietro le mura del Campidoglio capisco l’Opus Africanus la tecnica costruttiva usata dai romani in Africa, si tratta di colonne di pietra con pezzi orizzontali e verticali che servivano da sostegno e da appiglio per il resto della muratura fatto con pietre più piccole, un po’ come si costruisce oggi con le colonne di cemento armato e gli “specchi” riempiti con le “murette”. Le vie sono lastricate meravigliosamente, mi piacerebbe che qui ci fossero Babbo e Peppe loro apprezzerebbero la qualità di questi lavori eccellenti, il reticolo delle vie è diverso dal solito rigore geometrico delle città dell’antica Roma, è tortuoso e a volte labirintico, le vie seppur più maestose ricordano quelle sinuose viste qualche settimana fa a Bulla Regia, infatti anche qui la città è stata costruita su un insediamento precedente. La storia ci dice che Thugga, questo è il nome originale, era già un grande insediamento quando i Cartaginesi nel quarto secolo avanti cristo vi si insediarono, nel secolo successivo, dopo la sconfitta di Cartagine nella secoda guerra Punica, diventa con il benestare di Roma città Numida sotto il regno di Massinisa e rimane sotto di loro fino al 46 avanti cristo. Quando il re Giuba I durante la guerra civile romana si schierò dalla parte del perdente Pompeo, Giulio Cesare gliela fece pagare e pose termine per sempre al regno Numida. Thugga divenne Dougga e iniziò il processo di romanizzazione che raggiunse il culmine fra il secondo e il quarto secolo, periodo in cui furono costruiti la maggior parte dei monumenti. Poi con l’invasione dei vandali tutto lo splendore e la ricchezza Dougga la dorata finì rapidamente. Quando durante le conversazioni un capisco nulla e succede spesso con l’Arabo, penso che se i romani avessero romanizzato di più l’Africa del nord magari tutto il nord africa avrebbe mantenuto una matrice linguistica latina con innegabili vantaggi per noi e sicuramente senza l’avvento dell’Islam tutto il nord africa avrebbe una matrice linguistica latina, in questo viaggio penso spesso al grande popolo del mediterraneo e credo che una lingua comune seppur frutto di una dominazione avrebbe aiutato tanto l’integrazione fra le due sponde del mare nostrum. La via principale ci conduce nella piazza dei venti, siamo circondati da templi che si estendono in tutte le direzioni, sul pavimento è incisa una grande rosa dei venti, dodici nomi scalpellati alcuni si leggono bene altri meno Africus (che corrisponde allo scirocco), Septemtrio (Tramontana), Auster, Leoconotus, Faun, Arcistes, Circius, Aqui e poi altri quattro che non si leggono più, è incredibile che in un posto così bello ci siamo solo noi. Subito dopo si arriva davanti al Campidoglio, la parte più imponente di tutto il sito costruito sopra una collina ha grandi mura alte oltre dieci metri e sei grandi colonne in monoblocco che sostengono il portico, all’interno ci sono tre nicchie quelle laterali per le statue di Giunone e Minerva e la più grande al centro per l’mmagine di Giove che doveva essere alta almeno sei o sette metri. Proseguiamo camminando nel grande spazio del foro, il silenzio è rotto, arriva un gruppo di turisti sono una quindicina di veneti e l’unico che parla italiano è la guida tunisina. Ville e templi si susseguono (censiti ce ne sono ventuno), arriviamo alle grandi terme ulteriore prova della ricchezza di questa città, sono maestose nella parte pubblica e ancora di più in quella labirintica delle caldaie e dei condotti, dove però gli schiavi facevano una vita torturante. Il vento ha portato il sereno e il sole illumina tutto e si capisce ancora meglio perché veniva chiamata la dorata, la pietra gialla si illumina come se fosse placcata d’oro. Suona il telefono, inaspettata arriva la notizia che attendevamo da più di un mese: è arrivata l’autorizzazione per andare a La Galite, fra tre giorni confermare la data di partenza per l’isola e inviare una serie di documenti relativi alla barca. Il morale è alto, continuiamo a scendere la collina urbanizzata e ci troviamo davanti una delle ville più belle nominata dagli archeologi casa del trifoglio, in realtà era il bordello più importante della città, si entra da una scalinata che conduce a una serie di eleganti stanze che si affacciavano sul cortile interno. Ancora un impianto termale più piccolo e ridotto peggio ma con una latrina in pietra a dodici piazze a forma di ferro di cavallo che sembra appena ultimata, in qua e in là ci sono anche tanti pavimenti mosaicati. C’è una guida ferma fra il casino e le latrine e il grande Arco intitolato Settimio Severo il primo imperatore di Roma nato in Africa, si offre per accompagnarci ma in realtà anche lui è qui per provare a vendere qualche reperto che fa astutamente capolino dalla classica catana del tombarolo venditore. In questa zona lo scavo è solo parziale ma affascinante perché vivo, con le pecore e le capre che pascolano fra capitelli e are votive, scambio qualche parola con un pastore anziano tutto contento perché dice che qui in fondo non ci arriva mai nessuno, mi racconta che prima che attrezzassero l’area archeologica lui viveva fra i templi del centro e poi mi indica la via per raggiungere il tempio Numida, che in realtà si vede molto bene perché il mausoleo è alto più di venti metri, con una piramide in cima dove sta seduto un leone di pietra. Pur essendo il monumento architettonico più antico del sito, risale al secondo secolo avanti cristo, ha una forma che lo fa sembrare molto più recente e ricorda il mausoleo Tonietti del Cavo, la forma è quella di un obelisco tozzo a tre piani, è considerato il più importante monumento Numida esistente ed è famoso per l’iscrizione bilingue in Libico e Punico che recita “Ateban, figlio di Ypmatat figlio di Palù” Purtroppo l’arroganza e la stupidità dei colonizzatori europei ha lasciato la sua traccia di vergogna, anche qui infatti nel 1842 per volere del console inglese di Tunisi fu rimossa la pietra con l’iscrizione e questo causò il crollo del monumento. La pietra originale oggi trova a Londra al british museum e il mausoleo che si vede oggi fu rimesso su nel 1910 da una squadra di archeologi francesi. Il parco archeologico è ormai chiuso, ma non ci sono problemi perché si può uscire dai campi circostanti che non sono recintati, risaliamo dal lato ovest passando per i ruderi delle terme estive e poi il grande tempio dedicato a Giunone che rimane ai margini del centro monumentale fra i terreni coltivati circondato da olivi secolari. All’interno di questa maestosa scenografia assistiamo a una scena bellissima e allo stesso tempo imbarazzante perché lo sguardo viola un momento di preghiera di grande intimà e intensità. Poi passiamo sotto il grande arco dedicato a Alessandro Severo, ripassiamo dietro il Campidoglio per poi uscire da Dougga nuovamente bagnata dalla pioggia. Il tempo è il classico autunnale e il caldo patito fino a pochi giorni fa è un ricordo, ormai è tardi e facciamo la strada principale per raggiungere le Kef attraversando l’altopiano del Tell, piove sempre più forte e la campagna comincia ad allagarsi. Arrivati a le Kef proseguo per sfruttare l’ultima luce e vedere la strada per Mellegue dove ci dovrebbe essere un impianto termale di epoca Romana, la voglia di vedere l’Algeria è tanta ma una serie di posti di blocco armati mi fa capire che non è cosa. Imbocco la sterrata per il sito, sul lato ovest in alcuni tratti ci sono filo spinato e cartelli con i teschi che indicano la possibilità di campi minati, il fango scorre lungo la strada sterrata però, contrariamente a quanto detto da alcuni, la strada è percorribile, anzi è uno spettacolare sterrato a tornantoni reso ancora più divertente dal fango. Arriviamo in basso all’imbrunire osservando il fiume Mellegue torbo di fango che si sta gonfiando a vista d’occhio. Le terme antiche sono ai margini del fiume e domani inschallah verremo a visitarle per bene. Le Kef è un'altra Tunisia rispetto a quella della costa, anche un altro islam, siamo in terra Berbera lo si vede dalle facce affilate e dai fisici snelli dei suoi abitanti e lo si respira. La città si sviluppa su una collina rocciosa a 780 metri di altezza, il nome trae origine da Kaf che significa roccia in Arabo, la prima città fondata su questa roccia che domina il Tell fu costruita dai Cartaginesi nel cinquecento e si chiamava Sicca, una città fortezza che era famosa per le prostitute sacre che officiavano nel tempio dedicato a Astarte la Dea dell’Amore, quando Roma si sostituì a Cartagine il Tempio fu dedicato a Venere nome trasformato in Sicca Veneria. Grazie alla sua posizione strategica fu anche una delle roccaforti di Giugurta il re Numida che si ribellò a Roma e la sua indole ribelle è rimasta anche durante la dominazione Araba alla quale i fieri Berberi del Tell nel corso dei secoli si sono più volte ribellati. E’ l’ultimo giorno di Ramadan e le attività sono tutte chiuse per l’Haide, non si trova nemmeno un panino, la via centrale, che come sempre si chiama avenue Bourghiba, è fiancheggiata da un lungo porticato pieno di microscopici fondi ma la struttura più appariscente è l’hotel Sicca Veneria che con le sue luci a intermittenza fucsia sembra un sexy shop, l'islam bacchettone è lontano qui siamo nella città di Astarte e Venere. Nel frattempo diluvia e le strade diventano fossi, parcheggiare è un problema, col mulo era più facile, trovo un parcheggione vuoto ma un soldato armato sbuca e mi dice che è solo per militari. Sono ormai le undici, il fortunale si è fermato e si vede anche qualche stella, il centro si è ravvivato e la gente si riscalda intorno ai bracieri dove si arrostono salsicce di montone che col freddo ci stanno proprio bene. Dopo il convio un paio d’ore a internet che come sempre nei centri più piccoli è il principale punto di ritrovo e poi parcheggiamo in un posto tranquillo e ci mettiamo a dormire. |
© 2024 Elba e Umberto
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