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La montagna dei dinosauri
Stamani taglio i capelli a Serena che però non è affatto soddisfatta del risultato, faccio un salto all’internet sala giochi gestito dai bimbi, che con l’immancabile sottofondo di musiche coraniche, si sfidano in interminabili partite alla play station. Dall’Italia arrivano notizie e immagini luttuose di un terremoto che ha colpito l’Abruzzo. Compriamo pomodori e tonno che mangiamo all’ombra di una tettoia di palme e poi si parte per visitare meglio la zona del Djebel Dish, dove si arriva velocemente grazie ad un passaggio. Fa tanto caldo, per fortuna che il vento aiuta a camminare in questo deserto scuro, il paesaggio è dominato dall’ammaliante sagoma scura di questo inselberg, come si chiamano tecnicamente questi isolotti conici che emergono dal piano del deserto. Attraversiamo la distesa nera da dove sbucano come funghi le rocce erose dal vento e poi si comincia a salire sui fianchi della collina dove spiccano delle fitte stratificazioni di argille colorate, giriamo verso est per beneficiare dell’ombra, è bastato salire di poche decine di metri per avere una spettacolare visione d’insieme della zona, da qui si percepisce benissimo la depressione in cui si sviluppa l’oasi di Bahariyya e fa sempre un grande effetto vedere il verde rigoglioso di un oasi a contrasto con le sterminate distese aride del deserto e ancora più incredibile è pensare che sotto questa sterminata distesa di sabbia e roccia si concentra una delle più grandi riserve di acqua fossile del mondo, il cosiddetto aquifer del deserto occidentale, che in base ai dati raccolti dagli studiosi dovrebbe avere una capacità di cinquantamila chilometri cubi depositati nel sottosuolo tra centocinquanta metri e il chilometro e mezzo di profondità. Il panorama sotto di noi fa pensare al suolo lunare o comunque ad un pianeta sterile, eppure qui 80 milioni di anni fa, nel cretaceo, si estendevano grandi paludi in cui vivevano giganteschi dinosauri. È una zona estremamente intressante dal punto di vista geologico, con delle nette stratificazioni che attraversano il picco orizzontalmente, ci sono delle fasce scure quasi interamente formate da conchiglie, altre che sembrano accumuli di lamiere rugginose, sono decine e decine questi strati, dai colori più divesi dal bianco candido del gesso, al nero, passando per svariate tonalità di giallo rosso e ocra, mi piacerebbe che qui ci fosse Beppe Tanelli per capire bene la cronologia geologica di questo posto straordinario, dove, mentre si sale, si incontrano vongole, cozze e ostriche risalenti probabilmente a una ventina di milioni di anni fa, quando il mare si estendeva fin qui. Mi immagino le varie ere, ottanta milioni di anni fa sotto di noi nell’attuale deserto c’era un’estesa palude dove vivevano i giganteschi rettili che come fossili sono arrivati a noi, in seguito un grande mare il cui fondo è stato anche a metà di questa collina e in seguito dopo la scomparsa del mare, fra grandi cambiamenti climatici, nei millenni successivi i processi erosivi hanno creato queste depressioni che hanno permesso all’uomo di sopravvivere all’interno del deserto, grazie alle acque conservate in profondità che in queste “oasi buche” riescono ad emergere naturalmente.
Salire sulla sommità si rivela più complicato del previsto, il terreno è sempre più friabile e le argille si sbriciolano in polvere sotto gli scarponi, ormai è troppo tardi per salire sulla vetta e poi scendere in sicurezza con una buona visibilità, un po’ mi dispiace perché questo cocuzzolo fantasticando me lo ero immaginato fermo nel tempo ad osservare i dinosauri, a fare l’isola in mezzo al mare, a guardare la foresta e poi la savana e infine il deserto sotto di lui, a scrutare le varie civiltà che hanno gironzolato qui sotto e sui suoi fianchi, come testimoniano i resti di cocci qui in cima. Nel frattempo è comparsa una pallida luna gigante e a una ventina di metri dalla punta decido di tornare indietro. La discesa è veloce, la montagna sembra sfaldarsi sotto i piedi, come la pomice polverosa sui fianchi dei vulcani siculi, il deserto con le ombre lunghe che precedono il tramonto sembra veramente il mare, scendendo si incontrano delle rocce ferrigginose e quasi in fondo ritroviamo un grande deposito di conchiglie e anche dei bellissimi cristalli, credo di gesso, a volte divisi in sottili scaglie che li fanno assomigliare a piccoli specchietti e poi ancora spettacolari formazioni ferrose piene di bolle e cavità che assomigliano alla scorie di lavorazione del ferro. Poche centinaia di metri e siamo ai limiti del verde, dove le spighe di grano comiciano ad ingiallire, l’oasi è sempre un posto di quiete, ma dopo il tramonto lo è ancora di più, la gente dopo una gionata nei campi si va a lavare e a rilassare nelle vasche di acqua tiepida che sono l’orgoglio degli abitanti delle oasi, è un mondo semplice che trasmette armonia, una casa capanna circondata da palme e campi di grano con a fianco una vasca di acqua calda dove sguazzare e lavarsi, visto così sembra un mondo perfetto basato sull’equilibrio e sul rispetto delle risorse naturali. Qui non c’è un vero paese ma un piccolo insediamento in cui si respira accoglienza, le donne ci salutano e ci invitano a prendere il the, ci saluta anche una ragazza dal pianerottolo della sua casa dove sta allattando la figlia, è un’immagine molto bella e molto distante dalla mentalità arabo islamica che mi fa pensare che questa sia una piccola comunità Amazigh. Come la sera precendente lungo la via troviamo un passaggio per Bawiti, dove si cena con una sublime zuppiera di macedonia.