Galitone e il Faro
casa Ponzo-Galitese
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Lo sguardo enigmatico del Corvo All’alba partono le barche dei corallari mentre si dissolve la nebbia marina e la luna gigante non è ancora tramontata, anche questa giornata si preannuncia bella, il telo della tenda è bagnato come succede sempre di queste stagioni al mare. Cominciamo a camminare, la piccola comunità isolana dorme ancora, dopo la piana del cimitero ci spostiamo verso ovest fra le zolle ricoperte di erba alta ancora gocciolante di guazza, si sentono camminare le tartarughe, ce ne sono tante ognuna col suo carattere, ci sono quelle che quando ti avvicini si chiudono nella corazza e altre che si danno alla fuga, il mare stamani non ha voce è una lastra immobile che con il salire del sole piano piano prende colore insieme al cielo. La prima collina che si attraversa è un giardino, si cammina fra fioriture di erica e rosmarino dove le api sono già a lavoro, ma ci sono anche tanti giunchi e “i pruni caprini” che quando vai a troncamacchia non mancano mai. Salendo ancora tartarughe e anche tanti uccelli che pedulano fra i cespugli fioriti, poi ci inseriamo nell’ultimo tratto del sentiero che porta fino al semaforo posto sulla vetta de La Galite, è l’unico viottolo agibile ed è conosciuto come il cammino di Bourghiba perché si dice che nei due anni che passo’ confinato qui, il futuro presidente della Tunisia veniva obbligato dai militari francesi a salire tutti i giorni fino al semaforo per firmare il registro di presenza. E’ un sentiero profumato che ricorda quello che porta al semaforo dell’Isola di Capraia dell’Arcipelago Toscano e all’Isola degli Hermes assomiglia anche il paesaggio della vetta con i ruderi dell’antica vedetta, i ferri arrugginiti e le piazzole in cemento e anche per le pareti di roccia scura che precipitano verso il mare. Ma il nome del poggio ci riporta a Ponza, anche li’ la vetta isolana si chiama Monte Guardia, e questo è abbastanza scontato visto che i pochi nomi riportati nelle carte dei rilievi e dei promontori sono di origine italica, l’aspetto più curioso è che i due monti hanno pressoché la stessa altezza trecentonovanta metri, mentre nella forma, che da qui sopra si disegna chiaramente, La Galite è molto simile all’Elba a cui è speculare anche come orientamento, con la testa (dove siamo ora) a ovest e la coda a est. Si vede anche Galitone ma non come pensavo, c’è infatti ancora tanta Isola prima di arrivare all’estremo ovest. Si scende e si sale più volte fra grandi strapiombi affacciati sul mare smeraldo che, complice il gran caldo, chiama a se, ma le meraviglie sono anche dentro l’isola che risplende di vita e colori in questa primavera d’ottobre, ci sono tante farfalle policrome e poi ragni, grilli e libellule gialle, verdi e blu, ma le più fotogeniche sono quelle arancioni, una meravigliosa, elegante e spietata cattura e si mangia una mosca forse troppo distratta. Siamo avvolti nella mediterraneità, dal basso le capre ci guardano da picchi arditi sospesi fra cielo e mare, sono tante e vivono libere, la loro anarchia ha tempi opposti a quella umana su quest’isola. Finalmente padrone del loro destino, proprio come le capre Elbane che vivono sovrane fra le pendici di Monte Grosso e Nisportino, sono imponenti, specialmente i maschi con le grandi corna, le riconosco sono le grandi capre italiane dei racconti di Ali Baba Ouerda, l’amico veterinario dalle misteriose origini italiane conosciuto a Kerkennah, che qui a La Galite una ventina di anni fa aveva fatto uno studio proprio sulle capre per conto del governo, “ li’ ci sono le capre italiane” mi diceva “più grandi e più forti di quelle africane e migliori per la carne e per il latte” e convinto mi raccontava “Le hanno portate gli italiani con le barche”. Non sono sicuro che le abbiano portate i Ponzesi, già in epoca classica si usava portare le capre sulle isole disabitate (come ci insegna anche la storia di Montecristo e Capraia) per avere riserve di cibo in caso di necessità. Mentre ammiro l’agilità di questi animali penso con grande rammarico alle capre di Evangelista, l’ultimo pastore della montagna Elbana, che lo scorso autunno sono state caricate su un camion e portate via, dopo secoli e secoli di legame con quel territorio, queste nell’aspetto assomigliano proprio alle capre che pascolavano la montagna Elbana, una razza antica e resistente di capre mediterranee che ha subito un processo evolutivo simile a quello del muflone, irrobustendosi grazie all’ambiente isolano e diventando assi più forte del suo antenato continentale. Chissà se quando tornero’ all’Elba ci sarà nuovamente un pastore di capre sulle pendici del Capanne, pensando alle notizie sull’economia lette su internet i giorni scorsi, penso che un processo di ritorno alle origini potrebbe realizzarsi. Avvolti dal silenzio e nei profumi della macchia arriviamo alla fine dell’Isola, ci fermiamo su una radura sassosa colorata dai licheni arancio intenso che si apre su un orrizonte “grandangolare”, qui ci sono tanti falchi che si lanciano continuamente dalle alte scogliere che dominano il canale che ci separa da Galitone, ma qui i padroni di casa sono i corvi, anche se sembrano estranei a questo mondo colorato, neri lucenti e sfuggenti volteggiano eleganti e osservano tutto. Sono affascinato da questi “rabbini” volanti, nello sguardo del corvo c’è qualcosa di sovrannaturale, ti guarda e sembra conoscere il futuro e anche i tuoi pensieri; di tutt’altro stampo sono i falchi, specialmente i piccoli e frenetici falchi di Eleonora Galitei, instancabili cottimisti della caccia e provetti acrobati del volo, il falco non pensa, agisce, il falco è un soldato di leva vigoroso e bene addestrato, mentre il corvo è un gesuita che nel buio del suo piumaggio senza sfumature nasconde il crocifisso e la spada. Da questa gigantesca prora di roccia si vede bene la sagoma massiccia di Galitone e anche il ripido viottolo scavato nella roccia che sale fino al grande faro sulla vetta, anche qui il richiamo a Ponza è forte: nella via incisa nel fianco dello scoglio rivedo La Sgarrupata a mare che porta al Faro. Le barche dei corallari che stanno rientrando schiariscono una striscia di mare nel disegno delle loro scie, unico solco nel mare piatto di questa patana Africana. Fra licheni “buddhisti” giunchi e rosmarino, risaliamo fino al semaforo dove un suono sordo come quello delle ghiaie ruzzolate dalla risacca riempie il silenzio, è il cozzare affannato di tartarughe focose impegnate in un raduno orgiastico, che si scontrano e si appiccicano come le macchinine dell’autoscontro, la corazza sarà anche una bella sicurezza ma poi ti ritrovi ingessato dal collo al culo, anche quando trombi. La luce ora è bellissima e le punte bianche della costa nord sono rosate e rugose di ombre lunghe, si ritorna verso il paese dal pendio che scende affacciato sul mare dal lato del porticciolo, anche qui c’è acqua per la gioia di carrubi e lentischi pieni di bacche rosse, lo scalo si è riempito di corallari ci sono sette barche a banchina e altrettante a rada di cui due barche a vela. Poco prima del crepuscolo siamo al villaggio, nella parte alta del paese fantasma, entriamo in qualche casa, la maggior parte sono avvolte dalla macchia, ma in alcune si riesce ad entrare, una ha il pavimento con le mattonelle uguali a quelle del circolino della Bonalaccia. Nella parte del paese meglio conservata a fianco di una casa abitata da militari c’è la casa più bella, forse era l’abitazione dei D’Arco, intorno alle case piante di alloro, fichi e carrubi e grotte di tufo che facevano da stalle. Anche stasera rientriamo di buio. Sono bastati due giorni per armonizzarsi ai ritmi della natura, ci si alza con la prima luce e si va a letto quando arriva la notte.
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