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Con un leggerissimo ritardo – per i miei parametri – scendo nella sala colazione, sono già li che mi aspettano, c’è anche la piccola Fatima. C'è Houssain, il collega di Azdour , che mi propone di andare con lui: va a provare un tour nel deserto. Gli spiego che vorrei studiare bene la zona del Toubcal e magari andare sulla vetta dell'Atlante, lui insiste dicendo che sono suo ospite, che non devo pagare niente perché vuole che questo giro lo veda per poi proporlo ai clienti del Viottolo. Ci penso un attimo, è un ulteriore rinvio della partenza a piedi, ma è anche un imperdibile occasione per vedere luoghi interessanti e per prendere contatto con il deserto che poi dovrò attraversare veramente. Accetto l’invito. Appuntamento domani mattina alle 8 al rifugio di Imlil. Si sale verso Imlil con un gran taxi preso a noleggio, mi sembra di essere sotto sequestro. La strada è veloce e attraversa una pianura coltivata fino ad Asni, dove facciamo una sosta. Azdour da queste parti è un personaggio lo conoscono tutti; fra la strada e il fiume ci sono le bancarelle che vendono da mangiare e una serie di grandi alberi spogli, con tante macchie bianche, guardo meglio e vedo che sono centinaia di garzette bianche immobili sui rami, le stesse che si vedono sempre più frequentemente anche all’Elba. La strada inizia a salire stretta e tortuosa sul fianco destro di una valle stretta e profonda. La piccola Fatima vomita più volte, stremata dalle curve di questo lungo “Volteraio” marrocchino.
Arrivati alle porte del paese la strada finisce, lo zaino viene caricato sul mulo lo ritroverò al rifugio. Lascio Azdour e Fatima, che vanno a salutare parenti, e inizio a salire godendomi l’aria secca e pungente dei 1740 metri di Imlil.
Sembra di aver viaggiato indietro nel tempo, un centinaio di chilometri di strada e ci si trova in un'altra epoca, si sente solo il suono dei passi e degli zoccoli dei muli.
Il terreno è scuro e friabile e i sentieri sono precari e a misura di mulo, mi rendo subito conto che il mulo è indispensabile per attraversare l'Atlante altrimenti andrebbe cambiata la filosofia e impostarla tipo impresa sportiva: materiale iper tecnologico, cibi liofilizzati, attrezzatura fotografica all’osso, ma io voglio viaggiare come una spugna, non come una freccia, cercando l’armonia in mezzo alla gente, mangiare per quanto possibile come loro e conoscerne costumi e pensieri. Le case sono talmente povere e scarne che sembrano disabitate, invece sono tutte abitate, da un portone di tavole si affaccia un bimbo curioso, dentro sul pavimento in terra battuta ci sono almeno sei bimbi, alcuni praticamente neonati vigilati dai più grandi. Oggi è una bella giornata di sole e sui tetti terrazza ci sono i tappeti a sciorinà che danno colore al paese. C’è un gran movimento costante e silenzioso fra le case del villaggio, sembra un formicaio umano, lavorano tutti, le donne portano grandi fasci di legna e contenitori per l’acqua, i ragazzi guidano i muli che portano di tutto ma in particolare quella che qui chiamano “rena”, un misto di sabbione,ciotoli e terra recuperata nel greto del fiume che viene impastata col cemento “poco” per costruire. Gli uomini sono tutti impegnati nella costruzione di ampliamenti, si costruisce a “treno”per risparmiare muratura e orgogliosi mi spiegano che il paese si sta modernizzando e che tutti si stanno costruendo il bagno dentro casa, una stanza con la turca e il rubinetto per l’acqua. Tutto viene fatto a costo di grande fatica, sono strutture prevalentemente di terra senza fondamenta, costruite su pendii aspri e instabili, è meglio non pensare a cosa succederebbe in caso di alluvione o terremoto. I Berberi di montagna sono diversi da quelli di città, si definiscono orgogliosamente puri, sono tutti magri con visi affilati e denti cariati, lavorano a capo basso con una frenesia più tirolese che marocchina, le donne hanno facce bruciate dal sole e rughe profonde, sono vestite con colori vivaci, hanno tutte il velo ma il volto è scoperto, guardano sorridono e si voltano, è sconveniente dare confidenza e non vogliono assolutamente essere fotografate, mi chiamano “nisara” che stà per nazareno o cristiano. Arrivato al rifugio vengo accolto da Hassam, una giovane guida, che mi invita sulla terrazza a prendere il the con altri amici, ottimo the e panorama superbo, peccato che praticamente non è possibile scambiare una parola con una donna.
Hassam mi accompagna a fare un giro dall’altra parte della valle fino a scoprire il Monte Toubcal . Incontriamo la prima neve, poi nelle zone d’ombra il ghiaccio, cosi finalmente provo le mie scarpe coi chiodi, le 8850, il mio sponsor tecnico, i chiodi funzionano e anche Hassam da parere positivo sul dispositivo. Il sole è caldo e l’aria è secca, su tutto domina il silenzio, ogni tanto rotto dal richiamo sgloriato del muezzin del villaggio che ogni volta mi fà salta, sembra Giovannino della Zeppa quando chiama i cani della battuta al cinghiale. Guardando i tre villaggi dall’alto, la loro precarietà risulta ancora più evidente forse anche per questo c’è bisogno di un Dio così presente per la gente della valle.
Ritornando verso “casa” chiedo a un ragazzino se mi fa provare a portare un mulo, mi da la fune mal mulo un si move ci provo co le bone nulla, provo con più decisione uguale, arriva un bimbo alto un metro, gli da una voce secca e il mulo parte spedito fra le risate generali. Man mano che cala la notte la luce sembra aumentare per via della neve illuminata dalla luna ormai quasi piena e da migliaia di stelle che sembrano più grandi del solito. Prendo possesso della camera e mi preparo per la cena, stasera Cous Cous. Cena il sala chiaramente solo uomini e bimbi le donne rigorosamente in cucina.
Finito di mangiare gli uomini vanno a dormire, rimango coi ragazzi a vedere una partita di pallone alla tv, si affaccia la ragazza che avevo visto prima, mi saluta mi dice che il cous cous l’ha preparato lei. L’inizio del dialogo viene interrotto bruscamente dallo sguardo severo del più grande dei fratelli che la rispedisce nella stanza delle donne.
Il rifugio dove sono ospite è accogliente e sorprendente, dall’ esterno sembra una casa di fango, ma sulla terrazza c’è un ufficio che sembra una base di Al Quaida con telefono satellitare, adsl, tre computer e il corano sulla scrivania. Qui la gente va a letto prestissimo e si alza anche prestissimo, sono tutti a letto, mi gusto le stelle e la luna dalla finestra mentre leggo le mail che arrivano dall 'Isola, sono le tre di mattina e mi godo il silenzio sul tetto a terrazza, quando il canto di un gallo sfasato mi consiglia di andare a dormire per qualche ora.
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© 2024 Elba e Umberto
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