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Mercoled?¨ 12 novembre 2008 Acacus e Duna di Wan Casa ‚Äì Libia

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Dune rosse e Luna metallo
Dormo ancora mentre cammino nella sabbia gelida del mattino, voglio anticipare l’alba salendo su una isola roccia davanti a me, ma qui le distanze sono difficili da valutare sembrava uno scoglio a qualche centinaia di metri, invece dista più di un chilometro ed è una montagnola. Il sole arriva disegnando ombre lunghissime e il colore della sabbia improvvisamente prende vitalità, ci sono tracce di animali e diverse tane, una particolarmente grande forse è la tana di un fenec. La roccia è molto più grande ma assomiglia ai Corbelli davanti a Capo Stella e sembra di essere sopra un isolotto, intorno un infinito arcipelago di scogli scuri a volte affilati a volte rotondeggianti che sbucano ovunque in questo mare di sabbia. Si parte addentrandoci nel cuore dell’Acacus è complicato orientarsi qui dentro perché è un labirinto di decine di wadi che sbucano, si incontrano e scompaiono da tutte le parti, ogni volta che esci da una gola ti trovi sempre davanti un paesaggio sempre più sorprendente e lo stupore invece di stabilizzarsi si moltiplica. Funghi e piramidi di roccia si susseguono e ogni volta salirci sopra regala straordinari scenari, incontriamo i primi graffiti ce ne sono decine e decine e raffigurano animali ormai scomparsi qui, bufali, mucche, antilopi, struzzi e giraffe. I graffiti e le pitture rupestri dell’Acacus sono considerati i più importanti e spettacolari del mondo per la loro bellezza e soprattutto perché ci raccontano l’evoluzione di questo luogo che nel corso dei millenni si è trasformato da rigogliosa savana a deserto. I graffiti che vediamo qui dovrebbero essere tra i più antichi, risalenti a circa diecimila anni fa quando qui c’era la savana. Ci spostiamo di poco e incontriamo una grande parete dove ci sono le pitture rupestri, c’è anche il resto di uno scavo dove il Professor Mori ha trovato una mummia. Fabrizio Mori è un archeologo che ha iniziato a studiare le pitture e i graffiti dell’Acacus dalla metà degli anni cinquanta e anche grazie alla collaborazione della Sapienza di Roma, ha censito migliaia di siti di grande importanza. Yaya mi parla del Prof. Mori con grande ammirazione raccontandomi che ha passato qui tantissimo tempo e per lunghi periodi ha vissuto insieme ai tuareg e che sa parlare benissimo il Tamashek. In questi graffiti sono raffigurati anche uomini impegnati nella raccolta dei datteri, animali allevati e scene di cerimonia, ci sono anche una pantera e delle bellissime giraffe puntinate. Sono tantissimi i siti con pitture quasi tutti all’interno di grotte e sono splendidamente conservati tanto che sembra impossibile che siano così antichi, graffiti e pitture si susseguono in magnifiche rappresentazioni di rinoceronti, elefanti e tantissime giraffe. Oggi il cielo è di un azzurro intenso e l’ocra della sabbia e il nero dei picchi risaltano, il paesaggio assume forme sempre diverse ora ci sono tanti picchi che hanno la forma delle guglie dei castelli di sabbia, quelle che si fanno con l’acqua sabbiosa lasciandola colare dalla mano. Ci fermiamo di fronte a una grande duna, da qui avanti non si va, saliamo sul picco di fianco, il caldo e la luce accecante ci spingono dentro le grotte dove si concentrano anche gli animali di cui si vedono molto bene le tracce e le tane. Ancora pitture questa volta del cosiddetto periodo Cabalino, tra tremila e quattromila anni fa, sono pitture molto belle che ritraggono uomini e donne, mucche e tanti carri trainati da cavalli che sembrano macchinine. Dentro una grotta c’è un bellissimo lucertolone che Yaya dice “se morde bye bye”. Una delle pitture più spettacolari rappresenta una battaglia tra due eserciti ci sono più di trenta figure. Lasciamo Acacus per andare verso il pozzo dove c’è una baracca di lamiera e un fuoristrada che è venuto a fare rifornimento per un gruppo di turisti, il custode del pozzo è un amico di Yaya e si salutano con grandi cerimonie, arriva anche un altro fuoristrada con un gruppo di italiani, la loro guida ci dice “voi siete pazzi ad andare col diavolo del deserto, lui va sempre avanti e non torna indietro, è stato il mio maestro di Acacus, è matto ma conosce tutto” poi ci dice che viaggiando itineranti con la tenda come facciamo noi si vede un sacco di cose, non come loro che facendo base al campo fisso fanno sempre andata e ritorno, però nonostante quello che dice si capisce cha anche lui preferisce lavorare in maniera più commerciale e Haroun mi fa cenno che non è un vero tuareg ma un arabo travestito. Dalla baracca esce una donna, è la prima donna  tuareg che vediamo e a differenza degli uomini è velata solo in testa. Attraversiamo Wantikeri, la terra di mezzo e arriviamo alla duna di Wan Casa, ora capisco perché Yaya diceva che la duna di Tansen non era niente. Dalla prima grande duna si vede davanti a noi la terra di mezzo e in fondo l’Acacus e come sempre col calare del sole la sabbia acquista tonalità magiche, queste dune in particolare hanno dei toni arancio, è impressionante la loro forma plastica e il filo sottile che ne disegna il vertice, ognuna di queste montagne di sabbia finisce sempre con una sottile fila di granellini. Il posto è talmente bello che decido di rimanere qui per la notte, camminiamo per tre quattro ore fino a notte fra le dune in un crescendo di meraviglia e stupore. Le dune sono magiche e sempre diverse a volte la sabbia è così compatta che sembra di correre sulle lisce di granito, a volte sfondi e non riesci a camminare. Per quanto possa sembrare un ambiente sterile e privo di vita ci si rende conto invece che è pieno di tracce, insetti, serpenti che camminano sotto la sabbia lasciando come una venatura sulla superficie, topi, uccelli. È bellissimo vedere solo le proprie impronte e allo stesso tempo dispiace violare queste dune intatte. Dalla duna in alto nel silenzio del deserto si controlla un territorio vastissimo anche perché nel silenzio i rumori si percepiscono a chilometri e chilometri di distanza, si vedono passare delle moto in lontananza e poi anche alcuni fuoristrada. Il deserto ci sta regalando nuove meraviglie sempre più esaltanti ma non riesco a immaginarmi niente di più magico della luna piena che sorge su queste dune rosse, mentre il sole gigante tramonta dietro i picchi dell’Acacus.    
 

   

Marted?¨ 11 novembre 2008 Ghat e Acacus ‚Äì Libia

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Kaf Ejoul

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Ghat

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La montagna dei fantasmi e il pianeta Acacus
Mi sveglio con il primo chiarore, è freddo ma secco il telo della tenda è asciutto, la sabbia è fredda ma già spolvera sotto i piedi, salgo sulle prime dune per fotografare il sole che sorge da dietro l’Acacus, i corvi che nei posti più belli non mancano mai mi osservano dalla duna più alta. Arriva il sole e la sterminata e informe distesa di sabbia prende immediatamente forma tingendosi di rosso e di arancio, è un mare di onde giganti e immobile che si perde infinito a ovest in territorio algerino.
Ritorniamo sulla pista principale per raggiungere Ghat, lentamene davanti a noi si inizia a definire la sagoma scura di Kaf Ejoul la montagna dei fantasmi, man mano che ci avviciniamo  la forma diventa sempre più complessa e somigliante a una gigantesca cattedrale gotica, poi la calura che comincia a far salire la foschia aggiunge un ulteriore tocco mistico ai picchi erosi.
Incontriamo un palmeto e una zona con un po’ di vegetazione che cresce grazie ai “foggara” canali sotterranei scavati dai Garamanti per portare in superficie le acque del sottosuolo, che mi riportano alla mente i canali nel deserto peruviano scavati dai Nazca che costruivano acquedotti sotterranei portando l’acqua originata dai nevai dei picchi andini nel deserto e poi fino al mare.
Ci fermiamo  vicino a una carcassa di dromedario, per i Tuareg Kaf Ejoul è un posto da evitare, è
il luogo dove si danno appuntamento i “Djinn” gli spiriti immortali dalle sembianze umane che fra i picchi arcigni della montagna si ritrovano tutte le notti proveniendo da luoghi e epoche lontane. I  “Djinn” si dice che abbiano barba e capelli rossi (questa credenza ha portato i tuareg per secoli ad evitare il contatto con i rossicci europei) nella notte si sente il suono dei tamburi e il canto ammaliante di donne che festeggiano, ma nessuno di quelli che si è avicinato è mai tornato  indietro, chiedo a Yaya e Haroun di raccontarmi della montagna, non si sbilanciano però assolutamente non ci vogliono andare e non vogliono nemmeno che ci si vada noi, Yaya racconta “una volta io sentito musica la notte e andato via, io paura non sai cosa c’è, ma c’è qualcosa tutti lo sanno e nessuno va”. Yaya assolutamente non ne vuole sapere, ma Haroun che è giovane e ha gli occhi scintillanti sarebbe tentato di salire con me però il capo è Yaya e comunque va bene così,
la carcassa di dromedario a bordo strada sembra ammonire sul non forzare le credenze. Il cielo diventa sempre più tremolante e vaporoso e le figure disegnate dall’erosione che sui picchi scuri di Kaf Ejoul sembrano acquistare movimento, è un paesaggio maestoso e inquietante dove non riesco a percepire dimensioni e distanze, e il reale si miscela con il fantastico è difficile mantere la mente nei binari della razionalità e se nella montagna delle adunanze dei Djinn si nascondesse una porta spazio temporale? Un passaggio verso la quarta dimensione e i misteriosi e terribili spettri dalle chiome rosse potrebbero essere eruditi viaggiatori nel tempo costretti a custodire con spietato rigore questo immane potere troppo grande per essere divulgato alla stupidità umana.
Il rettilineo si dissolve nell’ennesimo miraggio, ma questa volte non si perde nell’aridità, cresce in una grande macchia verde, è un oasi siamo arrivati a Ghat.
Ghat è un villaggio di confine siamo sulla frontiera Algerina e a un centinaio di chilometri dalla frontiera del Niger, attualmente con Ubari è il più importante insediamento fisso dei Tuareg. Ghat fu fondata dai Garamanti era una delle oasi fortificate più importanti del loro regno perché proteggeva il fianco meridionale di Garama (la Capitale) la medina attuale risale in gran parte al  1200 ma qui c’era un insediamento importante gia nel primo secolo avanti cristo. Al tempo delle grandi carovane transahariane era una città ricca e importante, anche se non come Ghadames, in posizione strategica per raggiungere le oasi del Niger e poi proseguire nel Mali per la mitica Timbouctu, Ghat si avvaleva della protezione delle le tribù guerriere tuareg alle quali i mercanti e i carovanieri pagavano il pizzo per garantire l’incolumità dei convogli. L’accordo funzionava bene tanto che la zona “protetta” fra Ghat e il Niger era chiamata dai tuareg “terra di pace”. Gli uomini blu erano i caschi blu del tempo, sembra un paragone irriverente e forse offensivo ma le camionette armate dei caschi blu visti lo scorso anno al confine tra il Marocco e la Mauritania a supervisionare sulla questione dei Saharawi, mi sembravano semplicemente corpi di militari professionisti (volontari è più elegante di mercenari ma secondo me anche più improprio) ingaggiati per difendere la pace. Ghat era governata da un sultano la cui discendenza si tramandava come da tradizione tuareg da linea femminile, il sultanato mantenne una grande autonomia che gli permise di commerciare senza problemi con gli stati vicini, questa situazione di “stabilità” si interruppe nel milleottocentosettantacinque quando i Turchi occuparono il Sahara e l’indipendenza di Ghat finì, fatto che unito all’abolizione della schiavitù avvenuta pochi anni prima ne sancì il declino.
L’insediamento fu poi amministrato dagli italiani durante il periodo coloniale e subito dopo dai francesi. Arrivati alla porta della medina Yaya ci lascia e va a fare benzina, lui qui non sarebbe venuto, per lui non ne valeva la pena di allugare di duecentocinquanta chilometri per venire qui e poi i tipi che gestiscono la medina non gli stanno simpatici “non c’è niente da vedere solo souvenir per turisti”. Ormai il sole è alto e abbagliante avvolge tutto, caldo secco, polvere, silenzio, mosche e contrasti netti di colore ma su tutto una luce forte acceccante che ti sfida ad attraversarla, è la luce dell’Africa. All’ombra di una tettoia di foglie di palme un gruppetto di uomini attende i visitatori,ci osservano in silenzio e ci offrono un the, si vede che non sono arabi, si paga il biglietto e il custode della medina ci indica la via. La porta d’ingresso è molto piccola è un arco che si apre nella muratura di paglia e fango, i vicoli dal fondo di sabbia sono stretti e ci proteggono con la loro ombra, la maggior parte delle case sono abbandonate da quando gli abitanti originari di Ghat si sono trasferiti nel nuovo insediamento poco fuori le mura, il solito processo di modernizzazione voluto da Gheddafi. Solo qualcuno è rimasto perché non ha voluto rinunciare al confortevole fresco delle case della medina, oggi però specialmente nella parte bassa della città vecchia ci sono diverse case abitate che sono state occupate da immigrati provenienti dal Niger. Una rampa di scale porta a una piazza rialzata, questo era il cuore della città dove si radunava la gente e venivano pronunciati i discorsi publici. Una scalinata ci porta sulla roccia che domina la medina dove si trova il forte italiano, rispetto alla medina la roccaforte in pietra ha un aspetto imponente con le massicce torri rotonde che ne potenziano le difese sui fianchi, dentro è una caserma, con questo clima secco tutto si conserva immutato e anche il forte sembra essere appena stato abbandonato, dalle sue mura si vede tutta la medina, il souk e anche l’oasi e il villaggio moderno. Scendendo incontriamo un anziano “buongiorno italiano” quando era un bimbo qui c’erano i soldati italiani e lui ha imparato un po’ di italiano, mi dice che qui gli italiani si sono comportati bene a differenza dei francesi che sono arrivati dopo, ha rughe profonde e occhi larghi e sognanti mi piacerebbe fargli un ritratto ma è sempre imbarazzante fare le foto alle persone con cui scambi emozioni, a volte sembra di sminuire il valore degli sguardi e delle parole. Passiamo davanti alla casa di un gigante arrivato dal Niger e poi usciamo dalla città fortificata. Yaya ci sta aspettando, partiamo subito non ha ancora fatto benzina perché la fila era troppo grande, per quanto possa sembrare strano fare benzina da queste parti è complicato perché i distributori sono pochi e non sempre c’è il carburante e spesso la fila è composta da decine di macchine e durante l’attesa il distributore diventa una specie di piazza.
Fatta benzina si torna verso Nord, pranzo sotto le acacie, poi sosta a Al-Aweinat per comprare l’olio per il motore del vecchio Land Cruiser e si parte verso il mitico deserto delle pitture rupesrti.
Insieme al Murzuq e al deserto bianco, l’Acacus era uno dei luoghi del Sahara che sognavo di vedere quando all’Elba  mi immaginavo e sbozzavo il percorso del giro del mondo. Siamo dentro, è come essere in un altro pianeta, racchiuso fra imponenti montagne nere l’Acacus è diverso da tutto quello visto prima, un deserto di sabbia dorata e basalti scuri erosi nelle forme più incredibili che si perdono in un paesaggio indefinito, rarefatto e nebuloso, tutto sembra evaporare per il gran caldo.
Ci sono delle impronte di fuoristrada, ma Yaya è schivo e prende un'altra direzione e questo mi piace, la magia di un luogo è fatta anche dalle persone e la fortuna ha voluto che l’Acucus lo vedessimo insieme a Yaya il silenzioso. Attraversiamo uno dei tanti Wadi della zona, il calore del sole nebulizza i contorni delle mille forme cangianti che ci scorrono intorno, un mondo di roccia nera e sabbia ocra, i basalti che galleggiano nel riverbero della sabbia come piramidi e isole, il “pianeta acacus” è un “inferno paradiso”. La mente non ce la fa a stare ai fatti, troppi stimoli di figure indefinibili e mutevoli e in un caleidoscopio di suggestioni in controluce diventano faraoni, guerrieri, odalische, sceicchi e draghi. Attraversiamo un mare di piccole dune compatte e poi ci fermiamo ad ammirare il grande dito di roccia, vediamo anche le prime incisioni, sono iscrizioni in carattere Tifinagt la lingua dei tuareg (i cui caratteri sono molto simili al Tamazigh) e dovrebbero risalire a tremila anni fa. L’Acacus è il territorio Tuareg per eccelenza, vivono qui da sempre con i loro animali spostandosi costantemente per gestire in maniera oculata le poche risorse di acqua e vegetazione che questo ambiente offre, oggi si sono quasi tutti trasferiti a Ghat diventando stanziali ma qualche famiglia continua a vivere qui nella maniera tradizionale, schivi e refrattari ai cambiamenti. Vediamo le case di un nucleo familiare, sono capanne di paglia appoggiate sotto una grande parete scura, mi immaginavo di trovarle ai margini della foresta ma non nel deserto le capanne di paglia, ma come dice Yaya “c’è acqua, biggolo bozzo per gente di acacus e erba basta per fai casa” gli chiedo se possiamo andare a vedere ma mi dice che “loro piace tranquilli” “tuareg no arab” aggiunge Haroun e di nuovo Yaya a chiudere “IMASHAGHEN” altro modo per definire i tuareg che significa nobili e liberi a significare che se uno sceglie questo stile di vita è per avere la tranquillità e la libertà che svanirebbero avendo intorno estranei in cerca di souvenir.
In alcuni punti c’è un po’ di vegetazione, acacie e strani alberi che fanno un frutto tondo tipo una zucca, è un albero che non ha nome, non se lo merita perché non è buono “nemmeno per cammello”. La giornata è volata andiamo verso le montagne più alte e montiamo il campo in un posto fantastico. Salgo da una duna appoggiata al monte per raggiungere un picco che regala un panorama a cui nessun superlativo può rendere giustizia, il sole sta ponendo mentre sale la luna piena, intorno a me un mare di forme e colori, isole e piramidi nere e perfette si ergono dal lago di sabbia mentre il disco gigante dell’astro infuocato si cala dietro il crinale nero che chiude un orizzonte circolare. Devo cambiare l’uso degli aggettivi, da oggi sarò molto più parco nell’uso dei superlativi, ma non per questo tramonto bellissimo. Serata intorno al fuoco illuminati dalla luna tonda fra racconti e indovinelli spesso disegnati nella sabbia, è una notte di stelle cadenti anche loro qui sembrano più grandi. Prima di entrare in tenda  mi godo il privilegio immenso di una camminata notturna nelle sabbie del Pianeta Acacus.  
   

Luned?¨ 10 novembre 2008 da Sebha alla Duna di Tansen ‚Äì Libia

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Territorio Tuareg
Stamattina fa prorio freddo e si sta bene imbacuccati, c’è movimento intorno si sente rumore dei fuoristrada che si stanno preparando a partire. 
Alle otto arriva Yaya, la nostra guida, insieme ad Haroun il suo aiutante, mi fanno subito una buona impressione sono gentili, hanno occhi grandi e rilassati e poi il paragone con silenzio è impietoso, se fino ad oggi l’accompagnatore è stato un obbligo imposto, da qui e per i prossimi giorni dentro il deserto un mezzo e un accompagnatore esperto sono indispensabili. Carichiamo i nostri zaini nel fuoristrada, è un vecchio Land Cruiser a balestre di una ventina d’anni fa, ma è attrezzato bene e ha le gomme nuove. Si parte, la macchina è stracarica di viveri, a bordo c’è tutto un altro clima non è che si parla tanto, in relatà la maggior parte del tempo è passata in assoluto silenzio, ma non si respira nessuna ostilità e poi questo è un luogo di silenzio. Sia Yaya che Haroun sono due Tuareg e vivono a Ubari, Yaya parla un po’ di italiano, lo ha imparato accompagnando i turisti e i ricercatori nel deserto dell’Acacus di cui è un grande conoscitore, Haroun è il cuciniere originario del Niger e questo per noi è un vantaggio perché parla francese, fra di loro parlano Tamashek la lingua dei Tuareg che è molto simile al Tamazigh dell’Atlas, del resto la tribù Tuareg ha origine dall’etnia Amazigh, il suono è simile e alcune parole tipo “la bas” (com’è?) e “adrar” (montagna) sono le stesse. Si procede sulla strada asfaltata in direzione sud-ovest, dopo un primo tratto di sola aridità entriamo in una larga gola delimitata a nord dalle dune sabbiose del deserto di Ubari e a sud dalla catena montuosa dello Msak Settafet, siamo nel Wadi al-Hayat che in Tamashek significa “valle del valore della vita”, è un paesaggio arido e monotono, almeno per i nostri parametri, in realtà questa lunga valle è la zona più fertile del Fezzan grazie al sottosuolo ricco di acqua. Ogni tanto si vede l’acqua uscire dai grandi tubi dei pozzi e tutt’intorno macchie di verde intenso e palme da dattero. 
Nella valle ci sono tre insediamenti, Takerbiba, Germa e Ubari che è il principale insediamento dove risiede la maggior parte dei Tuareg della Libia, i Tuareg solo negli ultimi anni si sono stabiliti in fissa dimora, fino a pochi decenni fa vivevano in maniera nomade abitando nelle tende. A Ubari facciamo la prima sosta, ci fermiamo per timbrare i passaporti, questa è una regione di frontiera e i controlli sono molto rigidi anche perché i rapporti con la vicina Algeria e il Niger sono sempre delicati. Approfitto della sosta per prendere un caffè, è un ambiente pigramente rilassato mi sento un nano in mezzo a tutti questi giganti col camicione lungo e i grandi turbanti, proprio al contrario di come mi sentivo sull’Atlas dove erano tutti molto più piccoli di me. Sbrigate le pratiche burocratiche riprendiamo la via, la strada è un infinito rettilineo che sfuma nell’orizzonte, il caldo crea un riverbero cosi’ forte che il paesaggio sembra galleggiare dentro una nuvola di gas, è difficile tenere gli occhi aperti in questo panorama accecante e indefinito. Dopo un paio d’ore incrociamo qualche pianta di acacia e facciamo una sosta sfruttando la loro ombra, sono piante arcigne che hanno imparato a vivere in questo ambiente estremo e per difendersi sono dotate di grandi spine.
In un ambiente totalmente diverso da dove l’abbiamo lasciato ritroviamo il rito del the, osservo Yaya mentre sotto le acacie raccoglie piccoli pezzetti di legna secca, è una figura elegante, lungo lungo con il volto e la testa avvolti in un turbante bianco lungo svariati metri che forma un groviglio di stoffa che lascia vedere solo il naso e gli occhi, come da tradizione Tuareg non mostra mai il volto quando mangia e solo dopo ci chiama per offrirci il the fatto nella piccola teiera messa a bollire su un focolare minimale alimentato da pochi stecchi secchi. La luce è sempre più accecante, la monocromia nebbiosa del paesaggio è interrotta solo dalle fiamme di alcuni pozzi di petrolio vicini alla strada. Arriviamo a Al Aweinat piccolo villaggio che è anche una delle porte per il deserto dell’Acacus, Yaya vorrebbe entrare subito ma in questo modo salteremo Ghat che è un posto che voglio vedere, quindi proseguiamo verso sud in maniera da poter essere a Ghat domattina. Finalmente si lascia la striscia asfaltata e entriamo nel deserto, prima compatto e con qualche acacia in qua e là e poi solo di sabbia, avanziamo per qualche chilometro e poi ci fermiamo sotto la grande duna di Tansen. Tutto quello che finora abbiamo chiamato con il nome di duna al confronto sembra un semplice cumulo di sabbia, secondo Yaya questa duna non è niente di che rispetto a quello che vedremo nel Murzuq e nell’Ubari. Il sole scende veloce e i colori cambiano in un attimo, saliamo sempre più in alto osservando le dune che si perdono infinite verso sud nel vicino territorio algerino, i confini hanno poco senso ovunque ma meno che mai in queste regioni di sabbia. Appena dopo il tramonto il colore delle dune diventa incredibile e indefinibile, tra l’arancio e l’ocra e il gioco dei chiaroscuri rende cangianti i colori e le forme, dall’altro lato una luna sempre più grande sta salendo dietro la catena scura dell’Acacus che ora è ben definita, rendendo tutto ancora più bello. Dopo aver montato la tenda ceniamo intorno al fuoco, la notte è illuminata dalla luna quasi piena andiamo a fare una cammina notturna avvolti in uno spettacolo che non si puo’ descrivere. L’aria è fredda ma camminando si sta benissimo anche perché c’è totale assenza di umidità, quando si trorna Yaya e Haroun stanno già dormendo sotto le coperte vicine al fuoco. 
 
   

Domenica 9 novembre 2008 da Ghadames a Sebha – Libia

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Sebha e le gigantografie di Gheddafi
Il sergente silenzio è fuori dal cancello che aspetta, carichiamo gli zaini e inaspettatamente partenza  con sgommata e media di centoquaranta. Dopo una mezz’ora ci fermiamo per un caffè, il bar è gestito da un marocchino che ci parla male del Marocco e bene della Libia, lui ha sposato una libica e ha risolto il problema mi spiega “qui c’è il petrolio e lo stato da a tutti una casa e una macchina”. Fa ancora freddo, il deserto al mattino sembra circondato da ghiacciai, a poca distanza dalla strada stanno costruendo un grande acquedotto, è un cantiere lungo diversi chilometri dove vengono interrati dei grandi tubi, i mezzi sono moderni e tutti nuovi, gli scavatori in fila sembrano tanti dinosauri in marcia. Tiriamo dritto fino a Ash-Shwareef dove si fa sosta per mangiare chawarma di pollo, anche qui il venditore non è libico ma tunisino e ci tiene a dirlo. Ora si punta a sud il sole è diventato caldo e accecante, davanti a noi il grande lago specchiato dei miraggi non si fa mai raggiungere, sullo sfondo le montagne nere si stagliano nette in un paesaggio indefinito di aridità e miraggi e sembrano nascondere dei misteri, ogni tanto un branco di dromedari attraversa la strada, pascolano tranquilli mangiando apparentemente polvere, così come le capre che si vedono in lontananza intorno alle tende dei nomadi. Le tende sono le stesse dei pastori nomadi dall’Atlas ma intorno ci sono pick up e fuoristrada, in Libia anche i nomadi non sembrano passarsela male. La strada scorre dritta  sempre più piccola fino a perdersi in un orizzonte tremolante, ancora cantieri nel deserto questa volta per costruire una strada, rimango colpito dagli operai tutti ben attrezzati con guanti e maschere antipolvere, è un'altra Africa rispetto al Marocco e anche alla Tunisia. Incontriamo le prime dune, il deserto sabbioso è un mondo a parte ne terra ne mare, le dune stanno avanzando sulla strada e il vento disegna forme gangianti di sabbia gialla sul nero dell’asfalto, in lontananza la macchia verde di una grande oasi, siamo arrivati a Sebha. Questa città è diventata la più importante fra quelle del sahara libico, è la nuova Ghadames crocevia dei commerci e punto di sosta per la gente che risale il deserto dal Ciad per andare verso la costa in cerca di fortuna. E’ una città estesa e  moderna con grandi palazzi, imponenti edifici pubblici e prati verdi, un po’ da tutte le parti ci sono gigantografie di Gheddafi che declamano la grande Libia alla testa degli stati uniti d’Africa, o il deserto trasformato in distesa verde, altre la ricorrenza del trentanovesimo anno della rivoluzione.
Il sergente silenzio ci accompagna in un bel campeggio a qualche chilometro dal centro dove per cinque dinari ci si puo’ accampare. In serata un signore gentile ci accompagna in centro, solita sosta a internet che pero’ produce poco per la difficoltà di connessione. La gente è gentile e incuriosita non sono abituati a vedere europei che non sono ne turisti organizzati ne qui per affari, è una città in grande espansione e si vede che la gente sta bene dai negozi ben forniti e dalle tante attività. Come da accordo ci ritroviamo con il nostro amico e rientriamo al campeggio dove nel frattempo sono arrivati i turisti che attendevano ma non li vediamo perché sono già andati tutti a dormire. Ci trasferiamo al ristorante dove ci sono le prese della corrente sfruttando l’ospitalità dei ragazzi che stanno preparando il mangiare per domani.
   

Sabato 8 novembre 2008 Ghadames – Libia

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la nicchia di Al-Kadus

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Ghadames: la casa dei cento specchi, il kadus e la città delle donne
Sveglia in stato di rincoglionimento, ieri anzi stamani s’è fatto tardi a internet per inserire un po’ di roba pero’ con risultati scarsissimi. Ghadames era tranquilla anche ieri ma la mattina lo è ancora di più. Andiamo a vedere il museo che è allestito dentro il fortino costruito dagli italiani, proprio davanti all’ingresso della città vecchia, c’è un’interessante raccolta di documenti, qualche bella foto, un po’ di reperti archeologici e dei bei rilievi grafici della città vecchia fatti dagli italiani. Fuori dal museo ritrovo Il sergente silenzio che ci aspetta, non lo vedevo da ieri, da quando ci ha lasciato all’ostello, è dentro la sua macchina astronave con radio computer e telefoni corrazzati, sembra un agente segreto, con solito ghigno sentenzia “tomorrow morning, eight o’clock baggage in the car. Eight o’clock” e ci si saluta. Si entra dentro la città dalla porta principale Bab al-Bur, poi svicoliano da un viottolino laterale circondato da alti muri bianchi di calce, la città è fresca e si sente scorrere l’acqua nei canali. Un piccolo portale ci conduce alla prima moschea, da qui parte la via principale della città che è un camminamento coperto che passa a fianco della moschea, i vicoli coperti sono illuminati da lucernai sul soffitto protetti da griglie in cannicciato, appena di fianco un atrio si apre su una piazzetta senza copertura. La via è un corridoio sinuoso con il pavimento di terra e sabbia battuta su cui si aprono le porte di legno di palma delle case, ogni tanto c’è uno slargo con delle murelle sui due lati che fanno da punto di ritrovo. C’è una porticina semi aperta, nella penombra si sale tre rampe di scale che finiscono in una botola, mi affaccio e sbuco sul tetto, ci sono un muratore e tre manovali che un po’ sorpresi mi danno il benvenuto e mi invitano a salire, la  sorpresa diventa stupore quando vedono che c’è anche Serena. Stanno facendo un massetto di sabbia e calce con cui rifiniscono il piano di calpestio del tetto, è un'altra Ghadames estesa e luminosa con un orizzonte a trecentosessanta gradi che spazia su tutti i tetti della città e sulla confinante oasi. Uno dei ragazzi con il benestare del bonario capomastro si diverte ad accompagnarci per i tetti e mi fa tornare in mente di quando facevo il manovale e cercavo sempre qualche scusa per allontanarmi dal cantiere. Ghadames dai tetti è favolosa si cammina fra muretti scale e cornicioni, una volta capito il meccanismo ti rendi conto che è tutto collegato, anzi era perché ormai un po’ di tetti sono crollati, questo era il mondo delle donne che sviluppavano fra questi tetti piatti la loro socialità, una volta alla settimana qui veniva fatto un mercato riservato esclusivamente a loro. Alle donne le vie e le piazze erano interdette, nonostante il ceppo originario della gente di Ghadames sia berbero, qui le donne vivevano praticamente segregate nelle case, in base al rispetto dei rigidi dettami dell’Islam.
La struttura attuale della città risale a circa otto secoli ma l’oasi è abitata da molto tempo prima, almeno da tre millenni, ma il primo insediamento di cui si ha memoria storica è Cydamus la Ghadames dei Romani che qui giunsero nel diciannove dopo Cristo. I Romani fortificarono la città e grazie alla ricchezza d’acqua coltivarono intensamente l’olivo, nel sesto secolo sotto i bizantini abbraccio’ il culto cristiano ma nel successivo con l’avvento dell’islam la popolazione si converti’ al credo mussulmano. Ghadames nel corso dei secoli rimase comunque sempre molto indipendente dal poter centrale in virtù del suo isolamento e della sua ricchezza dovuta ai trafficci carovanieri.
Ritornati nella via coperta si prosegue nella fresca penombra, Ghadames è un bianco labirinto serpeggiante, una complessa ragnatela di vicoli con il tetto su cui si aprono centinaia di porte, a volte si finisce in vicoli bui e chiusi a volte in piccole piazzette, c’è ne sono diverse e erano i punti predestinati agli incontri e alle decisioni. Numerose sono anche le moschee e le madrasse, senza accorgermene mi trovo dentro una vecchia moschea, c è un canale dove scorre l’acqua che  alimenta le sale delle abluzioni, questa parte, e anche la stanza più antica dedicata alla preghiera, è stata costruita sfruttando colonne e lastre dell’antica città Romana ed è collegata a una zona più recente che si apre su un cortile, da cui poi si rientra nella via. La città è molto più viva di quello che pensassi, anche perché la gente preferisce le fresche case tradizionali a quelle in cemento volute da Gheddafi nel villaggio nuovo. Un’altra piacevole sorpresa è che non ci sono turisti almeno per ora, credevo di trovare centinaia di turisti e tante bancarelle nella mitica Ghadames invece è un posto di grande magia e autenticità, anche se la stragrande maggioranza delle case sono ormai abbandonate. Spingendo una delle tante porte di legno di palma con stupore si entra in una casa, dentro è molto grande e si sviluppa su tre piani, è praticamente perfetta si vede che è stata abbandonata da poco, il secondo livello è favoloso: è una serie infinita di nicchie e specchietti, ante colorate, fregi e rilievi nelle pareti e tanti dipinti bellissimi dai colori vivaci, ci sono più scale all’interno che portano in tanti piccoli stanzini in cui si entra da archi sinuosi, ci sono anche quadri e pannelli sempre molto colorati e finemente decorati, ogni piccolo dettaglio è curato anche aprendo le ante più piccole nelle nicchie si trovano decori e disegni molto dettagliati e sempre diversi. Questo era il regno delle donne che vivendo sempre in casa passavano la vita ad abbellire le loro case regalandogli colori sgargianti e vitali in contrasto con la loro condizione molto simile alla clausura, come se tutta la loro fantasia e vitalità fosse concentrata e rappresentata su queste pareti. Ma la cosa più spettacolare sono le decine di specchi murati nelle pareti, ce ne sono di svariate dimensioni e riflettono la luce che viene dal soffitto in tutte le stanze, creando una magia di fasci di luce di diverso spessore che attraversano le stanze in tutte le direzioni dando il tocco finale a questo castello psichedelico dalle pareti di fango e paglia. Oltre che gusto e fantasia ci voleva una grande abilità a posizionare gli specchi per riuscire ad illuminare una casa di tre piani e più stanze con la luce che arrivava dall’unica porta che dava sul tetto. Arrivati sul tetto a terrazza la luce ormai accecante ci abbaglia, siamo finiti in una zona abbandonata ma ancora percorribile, dai tetti entriamo in un altro paio di case simili per dimesione e disposizione alla prima, ma nessuna ne compete in bellezza e magia. Usciamo dal perimetro urbano per fare un giretto nella parte nord dell’oasi dove ci sono delle palme da datteri molto grandi, l’oasi è ancora tutta coltivata ed è ricchissima di uccelli che qui trovano riparo sotto i palmeti, ci sono anche i recinti con le pecore e i pollai. Rientrati nel perimetro cittadino arriviamo nella piazza centrale di Ghadames dove per otto secoli si sono prese le decisioni più importanti di questa comunità. La città è divisa in due zone principali a Nord dominavano i Beni Walid e a Sud i Beni Waziz che a loro volta erano divisi in tre e quattro quartieri interni e aministrati come un villaggio a se stante con tanto di cancelli che venivano chiusi al tramonto. Ogni quartiere di queste zone aveva i mercati, una moschea, una madrassa e una piazza propria, che era il luogo deputato alle celebrazioni più importanti come i matrimoni e i funerali e dove i notabili si riunivano per disquisire le questioni della loro zona. Quando pero’ c’erano dei problemi che riguardavano tutta la città ogni villaggio interno mandava un suo rappresentante, di solito il più anziano, a discutere nella piazza centrale insieme a deputati delle altre sei zone. Sulla piazza principale si affacciano le due moschee più importanti di Ghadames, la Yunis che appartiene alla famiglia Waziz e la moschea Atik legata alla famiglia Walik, si dice che questa sia la moschea più antica della Libia fu edificata nel 666 dopo cristo e rimase pressoché inalterata fino all’undici novembre del millenovecentoquarantatre, quando fu distrutta da un bombardamento aereo effettuato dai francesi che danneggiarono seriamente anche la moschea Yunis di poco più recente, entrambe le mosche oggi sono perfettamente ricostruite. Nel bombardamento furono distrutte settanta case e ne furono danneggiate circa ducento, morirono trentanove civili di cui dodici bambini, come riportato nei documenti che abbiamo visto esposti stamani nel museo.
La cosa più interessante di questa piazza per me è l’Al-Kadus, una nicchia ricavata sul fianco esterno della moschea Yunis sopra il canale dell’acquedotto che arrivava dalla sorgente di Ghadames, la risorsa più importante della città. La complessa rete idrica copriva tutto l’insediamento e la gestione del patrimonio idrico era condotta in maniera rigorosa, la priorità la avevano le abitazioni, poi le moschee dove si trovavano anche le fonti pubbliche ed infine i coltivi. Per regimare le acque in maniera precisa nella nicchia a fianco della moschea c’era sempre un adetto che doveva controllare il consumo di kadus di ogni canalizzazione. Il kadus è un recipiente forato che per svuotarsi ci metteva circa tre minuti una sorta di clessidra ad acqua, ogni kadus veniva segnalato con un nodo su una corda e nove kadus facevano una dolmesa, in questo modo si controllava e si regolamentava il consuno idrico. Due aiutanti dell’uomo del kadus aprivano e chiudevano i canali con i sassi assicurando il perfetto svolgimento delle operazioni e a loro volta controllavano il controllore. Il kadus durava circa tre minuti, era il tempo che impiegava il recipiente usato come unità di misura, i kadus erano contati in modo cosi’ regolare che venivano usati anche per misurare lo scorrere del tempo, bastava passare dalla piazza di fonte per sapere che kadus era, grazie a questo sistema Ghadames aveva un sistema di misura del tempo unico e indipendente dal resto del mondo. Mi sposto verso ovest per vedere la famosa “pozza della cavalla” Ain  al-Faras la sorgente principale dell’insediamento, cosi’ chiamata perché sembra che fu scoperta dagli zoccoli di una cavalla, la leggenda racconta di una carovana proveniente dal deserto che fece tappa nell’oasi, ripartirono il giorno seguente dimenticandosi pero’ una pentola, uno di loro torno’ indietro a recuperarla e nei pressi del bivacco del giorno prima gli zoccoli della cavalla trovarono la sorgente, da qui il nome Ghadames dall’unione di “ghad” (pranzo) con “ames” (ieri). La pozza è una grande vasca molto profonda, ora è secca perché ci stanno lavorando rifacendone tutto il fondo in cemento, è un lavoro grande che comprende anche tutta la bordatura e sicuramente quando sarà finito sarà molto scenico, speriamo che non discosti toppo dall’originale. Questa era la zona esterna alle mura dove gli stranieri sostavano e dove si fermavano le carovane in arrivo, oggi qui si sviluppa il quartiere più giovane della città vecchia, la Fogas è abitato dai tuareg che abbandonata la vita nomade si sono stabiliti qui a partire dagli anni sessanta.
La ricchezza e la fama di Ghadames erano legate ai traffici carovanieri e ai suoi mercanti, in realtà la città eveva un solo prodotto locale che esportava, le pantafolole ricamate, ma per la posizione strategica di punto di sosta quasi obbligatorio nel deserto, e per l’abilità commerciale dei suoi  abitanti, divenne un importantissimo centro di commercio, un porto franco in mezzo al deserto dove confluivano e si scambiavano le merci provenienti da un’area vastissima che andava dalla Mauritania, all’Egitto e dal Mediterraneo al lago Ciad, inoltre questi viaggiatori portavano sempre notizie fresche e questo era uno dei posti più aggiornati sui fatti di questa vasta area. I marcanti di Ghadames gestivano i loro enormi traffici senza muoversi mai da qui controllando le merci quando transitavano e affidandosi a una grande rete di emissari. Le carovane dall’Africa interna portavano qui soprattutto schiavi ma anche oro, pietre preziose, avorio e piume di struzzo. Mercanzie che poi venivano  inviate verso la costa mediterranea e in parte vendute in Europa, dalla costa magrebina  invece arrivavano spezie e oggetti d’arte e tessuti pregiati di provenienza europea. Il periodo d’oro di Ghadames fini’ con l’abolizione della schiavitù intorno al 1840, prima la Tunisia e poi l’Algeria sotto le pressioni europee finalmente misero al bando la tratta degli schiavi e la città perse velocemente il suo predominio commerciale.
Troviamo un’altra porta aperta, saliamo dentro una casa parzialmente crollata, pero’ si riesce a salire sul tetto, siamo nella zona sud la zona del casato Waziz, qui a differenza della zona nord, quella dei Walid dove abbiamo visto la fiabesca casa abbandonata degli specchi, hanno cominciato a restaurare, le abitazioni e i tetti restaurati sono tutti scintillanti di bianco candido, anche i camminamenti fra i tetti sono agevoli, giriamo una mezz’ora fra tetti e stanze e poi scendiamo sbucando in uno stanzone che doveva essere un grande magazzino e ora è diventato il deposito di un cantiere. Ritroviamo i vicoli freschi con le panchine, passa anche un gruppo di turisti pallidi pallidi e tutti spellati, mi sposto verso l’oasi questa volta, allontanandosi dal centro i giardini diventano sempre più estesi, la via passa da una piccola moschea con anessa madrassa, è piccola ma armonica ed elegante, il cortile interno è un luogo di quiete, circondato da archi e tante merlature ma tutto il complesso è gradevole. Anche dentro l’oasi stanno facendo tanti lavori di restauro specialmente muri a secco, è il posto dell’Africa dove ho visto fare i lavori più precisi, lavorano con grande padronanza del mestiere lo si vede dalla precisione delle cantonate e da come rifiniscono i lavori con la malta e le imbiancature. L’oasi è molto rigogliosa e ci sono le palme stracariche di datteri, pero’ nella parte più esterna ci sono anche tanti palmeti che stanno seccando, forse la città nuova assorbe troppa acqua. E’ ormai buio quando usciamo dalle mura, di notte è più facile capire quante sono le case realmente abitate, di sicuro almeno una decina mentre la zona tuareg della Fofas e tutta abitata. Da qui rientriamo nella città nuova, la vita scorre tranquilla c’è cortesia senza bramosia, credo dipenda anche dall’impostazione socialista di questa nazione. Come ieri mangiamo nella locanda di un egiziano che tutto contento di rivederci ci rimpinza di pollo, riso e ragù che qui usano principalmente per farcire i panini, visto che gradisco assai il sugo di ciccia me ne offre un piattone a cui naturalmente faccio onore. Poi si va a internet dove abbiamo fatto tardi anche ieri, ci pigliano un po’ per matti ma ci trattano tutti molto bene nonostante le malefatte italiche al tempo di Graziani e le carinerie del meneghino le cui esternazioni sul colore di Obama sono state riprese dai notiziari. Anche intenet è più libero rispetto alla Tunisia dove molti siti erano oscurati, non che voglia tessere le lodi a Gheddafi, che tra l’altro mi ha imposto “silenzio” pero’ è un paese interessante. Sono le tre quando torno all’ostello, l’aria è secca ma fa un gran freddo e la temperatura richiede due pile.

   

Venerdi’ 7 novembre 2008 da Nalut a Ghadames – Libia

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Sinoun

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Derj

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Il Marabutto

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il Forte Italiano

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La Nuova Moschea di Ghadames

 

Finalmente l’Africa
Il sole sorge alle sette e mezzo dalle montagne con la testa mozzata e illumina la vecchia fortezza abbandonata di Nalut, fa freddo al mattino i pochi abitanti in giro sono tutti imballati in pesanti coperte. Sono quasi le dieci quando partiamo in direzione sud verso Ghadames, la strada è un infinito rettilineo nel nulla un po’ roccioso e un po’ sabbioso, ogni tanto si incrocia qualche branco di cammelli il traffico è pressoché insistente passa solo qualche carovana di camion iveco con degli enormi tubi destinati a oleodotti e acquedotti, perché nel deserto si sta cercando di incanalare anche l’acqua, di tanto in tanto si vedono delle bandierine verdi e viola che indicano le zone dove  sono stati individuati i giacimenti di petrolio. Incontriamo il piccolo villaggio di Sinoun che è attraversato dalla strada, il villaggio in pietra e fango è abbandonato, a fianco c’è il nuovo insediamento con le grandi brutte case di cemento tutte uguali. Ancora deserto roccioso, il Sergente Silenzio continua a andare a un passo da bradipo, con la sua pulitissima kia appena individua una buca praticamente si ferma e comunque non supera mai i novanta all’ora. Ci fermiamo a Derj antica che si presenta assai affascinante, Silenzio non si vuole fermare ma insisto e ci lascia nel vecchio villaggio, mentre lui va nel nuovo centro a mangiare. Finalmente rimaniamo soli, ci facciamo un giretto nella città vecchia che nonostante le apparenze è ancora abitata, uomini e ragazzi vestiti con lunghi ed eleganti camicioni bianchi sbucano dai vicoli coperti del villaggio, finalmente la sensazione di essere in Africa, silenzio, luce accecante e uomini dalla pelle scura. Entriamo nei camminamenti è come un labirinto con il tetto, la luce filtra soffusa dai cortili laterali ma in alcuni tratti è proprio buio, nel punto più ampio c’è una moschea, una piccola moschea bianca dove il muezzin sta chiamando alla preghiera con una cantilena intonata e serena. Il villaggio si sviluppa su una piccola collinetta, sotto c’è il cimitero con un marabutto bianco che da un tocco mistico a tutto l’insieme, si avvicina un ragazzo che gentilmente mi invita a non sostare nel cimitero, scambiamo qualche battuta, quando gli dico che sono italiano, mi indica il forte sulla collina vicina e mi dice che l’hanno costruito gli italiani che qui non hanno lasciato buoni ricordi e mi chiede se conosco la storia della Libia, sarebbe bello approfondire ma in questo caso la lingua è un grosso limite. Facciamo un giretto nell’oasi a fianco insieme a un gruppo di ragazzini che, dopo averci osservato curiosi dall’inizio, si sono decisi a fare conoscenza, insieme a loro facciamo un altro giro dei vicoli ripassando davanti alla moschea che ora non è più vuota, fuori dall’ingresso ci sono tante calzature, la porta è aperta e intravediamo gli uomini che pregano all’interno.
Poi ritorna il sergente e si parte. Ancora un infinito rettilineo, il paesaggio tutto uguale, il sole negli occhi, l’andatura bradipa, è un casino tenere gli occhi aperti. Tra sogno, sonno e realtà a un certo punto il verde dell’oasi della mitica Ghadames, la città dei mercanti tuareg, Silenzio parla “old city” quando passiamo a fianco alla vecchia Ghadames ormai disabitata e convertita a grande museo per i turisti da quando il colonnello Gheddafi  ha deciso di spostare la popolazione  nel nuovo villaggio costruito a fianco. Silenzio ci vuole portare in albergo ma insistendo un po’ riusciamo ad alloggiare nell’ostello, la soluzione di alloggio più economica di Ghadames si trova in un edificio costruito dagli italiani che assomiglia all’ex scuola media di Campo. Come a Derj anche qui ci si sente in Africa, il deserto, le palme, i tuareg. La Ghadames nuova è una ricca cittadina di frontiera al confine con il deserto Tunisino e Algerino in cui spicca una grande e bella moschea moderna, i negozi sono ricchi di merci, quasi tutte d’importazione, yogurt tedeschi e mele italiane della Val Venosta che, incredibile ma vero, in pieno deserto a Ghadames costano meno che all’Elba, dev’esse’ che qui un c’è il costo del  traghetto. Cena in un bar ristorante che offre pollo arrosto, riso e la specialità in lattina più richiesta della Libia, il succo di frutti di bosco con le bollicine. La maggior parte degli abitanti di Ghadames sono di pelle scura, alti eleganti e allo stesso tempo robusti, spesso vestiti in maniera tradizionale con la veste lunga e il turbante, danno l’idea di essere persone molto tranquille. La prima impressione della Libia è quella di un paese rilassato, il sistema socialista introdotto da Gheddafi sicuramente discutibile sotto tanti aspetti, ha pero’ portato un benessere generale e ha liberato la gente dalla bramosia e dall’ansia dell’accumulare e dell’arraffare, lo si respira camminando per le vie dove nessuno, ne grandi ne piccoli, ti assale con grandi falsi saluti per venderti qualsiasi cosa. E’ ormai il tramonto quando ci affacciamo dentro la vecchia Ghadames, ormai la luce è poca per fare le foto è comunque affascinante e non è totalmente disabitata come dicevano qui, domani la vedremo bene.
   

Giovedi` 6 novembre 2008 da Sabratha a Nalout – Libia

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Il Teatro

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Il Tempio di Iside

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Il Tempio di Serapide

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Il Tempio Liber Pater

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Il Foro

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Statua di Flavio Tullio

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Il Mausoleo di Bes

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Qsar al Haj

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Nalut

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Tutte le foto del giorno in Galleria Fotografica

 

Il magico silenzio di Sabratha e la pesantezza di Silenzio e lo Jbel Nafusa
Il macchinone di Silenzio è già in attesa quando mi affaccio, ha piovuto tutta la notte e nuvoloni neri sono ancora li’. Un cartello con la scritta Old Sabratha accanto al rudere di una chiesa abbandonata ci indica la via per la città antica, un paio di chilometri e ci siamo, Silenzio ci lascia e possiamo andare a vedere gli scavi.
Il grande teatro cattura subito l’attenzione, è un monumento grandioso e magnificamente restaurato. La storia di Sabratha è strettamente legata a Roma, anche se la sua origine è sicuramente precedente, già nel quinto secolo avanti cristo qui c’era un piccolo insediamento berbero, nel quarto fu costruita la città Punica da coloni provenienti da Cartagine che si fermarono qui attratti dal porto naturale, nel secondo secolo a.c. arrivano i coloni greci che ne estendono il territorio ellenizzandone l’architettura e facendola divenire un importante centro commerciale. Nel primo secolo dopo cristo Sabratha fu colpita da un grande terremoto, ormai sotto il dominio di Roma la città fu ricostruita secondo lo stile architettonico delle città romane, come per le altre città coeve viste in Tunisia questo fu un periodo di grande splendore per la pax romana che fece prosperare il benessere di queste ricche colonie, cosi’ come per la successiva dinastia dei Severi che, in quanto di origine africana (il capostipite Settimio Severo era natio della vicina Leptis Magna) ebbero sempre un occhio di riguardo per le città nord africane. Il declino di Sabratha è legato al grande tremendo terremoto del trecentosessantacinque che distrusse tutta la città anche perché costruita principalmente con blocchi di arenaria, l’impero romano ormai era in decadenza e il culto cristiano ormai diffuso impedi’ la ricostruzione dei templi, Sabratha continuo’ ad essere abitata ma il suo splendore era perso per sempre. Nel 553 cadde in mano bizantina per merito del generale Bellisario, dopodiché vennero utilizzate le pietre degli antichi monumenti per costruire una fortificazione  intorno al porto e alla zona alle sue spalle, riducendo di molto l’estenzione dell’insediamento. Sabratha venne abbandonata per sempre dopo la conquista araba del settimo secolo e poi fu sommersa dalla sabbia e riscoperta dagli archeologi italiani negli anni venti. Fu scavata e restaurata soprattutto per merito degli archeologi Giacomo Grandi e Giacomo Caputo che con grande competenza ricostruirono alcune delle principali vestigia dell’antica città.
Il cielo si apre e tutto s’illumina, ci siamo solo noi dentro Sabratha, andiamo subito a vedere il teatro che dall’interno è ancora più spettacolare, il fondale è grandioso ci sono oltre cento colonne distibruite su tre livelli per un altezza complessiva che supera i venti metri, nonostante  si veda che è stato ricostruito lascia senza fiato, anchel’impatto del palcoscenico e del pulpito è grandioso, quest’ultimo è tutto rivestito di marmo e ci sono una serie di grandi nicchie dove sono scolpite decine e decine di figure fra cui le immancabili Tre Grazie. Tutto è sovrastato dalle gradinate  che potevano ospitare cinquemila spettatori che dall’alto permettono una visione d’insieme straordinaria con le rovine della città che si stagliano fra cielo e mare. Molto belli sono anche i livelli inferiori e sotterranei ricchi di camminamenti e stanze che sono rimaste immutate dalla costruzione del  monumento che inizio’ sotto Commodo intorno al 190 e fu completato sotto Settimio Severo. E’ un posto magico e il fatto che non ci sia nessuno permette di intrufolarsi anche nelle zone interdette, purtroppo il tempo a disposizione è limitato sicuramente non saranno le due ore concesse da Silenzio, ma nemmeno quello che vorrei. Ci spostiamo verso il mare in direzione est dove  si vedono tante colonne che spiccano possenti sul mare agitato, è il tempio dedicato a Iside la dea protettrice dei naviganti, è per questo motivo che il santuario in onore della dea di origine Egizia fu costruito vicino al mare. La ricchezza di Sabratha era legata strettamente al suo porto da qui partivano alla volta di Roma carichi di oro, fiere e schiavi portati in città dai berberi dell’interno, insieme all’olio e al vino che erano i principali prodotti agricoli della città, mentre dalla vicina penisola italica e dalla Sicilia giugevano qui attratti dalla ricchezze della colonia Africana, artigiani e commercianti che contribuivano a far diventare sempre più importante la città. Intorno agli scavi ci sono ancora le piccole ferrovie e i vagoni usati durante lo scavo archeologico che mi riportano alla mente quelli simili visti a Volubilis in Marocco che fu la città più meridionale dell’antica Roma. Camminando lungo costa incontriamo un bagno pubblico chiamato le Terme di Oceano  dove si vedono ancora i resti degli impianti termali rivestiti di marmo e poi si risale brevemente attratti dai resti di due basiliche Bizantine con i pavimenti ricoperti di mosaici molto belli e colorati fra cui uno curioso e mai visto che riproduce delle ciabatte infradito. Ritroviamo la vecchia strada che collegava Sabratha con Oea (l’attuale Tripoli) e poi si scende verso il mare nella zona del vecchio porto, la zona dove fu costruita la prima Sabratha, quella Punica. Mentre cammino fra terme mosaicate e latrine di marmo, il silenzio viene squarciato dal rumore possente di un grande elicottero militare che passa veloce sopra di noi facendo vibrare tutto,  è color sabbia e sembra un Antonov di quelli visti nei filmati della guerra in Cecenia, dal  portellone aperto sbuca una grande mitragliatrice. Del porto antico non è rimasto praticamente niente, poco più avanti dietro una spiaggetta bianca sono in secca un paio di scafi di pescherecci celesti, e ancora più avanti un piccolo villaggio di casette bianche con le porte e le finestre dello stesso colore delle barche che fanno molto Ponza. Il cielo ricomincia a incupirsi e anche il mare è in aumento, risalendo si incontrano diversi frantoi e resti di residenze, qui è tutto più stretto e irregolare perché il disegno urbano riprende in parte quello originale della colonia Punica, si incontra la Basilica di Giustiniano un imponente chiesa bizantina a tre navate costruita sfruttando il materiale dei monumenti antecedenti e da qui si entra nella parte più ricca e meglio conservata di Sabratha, il tempio di Serapide come Iside divinità egizia a testimonianza ulteriore di come i Romani sposassero con estrema facilità le divinità locali e poi la curia che è uno dei pochi edidici che fu ricostruito dopo il terremoto del 365 e il portico con due colonne di granito grigio dovrebbero risalire a quel periodo, il piazzale è   circondato dalle gradinate dove un tempo ospitavano i senatori durante le sedute. Dalla curia si accede al foro, da sempre il cuore della città Romane, questo è veramente esteso, lungo il perimetro ci sono ancora in piedi alcune grandi colonne di granito che fanno immaginare quanto doveva essere imponente nel momento di massimo splendore. Sul lato orientale del Foro c’è il Campidoglio dedicato come sempre a Giove, Giunone e Minerva mentre a Ponente si trova il Tempio di Liber Pater dove rimangono sul podio quattro grandi colonne di arenaria. A fianco del Campidoglio si trova un'altra basilica bizantina costruita sulla preesistente struttura del palazzo di giustizia, è conosciuta come la casa di Apuleio un filosofo vaggiatore che girava per le città dell’impero a fare conferenze che nel 158 in questo edificio si produsse in una spettacolare difesa con un’orazione leggendaria. Arrivato a Sabratha conferenziere si sposo’ con Pudentilla, una ricca ereditiera molto più vecchia di lui e fu  accusato dai parenti della facoltosa babbiona di furto del patrimonio per  aver corrotto la mente della sposa con arti magiche. Il filosofo da  gran maestro oratore quale era tenne un discorso di quattro giorni scagionandosi da ogni accusa e diventando un mito dell’arte forense. Si cammina circondati colossali reperti, le colonne sono centinaia ce ne sono di arenaria, di calcare, di marmo e di granito, quelle di marmo cipollino e ancora di più le tante colonne di granito grigio mi ricordano l’Elba, probabilmente sono originarie dell’Egitto ma a me piace pensare che qualcuna sia giunta qui dalle cave fra Cavoli e Secchetto e imbarcate come diceva il compianto Angelo Galli dalla riva Glauca verso le più importanti città dell’antica Roma. Davanti al tempio di Antonino fa bella mostra la statua decapitata di Flavio Tullio un notabile della città che si guadagno’ questo onore per aver fatto costruire nel secondo secolo un acquedotto che fece fronte al cresciuto fabbisogno idrico di Sabratha e poi il grande tempio dedicato all’imperatore Antonino dove non è rimasto tanto, pero’ salendo su quella che era la base del tempio si gode di una grande vista d’insieme sugli scavi e anche sui nuvoloni carichi di pioggia che stanno arrivando. Le due ore concesse da Silenzio sono passate da parecchio ma di cose da vedere ce ne sono ancora tante , si attraversa la zona residenziale e si arriva al mausoleo di Bes, una tomba Punica sovrastata da una specie di obelisco sostenuto da leoni e sormontato da una piramide affilata, alto più di venti metri. Purtroppo i musei sono chiusi e quindi si ritorna da Silenzio e si parte. Appena lasciata la costa il panorama diventa desertico e monotono, provo a parlare con il mio tutore che senza proferire parola mi fa vedere una copia del programma con l’itinerario che avevo concordato via mail, va cosi’ piano che gli darebbe le fave anche Vanna Mazzei con la cinquecento rossa, mi girano i coglioni ma è cosi’ e non c’è niente da fa’. L’idea che mi sono fatto è che sia un ex poliziotto che si è comprato una macchina e facendosi forza della severa legge libica in materia di turismo, si sia proposto come accompagnatore, mi godo lo spettacolo surreale dei miraggi che si formano continuamente, laghi immaginari fra le nuvole e la sabbia. Dopo un paio d’ore ci fermiamo, Silenzio parla “Qsar al Haj, twelve dinar” siamo arrivati a Qasr al Haj un famoso granaio fortificato unico per via della sua forma circolare. Dall’esterno ha l’aspetto di uno scarno Castel Sant’Angelo, dentro è favoloso sembra di essere nell’arena di un anfiteartro, i magazzini sono disposti su quattro livelli, uno seminterrato destinato alla conservazione dell’olio e tre superiori per le granaglie, i sistemi di conservazione e caricamento sono gli stessi delle analoghe strutture viste in Tunisia nella zona di Tataouine. Costruito nel dodicesimo secolo per volere dello sceicco Abu Jatla fervente credente Mussulmano che impose un tributo obbligatorio per i proprietari dei magazzini da pagare in olio orzo e grano destinato ai bisognosi, ai pellegrini che passavano da qui per andare alla Mecca (da qui il nome Haj) e per mantenere la scuola coranica, a simboleggiare il legame religioso dello ksour i depositi sono centoquattordici come il numero delle sure del corano.
Si prosegue con suggestivo sfondo del Jbel Nafusa la catena montuosa da sempre patria delle tribù dei berberi e come Jerba rifugio degli Ibaditi. La strada si avvicina alle montagne e diventa sempre più bella, poi sale spettacolarmente verso Nalut. Il vecchio villaggio di Nalut è arroccato sul colle più alto, è ormai abbandonato ma ci sono diverse persone che stanno restaurando e un gruppo di anziani che si gode l’ultimo sole pomeridiano dalle spianate di roccia affacciate sul fondovalle, ritrovo le piccole moschee troglodite e i frantoi dei villaggi di Guermessa e Douiret, nella parte più alta c’è una fortezza che in realtà è uno ksour ma diverso da tutti quelli visti fino a ora, le aperture delle gorfa si sviluppano sui lati di un vicolo interno creando una specie di canyon sinuoso dalle pareti verticali piene di aperture, gironzolando fra questi magazzini ne trovo diversi con ancora il grano dentro. E’ ormai il tramonto, il cielo è attraversato da nuvole di storni, il sole cala sulle montagne dalla cima mozza mentre la luna sorge sotto lo sguardo assorto degli anziani affacciati sulla piazza a strapiombo della città vecchia, poi tutti rientrano mentre la temperatura cala velocemente. Silenzio ci aspetta e ci porta alle porte della città nuova sul colle a fianco dove c’è un albergo che fu costruito dagli italiani nel periodo coloniale che Silenzio afferma essere l’unico posto sicuro per dormire e di non muoversi da li’. In realtà la nuova Nalut è un posto tranquillo, dal punto di vista architettonico è un insieme di casermoni, ma è fornita di tutto e abitatata da persone gentili che si entusiasmano quando ci sentono usare qualche termine Amazigh, mangiamo il solito pollo arrosto e poi si va a internet che ormai non manca da nessuna parte.
 
   

Mercoledi` 5 novembre 2008 da Jerba, Tunisia a Sabratha, Libia

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Africa in festa per la vittoria di Obama, ma l’America è in Libia
Lasciamo Jerba di buon ora con un louage collettivo che ci porterà fino a Ben Guerdane, ultima città Tunisina prima della frontiera libica. Passiamo dal ponte di “Dragut” e poi dall’abitato di Zarzis, contrariamente al solito non si ascoltano le solite musichette ossesive, stamani la radio è sintonizzata sui notiziari per avere notizie sulle elezioni statunitensi. Obama ha vinto e sono tutti contenti  perché ha perso Mc Aine da tutti considerato il nemico numero uno dell’Africa e dell’Islam, si respira forte che questa elezione perlomeno per le speranze che innesca rappresenta un qualcosa di importante. Avvicinandosi alla frontiera libica i controlli di polizia si fanno più frequenti e come stranieri siamo controllati più accuratamente ma più che altro per curiosità, anche al posto di blocco c’è la radio sintonizzata sulle notizie yankee, partiamo e quando l’autista ci   distribuisce i documenti si accorge che ce n’è uno in più, quindi ritorniamo indietro a restituirlo al posto di blocco fra le risate generali. Arrivati alla stazione dei louage di Ben Guerdane prendiamo un altro passaggio fino alla frontiera di Ras el Jadir, la Tunisia finisce qui, entriamo nella fascia della terra di nessuno, c’è un gran via vai e vediamo la prima gigantografia di Gheddafi che ci squadra con espressione Mussoliniana. Le guardie di frontiera tunisine fanno un po’ di storie  provando a rimediare una mancia ma poi ci lasciano andare, la maggior parte delle persone passano la frontiera in macchina, sono quasi tutti tunisini che lavorano o risiedono in Libia, a piedi non siamo tantissimi e noi siamo gli unici europei. Per entrare in Libia c’è bisogno dell’accompagnatore e come da accordi lo dovremmo trovare qui e infatti arriva, è un omone brusco e cupo con la faccia da militare che mi chiede in inglese i documenti, qualche minuto e si parte su un macchinone, un suv di lusso con ancora la plastica sui sedili. Il poliziotto sta sempre zitto con lo sguardo fisso sulla strada che è un infinito rettilineo fra mare e deserto, anche il tachimetro è fisso a novanta chilometri l’ora ma sembra di essere fermi, il panorama è sempre lo stesso fino a Sabratha, l’unica variabile sono le nuvole sempre più nere e minacciose, chissà se portiamo la pioggia anche in Libia. In un paio d’ore siamo a Sabratha, “silenzio” ci porta in un albergo, ci indica un ristorante e dice “Tomorrow eit o clock”, l’accenno di domanda se si puo’ andare in giro viene interrotto da un marziale “hotel, restorant, its all”. Mi sento un po’ ostaggio e un po’ “turista tutto compreso” ma per oggi va più che bene, quella che sembrava una delle frontiere più complicate l’abbiamo passata. E’ un posto spoglio ma pulito e grande, ci sono dei grandi spazi vuoti sembra un ospedale con i tappeti di una chiesa e la camera è grande come un paio di monolocali elbani. Nella ricezione non ti registrano si prendono direttamente i passaporti.
Nonostante  i muti consigli di silenzio andiamo a fare un giro, non ci sono europei in giro, è tutto molto “film americano” strade larghe con grandi cartelli pubblicitari di pizze stile yankee con tanto di guarnitura di pollo, è tutto molto diverso rispetto agli altri paesi del Nord Africa, i negozi sono  grandi e pieni di merce e poi è tutto molto pulito, anche la gente è molto discreta non c’è bramosia nessuno ti chiama nella sua attività  ma sono tutti gentili. In giro si vedono quasi solo uomini e anche i giovani vestono alla maniera tradizionale, si vede che la gente sta bene e poi non ci sono poliziotti, perlomeno non in divisa. Anche il parco auto è un atro mondo rispetto all’Africa vista fino ad ora, la macchina più diffusa è la Mitsubishi Lancer che sta alla Libia come la Fiat Punto all’Italia e ci sono tante macchine sportive soprattutto Bmw dai rombi cattivi che lasciano una scia che sa di benzina avio, l’idea è di un paese ricco e tranquillo.
Sono senza soldi libici e anche qui un‘altra sorpresa, entro da un fotografo per cambiare e il negoziante mi spiazza chiedendomi a quanto è il cambio e poi mi cambia in dinari arrotondando in mio favore, in Tunisia e in Marocco sarebbe stato un mercanteggiare infinito, il rapporto con il denaro è totalmete diverso, è troppo presto per esprimere opinioni ma l’impressione è che la dittatura socialista di Gheddafi non sia poi cosi’ male. Inizia uno spettacolo di tuoni e fulmini che culmina con un grande acquazzone, ci ripariamo in un internet point spaziale, computer moderni e grandi schermi affacciati su una vetrata che sembra la plancia di una nave, postazione perfetta  per godersi lo spettacolo del temporale. Mi collego a fiorentina.it per seguire Fiorentina Bayer, sfida decisiva per la champions league, finisce 1-1 mi sa che la coppa dei campioni un si vince nemmeno quest’anno.
 
   

Martedi’ 4 novembre 2008 Isola di Jerba – Tunisia

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Jerba, gli Ibaditi, la Sinagoga spaziale, Dragut e la torre dei teschi, i galeoni tarocchi
Arriva l’alba che svela la grande affinità paesaggistica con le isole di Kerkennah, è un’isola piatta e brulla con terreni circondati da muri a secco e tante piccole palme, pero’ qui ci sono tanti olivi secolari con i tronchi larghi e contorti. Siamo più o meno al centro dell’isola ai limiti dell’abitato di El May, il sole illumina una piccola bianca moschea che si trova proprio davanti a noi circondata da grandi olivi, è una struttura tozza l’aspetto è quello di un forte, è una caratteristica dell’architettura tradizionale di Jerba qui tutto era fortificato ed improntato alla difesa verso possibili aggressioni, dato che il continente cosi’ vicino e il territorio piatto non davano garanzie naturali di protezione. 
La storia di Jerba è eccezionalmente varia ed interessante è ricca di storie epiche che sfumano nella leggenda.  Quando i Fenici arrivarono qui intorno al settimo secolo avanti cristo trovarono diversi insediamenti, il più importante era quello dei Gerbitani sulla costa nord orientale, i Fenici costruirono un insediamento isolano sul lato sud fondando Menix dove qualche secolo più tardi i Romani costruiranno, grazie al basso fondo, un ponte per collegare Jerba con il continente.
Jerba è stata anche una delle prime zone ad essere conquistata dagli arabi, ma nel mondo Islamico è famosa per essere l’Isola rifugio degli Ibaditi  una setta di origine Kharigita. I Kharigiti la cui parola significa “coloro che vanno fuori a combattere la Jihad“ (la guerra santa).
Gli Ibaditi costituiscono l'unico ramo oggi esistente dei Kharigiti, la corrente religiosa islamica che costituisce una "terza via" tra Sunniti e Sciiti, le cui origini risalgono ai primi tempi dell'Islam.
Come gli altri Kharigiti da cui si distinguono per moderazione e  ripudio della violenza, anche gli Ibaditi ritengono che il comando della comunità non spetti per obbligo a un discendente del Profeta, ma al più degno dal punto di vista religioso, a prescindere da parentela etnia o colore.
Il movimento Ibadita nasce come fronte moderato all’interno del movimento Kharigita e fu fondato da Abd Allah ibn Ibad al-Tamimi, intorno al 685 a Bassora nell’attuale Iraq e grazie al suo successore Jābir ibn Zayd al-Azdi, divenne rapidamente una setta assai seguita, fu causa di cruenti scontri con gli uomini dell’allora  governatore Al-Hajjāj Ibn Yūsuf,  in seguito ai quali Jābir e i suoi fedeli si spostarono in Oman (unica regione dell’Arabia ancora oggi  rimasta a maggioranza Ibadita). Da li’ in breve l'Ibadismo si propago’ in gran parte dell'Arabia meridionale e poi nell'Africa orientale e a Zanzibar.
Ma la diffusione maggiore avvenne in Nord Africa, dove la setta riscuoteva grandi consensi per la sua apertura nei confronti delle altre etnie e la possibilità di scegliere il capo religioso all’interno della propria comunità, cosa che permetteva ai Berberi (a differenza degli Sciiti e dei Sunniti) di non farsi governare dagli Arabi, la tradizione Ibadita infatti permetteva ad ogni regione di avere un proprio Imam.
Tra la metà dell’ottavo secolo e l’inizio del decimo il dominio Ibanita copriva gran parte del Magrebh ma fu rapidamente sconfitto e quasi cancellato dai Fatimidi (sempre di etnia berbera ma di credo sciita) ne rimasero solo delle piccole comunità che si rifugiarono in luoghi appartati come la regione del Mzab nel deserto Algerino, il Jebel Nafusa in Libia e l’Isola di Jerba, che sono ancora oggi le uniche comunità Ibadite presenti in Nord Africa proprio in virtù della scelta di vivere in luoghi isolati che ha permesso loro di difendersi nel corso dei secoli dalle frange Sunnite più intransigenti.
Attraversiamo la campagna da stradine secondarie, ci sono tanti piccoli villaggi e tante case in costruzione che aumentano avvicinandosi alla costa, siamo nella parte sud orientale dell’Isola più o meno nella zona dove i Fenici dovrebbero aver fondato Menix, pero’ non si vede niente di evidente. si risale lungo costa in senso antiorario, il mare è una laguna, incontriamo le prime donne con i costumi tradizionali di cui mi aveva parlato con toni entusiasti Walid e poi arriviamo nella famosa zona turistica, grandi palme e lampioni, sul lato interno bar, ristoranti, noleggi e tanti cantieri di strutture ricettive, sul lato del mare una gran fila di ingressi di grossi albergoni che lasciano intravedere prati e piscine in offesa alla cronica carenza idrica dell’Isola, è come un grande viale di carceri in ghingheri totalmente separato dal resto dell’Isola, che è stato costruito davanti alla lunga spiaggia di Sidi Mahres. Vedere la costa è impossibile, è tutto cinto, stanno costruendo ancora tanto, la grande spiaggia è tutta degli alberghi. I Jerbani che io mi immaginavo come indomiti eredi della pirateria moresca  hanno l’accesso interdetto alla parte più bella della costa. All’Isola noi altri Elbani si parla sempre della nostra coglionaggine nei confronti dei forestieri, pero’ non avemo  permesso, a parte Ortano mare e Capo d’Arco, che la costa e le spiagge venissero interdette alla gente del posto e in particolare i Campesi hanno avuto il gran merito di rispedire al mittente il club mediteranee riappropiandosi della parte più bella della spiaggia (anche se ultimamente fra nuove concessioni, bar e punti blu c’è stato un deciso sputtanamento).
La strada prosegue ormai sul lato nord fiancheggiando una laguna  ricca di alghe dove ci sono tanti fenicotteri rosa e diversi tipi di aironi e anche tanta plastica in mare.
Houmt Souk è il capoluogo dell’Isola, la Portoferraio di Jerba, ma niente di paragonabile come architettura. Tante cupole, case bianche di calce, porte e inferriate color celeste Ponzese, ormai è tutto in funzione del turismo con le scritte in inglese, francese, tedesco e italiano in ogni dove, ma turisti non ce ne sono o almeno non si vedono, saranno tutti nei grandi complessi perché sopra di noi arrivano in continuazione aerei provenienti dall’Europa.
Ci sono tante facce diverse come sempre nei porti e questo era il  principale dell’Isola, un importante scalo commerciale per inviare  i prodotti africani verso l‘Europa, c’è ancora qualche vecchio fonduk che non è stato ancora trasformato in albergo o negozio, un tempo in questi edifici  si fermavano le carovane con i cammelli che portavano le merci, sono strutture che ricordano gli ksour fortificati della zona di Tataouine, all’esterno una cinta di mura e dentro le stalle a piano terreno e le camere sopra e al centro il gran cortile con le preziose cisterne. Attraversiamo le piazzette del centro con i cafè tutti specializzati in spremute d’arancia che evidentemente tirano molto.
Per me Jerba rimane la base da cui Barbarossa e Dragut partivano per fare le loro scorrerie all’Elba e un po’ in tutto l’Arcipelago Toscano e nel poco tempo disponibile voglio vedere se trovo qualche traccia legata all’Elba. La prestigiosa  Zaouia di Sidi Zitonui è stata trasformata in museo pero’ è chiusa, quindi andiamo al castello, il Borj Ghazi Mustapa passato alla storia come la fortezza di Dragut. La piazzaforte in realtà fu costruita dagli spagnoli nel milleduecento e solo dopo alterne vicende nella prima metà del cinquecento diventa la principale base della pirateria barbaresca, quando Khayr al-Din (Barbarossa) stabilisce a Jerba il suo quartier generale.
La fama della fortezza è legata alla disfatta Spagnolo-Genovese del 14 maggio 1860, i cristiani volevano impossessarsi dell’Isola e distruggere la flotta di Dragut, Kapudann (ammiraglio) della flotta Ottomana, ma furono massacrati dai “mori”. A battaglia finita Dragut fece uccidere tutti i seimila prigionieri e ne impilo’ le ossa costruendo “la torre dei teschi” nel piazzale a fianco al forte, per avvertire la fine che toccava a chi osava attaccare Jerba. La torre dei teschi rimase in piedi fino al 1848, e più o meno anche la pirateria ando’ avanti fino a quel periodo. Il forte di per se non è niente di eccezionale ma evoca storie epiche avvolte nel mistero, chissà quanti Elbani fra il sedicesimo e il diciassettesimo secolo sono arrivati qui come prigionieri, quanti saranno finiti ai remi o venduti come schiavi a terra, sicuramente i più si saranno convertiti all’islam e avranno ripreso la via del mare e per le donne, magari per le più belle e scaltre, la sciagura della cattura si sarà trasformata in un opportunità di vita migliore.
La giornata è grigia ma il vento sembra in procinto di ripulire il cielo, nel mare stagnante le feluche si appoggiano sul fondo per la bassa marea, mentre aironi e garzette beccano il fondo, a riva gli uomini con i cappelli di paglia chiacchierano appoggiati a cataste di gourgoulette. Entriamo nel porto dove è ormeggiata una grande finta flotta pirata in attesa di essere abbordata dai turisti degli albergoni, i galeoni posticci se ne stanno ormeggiati con decine di "black jack" (che poi erano il simbolo della pirateria europea e “caraibica”) che sventolano dai pennoni. Faccio un calcolo veloce per difetto, per riempire tutte queste barche contemporaneamente ci vogliono almeno quattromila persone, credo che in estate ‘sto posto sia un vero inferno, nonostante la pacchianaggine la flottiglia fa un certo effetto ma è tutto finto e fatto male, gli unici cannoni veri sono pitturati di bianco e di rosso e sono usati come bitte. Rientriamo verso il centro di Houmt Souk che è un paese carino anche se è un bazar per turisti, è tutto misurato anche le moschee sono piccole e non sovrastano tutto. C’è un’atmosfera tranquilla di paese di mare alla fine della stagione turistica quando la gente si riappropria dei propri spazi, le vie del centro sono sgombre, ma dal tipo di strutture si capisce che qui i turisti ci arrivano prevalentemente intruppati, passano, comprano e ritornano nel recinto dorato, come un pascolo di pecore, e mentre lo penso passa un gruppo con tanto di guida con la paletta. Mi piace osservare gli anziani impegnati in interminabili partite di back gammon, nei loro tratti somatici cosi’ diversi l’uno dall’altro c’è tutta la genia del Mediterraneo. Il posto più divertente e originale di Houmt Souk è pero’ il mercato del pesce, in pratica è un asta pubblica che si svolge dentro un padiglione del souk, i proprietari della licenza di venditori stanno seduti su un seggiolone alto un metro e mezzo posto alle spalle del banco di vendita e gestiscono l’asta a cenni, mentre i collaboratori  espongono e consegnano i pesci, ci sono tre banchi e si contendono l’attenzione del pubblico che in maggior parte è più interessato a osservare le trattative che a comprare.
Ci spostiamo verso l’interno alla ricerca della Jerba meno conosciuta, a sette chilometri dal capoluogo c’è il villaggio di Hara Seghira (piccolo ghetto) dove risiede la comunità ebraica dell’Isola, appena fuori dall’abitato c’è la famosa Sinagoga di El- Ghirba che vorrei visitare, purtroppo non è possibile perché le visite sono momentaneamete sospese. Più che un luogo di culto sembra una base militare, con i blocchi di cemento davanti all’ingresso, le guardie armate e la recinzione intorno, le misure di sicurezza sono altissime, anche perché qui nell’aprile del 2002 ci fu un attentato kamikaze che provoco’ diciannove morti, attentato che fu profondamente condannato dalla comunità ibadita di Jerba che, congiuntamente agli ebrei isolani, dichiaro’ che gli attentatori erano estranei alla gente dell’Isola.
La storia di questa Sinagoga considerata la più antica del Nord Africa, sembra risalire al 586 avanti cristo a seguito della distruzione di Gerusalemme e del suo tempio nel 587 ad opera del leggendario re Babilonese Nabucodonosor II. Una piccola parte della popolazione di Gerusalemme riusci’ a sfuggire alla deportazione imposta da Nabucodonosor e raggiunta Jerba edifico’ la Sinagoga  nel punto dove cadde una pietra dal cielo e i lavori furono diretti da una misteriosa donna apparsa dal nulla. La storia leggendaria di questo luogo prosegue con una profezia che afferma che quando l’ultimo ebreo lascerà l’isola le chiavi della Sinagoga saliranno in cielo. Che sia andata cosi’ o come altri suppongono che la comunità sia stata fondata nel 71 dopo cristo a seguito del saccheggio Romano di Gerusalemme, rimane comunque la più antica comunità ebraica del Nord Africa. La confraternita vide crescere il suo numero anche per l’apporto di berberi convertitisi all’Ebraismo e di profughi provenienti nel corso dei secoli da Spagna Italia e Palestina, rimanendo sempre una comunità rigida e fedele ai precetti ebraici. Oggi a Jerba gli ebrei sono solo poche centinaia, la maggior parte degli Ebrei isolani si è spostata  a seguito delle guerre arabo israeilane del 56 e del 67 nella nuova nazione giudaica. La  sinagoga di El – Griba  rimane comunque un simbolo importante per gli ebrei ed è meta di pellegrinaggi anche in onore di Talmud bar Yashai un rabbino che oltre quattro secoli fa insegnava in questo luogo la comprensione del Talmut la cosidetta Torah orale. Il Talmut a differenza della Torah è ritenuto testo sacro solo dagli ebrei, rivelato a Mosè è stato trasmesso a voce per secoli fino alla conquista romana, quando fu messo per iscritto per paura che  venisse disperso. Il Talmut è un complesso codice sui significati e le applicazioni della Torah che secondo gli ebrei non può essere applicata senza lo studio del Talmut.
Lasciamo il misterioso luogo sacro degli ebrei con le sue seriose guardie armate vestite stile blues brothers e ci spostiamo ancora verso sud, le stradine interne sono fiancheggiate da muri a secco e non si vede granché, ogni tanto si incontra qualche carretto trainato da ciuchi con sopra i jerbatani vestiti con i costumi tipici. Arrivati a Guellala ci fermiamo adescati da un grigliarolo sulla via che arroste saraghi e poi andiamo sul mare ad El Kantara dove è stata costruita una strada asfaltata che collega Jerba con la costa, proprio sopra l’antica strada romana. I ponti che collegano le isole con il continente per me sono degli atti di profanazione, con queste propaggini l’Isola non è più Isola e perde la sua essenza massima, qui pero’ è anche un osceno scempio alla storia con  la strada bitumata che ha cancellato per sempre l’antica via costruita un paio di millenni fa dai romani.
Qui Thorgoud Rais detto Dragut nel millecinquecentocinquantuno si produsse in una delle sue imprese più leggendarie, quando si trovo’ accerchiato dalla grande flotta ispanico-genovese comandata dal suo più grande rivale di sempre, il mitico Andrea Doria che all’epoca aveva ottantacinque anni. Doria con la sua flotta costrinse gli armi capitanati da Dragut all’interno del Golfo di Bou Grad chiuso ad oriente dalla strada romana, ormai bastava attendere il giorno per sferrare l’attacco decisivo, ma durante la notte Dragut fece aprire un varco nell’antica strada e traino’ la flotta in mare aperto sfuggendo all’agguato della flotta imperiale. Oggi è una giornata strana, sarà il cielo ovattato che lascia filtrare una luce onirica o le tante storie e leggende legate a questa terra, ma i pensieri partono continuamente e si arzigogolano in mille congetture. Il ponte è pero’ un ottimo punto per osservare gli aironi pescare, guardando verso est si vede una struttura che si specchia nel mare, da qui sembra staccato dall’isola ma è un’illusione ottica, dovrebbe essere il  
Borj Kastil (nome deprimente degno del nostro Monte Cima del Monte) un’antica fortezza costruita in origine dai Romani. Ritornati sull’isola risaliamo la costa est , ci sono un po’ di kite surf ma il poco vento non permette grandi evoluzioni, per avvicinarsi al “castello in mezzo al mare” bisogna attraversare una distesa piatta e salmastra che con l’alta marea viene in gran parte sommersa, ne faccio qualche chilometro in macchina e poi si prosegue a piedi, fra piccole dune di sabbia e canali salmastri, ritroviamo anche il salycorn l’erba morbida che ricopriva l’isolotto di Grimdi nell’arcipelago di Kerkennah. Il castello abbandonato giace sull’ultimo lembo isolano circondato da piccole dune di sabbia e posidonia, anche questo è un luogo che evoca leggende come quella dei fiori di Loto, chissà se come si dice, Jerba sia veramente la terra dei Lotofagi, l’isola dei mangiatori  di fiori di loto cantata nell’Odissea, dove Omero racconta che Ulisse sosto’ durante il suo straordinario e tormentato viaggio di ritorno verso Itaca. Disobbedendo ad Ulisse i suoi compagni d’avventura mangiarono i fiori di loto donati loro dagli abitanti dell’isola e poi storditi e senza memoria  non volevano più saperne di ripartire per tornare a Itaca. Dei fiori di loto s’è persa ogni traccia, magari non sono mai esistiti, forse sono stati estirpati per evitare l’oblio del popolo o magari   i lotofagi erano cosi’ assuefatti che i fiori sognerini se li sono mangiati tutti, sta di fatto che la storia dell’Isola dei mangiatori di Loto continua ad affascinare.
La marea comincia a salire ed è bene rientrare verso la macchina prima che il mare la circondi, guidare su questa pianura salmastra è divertente, sembra di guidare dentro il mare, prima di riprendere terra incontriamo un grande rapace, dalle dimensioni credo sia un aquila, appena possibile faro’ vedere le foto ad un esperto.
Si sta avvicinando il tramonto, rientro nell’interno, lungo le vie ora c’è un gran movimento soptrattutto di donne, tutte vestite con i costumi tipici della comunità Ibadita, assomigliano a quelli di Kerkennah ma sono più eleganti. Fra gli olivi vedo le cupole della moschea sotterranea di  Cedouikech che unisce originilatà delle strutture troglodite con il fascino mistico del luogo di culto, è una zona di Menzel e case scavate nel terreno, le abitazioni tutte candide di calce e circondate da olivi secolari danno un senso di sacralità a tutto l‘insieme che, per quanto ermetico e chiuso su se stesso, si rileva armonico. Passa un gruppetto di giovani donne vestite di bianco con i consueti veli bianchi a righe rosse, camminano con portamento aristocratico, sembrano sacerdotesse di un tempo arcaico.
Siamo a una quindicina di chilometri dalla zona turistica ma questo sembra un mondo refrattario a tutte le influenze esterne e totalmente disinteressato al luccichio effimero dei casermoni costieri, nei vestiti, nei gesti e nei volti si percepisce il valore di una tradizione cosi’ rigida e radicata che si tramanda e si rinnova nella ritualità e nei costumi e che trasmette fiera il suo spessore e il proprio distacco senza che ci sia bisogno di essere esternato o raccontato. Negli sguardi di questa gente non c’è la rabbia dei sottoposti, ma la serenità superiore dei tradizionalisti per i quali il fascino effimero dei facili guadagni, ieri nella pirateria oggi nel turismo, è solo uno sterile miraggio senza spessore, fragile e passeggero, un urlo senza fiato che non riesce nemmeno a sfiorare il fiero e sereno sapere ormai genetico che si tramanda e si rinnova da secoli e secoli, che trova le sua fondamenta nella  lingua Amazigh e ha le sue radici nel passato arcaico dell’Isola. Valori profondi ed elevati che hanno permesso la millenaria convivenza pacifica fra la comunità ebraica e quella Ibanita.
E’ ormai il tramonto, il sole scende dietro la bella moschea di Guellala a pochi metri dal mare affacciata sul golfo Bou Grara, nel cielo vermiglio del tramonto gli uccelli volano in direzione della terra dei Garamanti dove inschallah andremo domani.
   

Lunedi’ 3 novembre 2008 da Bizerte a Djerba – Tunisia

  Verso Sud 
Si va alla polizia per sistemare i passaporti, si stampa il visto per entrare in Libia e si parte per Tunisi dove voglio comprare un’altra batteria per la macchina fotografica, perché quando saremo nel deserto libico non sarà facile ricaricare le batterie. Lasciamo il delirante traffico di Tunisi in direzione Sousse, dove mi voglio fermare a salutare Ali Baba prima di entrare in Libia. Arriviamo a Enfida, Ali Baba mi fa una grande festa ci porta a vedere lo studio veterinario dove lavora e poi andiamo a casa dove ci aspetta tutta la famiglia per cenare, Alى e signora ci rimangono male quando gli dico che andiamo via subito e insistono tanto affinché si rimanga almeno qualche giorno, ma questa volta anche noi abbiamo delle scadenza da rispettare. Passiamo da Kairouan nei pressi della della città santa della Tunisia, la strada si orla di chioschi che arrostono continuamente carne di montone, ce ne sono cosi’ tanti che si forma una coltre di fumo, da qui poi si punta su Gabes dove a bordo via ritroviamo i banchi di frutta e i benzianai con le taniche luminescenti. Prima di Medenine  c’è una deviazione che ci inserisce su una strada dritta in costruzione che ci porta fino alla cittadina di El Jorf praticamente dentro al traghetto per Djerba. E’ l’una di notte ma qui i traghetti non si fermano mai e la traversata è gratuita, praticamente quello che la maggior parte degli Elbani vorrebbe fosse il collegamento fra l’Elba e il continente. Il traghetto è pieno c’è posto solo per noi, saliamo e si parte, a bordo è tutta gente locale. Più che un mare è una laguna, la traversata dura un quarto d’ora con i gabbiani che fanno tutta la traversata nel fascio delle luci di prua ”fiaccolando” è uno spettacolo vedere questa nuvola di uccelli che pescano nel fascio luminoso e ancora più di effetto è quando incrociamo il traghetto che viene in senso contrario anticipato dal bagliore tremolante di un’altra squadra di “fiaccolatori volanti”. Jerba assomiglia a Kerkennah perlomeno di notte, cerco un posto buio per parcheggiare e mi metto a dormire sull’Isola dei Lotofagi.