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{youtube}I6AiNzfgnDA{/youtube} Le case troglodite Inizia a fare giorno ma rimane scuro, ci sono tante nuvole nere che sembrano minacciare pioggia. Partenza lanciata, devo uscire veloce dalla curva secca per superare il tratto di sabbia, fatto! Attraverso il villaggio dei distributori e via lungo l’interminabile rettilineo dai tanti dossi, lungo la strada devo fare attenzione ai dromedari che sembrano nervosi per l’aria di tempesta e anche alla sabbia sulla strada che rispetto a ieri è aumentata di molto. Dopo una trentina di chilometri deviazione a sinistra dove c’è una pista che porta al Pozzo di Bir Soltane, un tempo prezioso punto di rifornimento per uomini e carovane, oggi è praticamente abbandonato perché si trova all’interno di una zona militare, dopo poco infatti c’è un isolato posto di guardia dal quale un ragazzo in mimetica con un grande mitra mi ferma ma solo per indicarmi la strada giusta per il pozzo. |
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Il Deserto di sabbia Sveglia di buio per vedere l’alba sulla grande duna di Douz che è proprio davanti agli albergoni e poi non è cosi` grande. Il sole sorge gigante dietro le sagome delle palme, il cielo si incendia e le piccole dune del deserto prendono forma. Sono deluso dalla duna soprattutto perché decantata come la Grande Duna, mi aspettavo quacosa di simile alla Grande Duna di Erg Chebbi nei pressi di Marzouga in Marocco che avevo visto a gennaio. Questo è il desertino dei mille balocchi, alzato il sole si è scatenata la baraonda: i quad, le moto e i fuoristrada alzano polvere e rumore, tutti in fila fanno una specie di girotondo fra le dune bianche davanti a noi e poi ritornano alla base, si alza anche un ultraleggero che fa dei microvoli di cinque minuti a rotazione, ma nel giro di mezz’ora tutto si quieta. Le dune sono piccole ma belle, di colore chiaro quasi bianco con i soliti magici ricami sinuosi di sabbia e ombra, è un posto divertente per giocare a fare salti e scivolate, pero` scalzi perché con le scarpe si fa troppa fatica e poi si riempiono di sabbia. Rientrano le carovane dei cammelli che hanno portato i turisti a dormire nel deserto, in realtà molto vicini alla zona turistica ma infossati dentro le dune per coprire le luci del centro abitato, credo che abbiano dato un senso di Sahara selvaggio ai turisti, l’immagine dei cammelli in fila indiana fra le dune rimane comunque molto bella, ma lo spettacolo massimo di queste dunette sono i “Tombolamerda” gli scarabei che camminano veloci sulle dune lasciando una traccia simile a quella di due minuscoli cingoli. Camminiamo per tre ore fra le dune e poi rientriamo alla “grande” duna dove i finti Tuareg si stanno preparando all’arrivo dei turisti portando cammelli e allestendo le bancarelle di souvenir. Questo è un deserto per tour operator, c’è anche la pista dei go kart da sabbia che anche mi garbano ma non è certo questo il deserto che cerco. Attraversiamo un tratto della grande oasi rigogliosa con le sue tante palme ricche di caschi di datteri ricoperti con fogli di nailon per proteggerli dall’umidità della notte, poi passiamo dal villaggio appena oltre la zona turistica, questo è il paese dei cammelli ce ne sono a centinaia probabilmente le “navi del deserto” perlomeno in questa zona sono ancora legate all’uomo per il turismo in quanto le attività carovaniere sono ormai state soppiantate dai camion. Sono pochi chilometri ma è una realtà completamente diversa da quella a ridosso della duna, fra le case semidisastrate, capre, cammelli, asini e tanta spazzatura. Proseguiamo in direzione Matmata, la strada è bella nel deserto roccioso si incontrano di tanto in tanto stentati cespugli dove pascolano piccoli branchi di dromedari selvatici, uno si ferma in mezzo alla strada ignorandomi, segno evidente che di traffico ce n’é poco, vale comunque la pena di fermarsi per godersi le espressioni ingonghi dei cammelidi e le puppate energiche di un piccolo, qualche foto e si riparte voglio andare all’oasi di Ksar Ghilane per vedere il vero deserto di sabbia, il Grande Erg Orientale. Le guide dicono che la strada è percorribile solo con i fuoristrada ma comunque vale la pena provare, dopo una settantina di chilometri sulla destra con a fianco un piccolo cafè, il bivio per l’oasi, ci sono tre persone, uno è un poliziotto e mi ferma, temo che mi dica che la strada è solo per i fuoristrada e invece è solo per chiedermi un passaggio per un collega che poi in realtà si rivela il direttore dell’accampamento fisso che si trova dentro l’oasi. La strada è agevole dritta e piena di dossi, meno male se no ci sarebbe da addormentarsi, man mano che si avanza le dune si sostituiscono alla roccia e la sabbia ogni tanto invade la sede stradale, dopo una trentina di chilometri, circa a metà strada incontriamo la stazione di un gasdotto, da qui la strada diventa sempre più stretta bisogna andare forte quando c’è la sabbia per prende’ ” la ire” come diceva il Moro. E` divertente un po’ come quando dopo le sciroccate serie, il lungomare di Campo si riempie di sabbia, solo che qui per evitare di rimanecci in mezzo bisogna entracci a palla. All`improvviso come un miraggio il villaggio, poco più che una serie di distributori (baracche circondate da fusti di benzina e gasolio) e di abitazioni con il tetto a botte e i panneli fotovoltaici, il tutto arso dal sole e senza nessun albero. E` il classico villaggio di frontiera dei film, quello prima del punto di non ritorno e in effetti, nonostante sia una zona ricca di petrolio, è l’ultima stazione di rifornimento prima di addentrarsi nel profondo sud Tunisino, il prossimo luogo dove è possibile rifornirsi è Borj el Khadra un avamposto militare, il punto più meridionale di questa nazione, che si trova a pochi chilometri da Ghadames la mitica città di carovanieri Tuareg nell’odierna Libia. Walid (il nostro passeggero che nel frattempo si è svegliato) mi dice di proseguire a destra su una pista sterrata in direzione dell’oasi, due tre curve a novanta gradi e poi un tratto che finisce appena prima di rimanerci dentro, ancora qualche centinaio di metri e siamo all’accampamento nel cuore dell’oasi di Ksar Ghilane. Questa è proprio la classica oasi dell’immaginario colletivo, le palme, la sorgente, il laghetto e poi le dune tutt’intorno. E` incredibile con quanta forza esca l’acqua che permette di irrigare un palmeto molto esteso che in alcuni tratti è addirittura allagato, il posto è molto bello e seguendo l’invito di Walid decidiamo di passare qui la notte. Intorno e dentro la pozza c’è un gruppo di tedeschi che fa il bagno, fa strano vedere le donne in bikini (e anche un po’ skifo perché so’ brutte) e la gente seduta che beve birra, ma questo è il turismo che violenta e omologa tutto anche le oasi. Fra qualche ora quando il sole sarà meno aggressivo vorrei andare a fare una camminata fra le dune fino a raggiungere l’antica fortezza di epoca Romana di Tivasar, che successivamente fu trasformata in ksour, di cui ho letto una descrizione molto appassionata. Dovrebbe trovarsi su uno sperone di roccia due o tre chilometri ad ovest dell‘oasi, chiedo a delle guide che si stanno riparando all’ombra del piccolo chioscho a bordo pozza che mi confermano i tre chilometri, ma quando capiscono che non ci voglio andare né in fuoristrada né in cammello i chilometri diventano prima cinque, poi sette e poi dodici, cosi` come i tanti pericoli che crescono con i minuti, pero` anche nel disappunto c’è comunque sempre cordialità. Fa troppo caldo per entrare nel deserto, andiamo in giro nel palmeto dove c’è anche un albergo, l’unico punto rumoroso dell’oasi a causa del gruppo elettrogeno che da la corrente elettrica al complesso. Il palmeto è rigoglioso e ci sono tantissimi datteri, all’interno si trovano delle piccole radure dove pascolano pacifici dromedari, asini e cavalli, nonostante siano avvolti da nuvole di mosche e zanzare. Il limite dell’oasi è segnato da grandi piante di tamerice, appena oltre troviamo delle dune alte una trentina di metri e molto ripide e bellissime, nonostante la luce accecante l’arancio dorato della sabbia contrasta con l’azzurro terso del cielo e le nuvole bianche sullo sfondo, è un posto ganzissimo per giocare a fare i salti, mi immagino quanto si divertirebbero i bimbi con cui facevo le escursioni all’Elba e mi riprometto di portare i bimbi Isolani in Africa per far partire “Basa Elba”. Prima di entrare nel deserto “vero” si ritorna al “villaggio di frontiera” l’auto ti consente di vedere tante cose perٍ sempre troppo filtrate, per capire di più bisogna andare a piedi meglio se lentamente, in modo che oltre a vedere le cose che cerchi, vedi anche quelle che ti vengono incontro. Il villaggio delle cellule fotovoltaiche e dei dirtibutori dipinti con i loghi e i colori delle auto e delle moto da competizione che sono passate da qui qualche tempo fa, è un posto vero e duro e anche i suoi abitanti lo sono, ci guardano con sospetto come a dire il vostro recinto è dentro l’oasi qui si viene solo per fare rifornimento, una bimba dagli occhi di ebano mi squadra curiosa mentre sta scaricando delle stagne dal cassone di un camioncino, è bellissima e mi viene di fotografarla ma mi fulmina con uno sguardo di censura e non riesco a scattare. Mi trovo a girare fra le case rifugio in un clima di gelo nonostante gli almeno quaranti gradi, ma poi la curiosità ha il sopravvento e gli sguardi di soppiatto diventano cenni e poi sorrisi, come sempre il ghiaccio è rotto dalle donne che allargano i sorrisi da sotto i veli censori. Questo è un villaggio di venditori di benzina e cammellieri, isolato da tutto dove l’energia arriva dal sole per mezzo delle cellule fotovoltaiche che sono collegate a gruppi di batterie i quali fanno funzionare le televisioni e l’lluminazione, ci sono anche dei lampioni con i panneli come quelli sulla strada sopra il Macciarello, mentre per l’acqua c’è un pozzo. Un asino immobile si gode l’ombra del carretto che da croce si è trasformato in privilegio, le case sono circondate da muri per difendere l’abitazione dalla sabbia che il vento ci spinge contro, il tutto è reso magico da incredibili nuvole bianche che come dirigibili immobili adornano il cielo. Mentre cammino fra i vicoli incrocio lo sguardo gentile di un bimbo che mi mostra fiero la sua meravigliosa bicicletta con una ruota sola con cui magari s’immagina pilota invincibile di moto da raid e mi ritornano in mente i pomeriggi passati a immaginarmi pilota da rally tutto rannicchiato dentro un macchinina a pedali ormai diventata troppo piccola, Salaam! Una voce ridente mi riporta a Ksar Ghilane, è un anziano del villaggio che assieme al nipote sta preparando i dromedari per andare all’oasi ad accompagnare i turisti, ne parla con rispetto ma anche come un corpo estraneo, facciamo un breve tratto insieme e poi ci salutiamo. Il sole ora è meno forte e cominciamo a camminare, contrariamente a quello che pensavo non ci sono né dromedari né fuoristrada, i tedeschi sono andati via e sono arrivati altri due gruppetti in fuoristrada di cui uno di italiani ma sono fermi dentro l’oasi. Iniziamo a camminare nel “mare di sabbia” scalzi si cammina perfettamente, le parole qui sono di troppo e come quando vai sott’acqua osservi e immagazzini immagini e produci pensieri. Come il mare sotto, il deserto è silenzioso ed è anche apparentemente sterile e invece è vivo e sempre in movimento, se la guardi bene la sabbia anche quando sembra non esserci vento si muove e anche sotto i piedi è sempre in movimento, è solido ma assomiglia tanto al mare anche nell’illusione di sentire la sua voce che ti parla entrando direttamente nei pensieri. Le dune in questo tratto non sono molto alte e sono gialle, ogni tanto c’è qualche cespuglio erboso e anche qualche alberello isolato, su ogni duna il vento ha disegnato trame diverse mentre le nuvole bianche e plastiche rendono bucolico questo ambiente di prima impressione infernale. Poi esce il vento che aumenta velocemente e la sabbia vola dentro basse nuvole che bucano quando ti battono addosso, man mano che il sole cala le dune diventano di colore cangiante, arriviamo alle dune più alte che la luce è veramente bella, a poco più di un chilometro ora si vede bene il forte dove vola un aquilone, a fianco dello storico baluardo c’è un fuoristrada che gli leva un po’ di poesia, dall’altro lato vedo in lontananza dei cammelli che stanno venendo verso ovest. Due turiste americane alcolizzate con due accompagnatori arabi molto più giovani di loro, le babbione puzzano di alcool e assomigliano a Fulvia maga mago`. Del forte romano è rimasto poco e niente e anche lo ksour è fortemente compromesso, iniziamo a tornare indietro fermandosi sulle dune più alte per vedere il tramonto, ci sono dieci minuti di pura magia in cui le dune sembrano di materia impalpabile, tanto il gioco dei chiaroscuri ne fa cambiare continuamente la forma, poi all’improvviso appena tramontato il sole cominciano a uscire dalla sabbia delle bellissime formiche grigio metallo con le zampe rosse, sono frenetiche e mordaci e gli garba pizzica’ nei piedi, sono le Cataglyphis Fortis dette anche formica del sahara dicano che sia attiva anche con temperature esterne di settanta gradi, i suoi segreti per difendersi dal caldo sono la velocità (per attraversare velocemente le zone assolate) e zampe lunghe (per tenere il corpo lontano dalla sabbia rovente) ma qui io le ho viste solo dopo il tramonto. Mentre il cielo si incendia a ovest e diventa algido e pallido ad est rendendo il paesaggio gelido e immobile, si cominciano a vedere le prime stelle quando da una grande tana esce un animale bianco, non riesco a identificarlo ma guardando le impronte penso che si tratti di un fenec la volpe del deserto. Ormai è notte, ma sotto le stelle camminare è ancora più bello, vedo i falo` degli accampamenti che sono a poche centinaia di metri dall’oasi, ecco dove erano finiti i cammelli visti prima, ancora quache passo e poi si rientra all’accampamento. |
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{youtube}WisiH0TbFBI{/youtube} “Passano ancora lenti i treni per Tozeur” |
La sensazione di essere dentro la storia,
Sono nel deserto Libico, nella mitica città dei Tuareg.
Anche io spero nel cambiamento, da tutte le parti, all’Elba, in Italia, in Africa e nel Mondo. |
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{youtube}mytSifIDmss{/youtube} L'alluvione nel deserto |
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Dougga la Dorata Un ragazzo tunisino dai riccioli rossi mi consegna la classica sgraziata clio tre volumi con in dotazione un mazzo di datteri e un cd di Ramazotti in omaggio alle italiche origini. Lasciamo una Bizerte che si sta dormendo il mattino del suo ultimo giorno di Ramadan e dopo un tranquillo controllo della gendarmeria cominciamo ad entrare nella campagna. Ci lasciamo alle spalle il Jbel Ickeul dove però voglio tornare prima di lasciare la Tunisia, sono stati percorsi solo pochi chilometri ma è già un altro mondo, pochissime macchine, ogni tanto un pik up carico di poponi gialli, quella che stiamo attraversando è una pianura brulla dove passano lenti carri trainati da asini che sembrano ignorare la pioggia, poi risaliamo le colline del Teboursouk ricoperte di pini striminziti stile monte Orello, passiamo dall’omonimo paese e poi finalmente il Tell, un altopiano roccioso che stamani è fasciato dalle nebbie. La pianura sopraelevata del Tell è assai adatta alla coltivazione del grano, caratteristica che rese questa regione ricca e importante già prima delle dominazioni Cartaginesi e Romane. Siamo qui per vedere i resti di Dougga considerata con la Libica Leptis Magna la più bella città del periodo Romano dell’Africa. Dopo una serie di ripidi tornantoni la strada spiana, sulla nostra destra i resti delle cave Romane con ancora evidenti le tracce dei solchi di cesura per il distacco di blocchi e colonne, in lontananza si vedono le prime colonne che si stagliano austere nel cielo plumbeo. Il sito è deserto, solo un paio di persone alla biglietteria, la pioggerellina e il vento freddo esaltano ancora di più il silenzio aumentando la suggestione. Davanti a noi c’è il teatro un perfetto semicerchio che poteva ospitare più di tremilacinquecento persone, fu fatto costruire da Marcus Quadratus (è scalpellato proprio così) uno dei più ricchi abitanti di Dougga nel 188 dopo cristo, la parte bassa dominata dalla scena è ricca di stanze e cunicoli, saliamo in cima al camminamento alto sopra le gradinate, nel mentre la nebbiolina che circondava i monumenti si è dissolta aprendo uno scenario favoloso che domina tutta la città. Dougga si è conservata così bene perché dopo il declino dell‘impero Romano è stata praticamente abbandonata come centro urbano, ha continuato ad essere abitata ininterrottamente (e in parte lo è anche oggi) ma da pastori e contadini che si sono insediati fra le monumentali opere dell’epoca classica. L’agglomerato si sviluppa su un colle morbido ricco di acqua sorgiva e di grotte naturali dunque perfetto per un insediamento umano, alla nostre spalle ci dovrebbero essere degli insediamenti risalenti al secondo millennio avanti cristo. Un viottolino risale fino al Tempio di Saturno, si trova a mezzo chilometro dalla zona adibita alla visite ed è quello ridotto peggio fra i tanti templi, ma da quello che rimane si capisce che doveva essere enorme anche perché Saturno prese il posto di Baal Hammon la principale divinità dei Cartaginesi, che i Romani da paraculi quali erano trasformarono in Saturno. Il tempio si trova su una grande terrazza che si affaccia da una posizione di dominio sulla ricca pianura circostante dove oggi come al tempo dell’Impero Romano si estendono grandi oliveti. In basso a poca distanza l’unica traccia cristiana del sito, la chiesetta di santa Vittoria che fu costruita dai vandali nel V secolo, quasi invisibile al cospetto di tanta grandezza, rudere che nelle dimensioni e nella forma ricorda le chiesine di Epoca Pisana della montagna Elbana come San Frediano e San Bartolomeo. Di fianco c’è la cripta dove ci sono ancora dei massicci sarcofagi in pietra in uno dei quali ci dovrebbero essere le reliquie della santa. Fra asini e i fichi d'india risalgo la collina in cerca delle tracce preistoriche, qui c’è anche una fattoria abbaraccata, a metà strada fra la casa del vecchio Urru e il caprile di Evangelista sopra San Piero, davanti all’uscio il padrone di casa mi osserva da un bel po’ è in compagnia di un paio di cani, ci saluta e ci viene incontro e con fare alla”Gino Brambilla” mi indica la zona delle tombe che si trovano poco più in alto. Sono tombe dolmeniche piuttosto massicce le più grandi sono di forma ovale costruite con grossi lastroni e ricordano quelle delle Piane della Sughera, il padrone di casa mi ha accompagnato e mi fa vedere resti di ceramica e forni per la terracotta, ma soprattutto mi vuole far vedere la sua catana piena di monete e lari di terracotta che dice aver trovato zappando qui intorno. Siamo sul dorso del colle, da qui si vedono bene le imponenti cave da cui proviene tutta la pietra color oro usata per la costruzione di Dougga. Ritorniamo in direzione del sito principale camminando fra i coltivi dove fra le zolle sbucano continuamente pezzi di ceramica, scendendo fiancheggiamo un acquedotto Romano usato ancora oggi per portare l’acqua alle casa di Dougga nuova, anonimo paese di case a forma di scatola di scarpe costruita a valle dell’insediamento antico dove è stata fatta trasferire la popolazione quando la città monumento è stata aperta alle visite turistiche. Ritorna a piovere, ci ripariamo nelle vecchie cisterne dove ci sono ricoverati centinaia di reperti, ci sono tante statue alcune veramente grandi, mosaici, are e un po’ di tutto. Lo scroscio dura poco e passando fra olivi e melograni ci troviamo “in centro”. Finalmente osservando da dietro le mura del Campidoglio capisco l’Opus Africanus la tecnica costruttiva usata dai romani in Africa, si tratta di colonne di pietra con pezzi orizzontali e verticali che servivano da sostegno e da appiglio per il resto della muratura fatto con pietre più piccole, un po’ come si costruisce oggi con le colonne di cemento armato e gli “specchi” riempiti con le “murette”. Le vie sono lastricate meravigliosamente, mi piacerebbe che qui ci fossero Babbo e Peppe loro apprezzerebbero la qualità di questi lavori eccellenti, il reticolo delle vie è diverso dal solito rigore geometrico delle città dell’antica Roma, è tortuoso e a volte labirintico, le vie seppur più maestose ricordano quelle sinuose viste qualche settimana fa a Bulla Regia, infatti anche qui la città è stata costruita su un insediamento precedente. La storia ci dice che Thugga, questo è il nome originale, era già un grande insediamento quando i Cartaginesi nel quarto secolo avanti cristo vi si insediarono, nel secolo successivo, dopo la sconfitta di Cartagine nella secoda guerra Punica, diventa con il benestare di Roma città Numida sotto il regno di Massinisa e rimane sotto di loro fino al 46 avanti cristo. Quando il re Giuba I durante la guerra civile romana si schierò dalla parte del perdente Pompeo, Giulio Cesare gliela fece pagare e pose termine per sempre al regno Numida. Thugga divenne Dougga e iniziò il processo di romanizzazione che raggiunse il culmine fra il secondo e il quarto secolo, periodo in cui furono costruiti la maggior parte dei monumenti. Poi con l’invasione dei vandali tutto lo splendore e la ricchezza Dougga la dorata finì rapidamente. Quando durante le conversazioni un capisco nulla e succede spesso con l’Arabo, penso che se i romani avessero romanizzato di più l’Africa del nord magari tutto il nord africa avrebbe mantenuto una matrice linguistica latina con innegabili vantaggi per noi e sicuramente senza l’avvento dell’Islam tutto il nord africa avrebbe una matrice linguistica latina, in questo viaggio penso spesso al grande popolo del mediterraneo e credo che una lingua comune seppur frutto di una dominazione avrebbe aiutato tanto l’integrazione fra le due sponde del mare nostrum. La via principale ci conduce nella piazza dei venti, siamo circondati da templi che si estendono in tutte le direzioni, sul pavimento è incisa una grande rosa dei venti, dodici nomi scalpellati alcuni si leggono bene altri meno Africus (che corrisponde allo scirocco), Septemtrio (Tramontana), Auster, Leoconotus, Faun, Arcistes, Circius, Aqui e poi altri quattro che non si leggono più, è incredibile che in un posto così bello ci siamo solo noi. Subito dopo si arriva davanti al Campidoglio, la parte più imponente di tutto il sito costruito sopra una collina ha grandi mura alte oltre dieci metri e sei grandi colonne in monoblocco che sostengono il portico, all’interno ci sono tre nicchie quelle laterali per le statue di Giunone e Minerva e la più grande al centro per l’mmagine di Giove che doveva essere alta almeno sei o sette metri. Proseguiamo camminando nel grande spazio del foro, il silenzio è rotto, arriva un gruppo di turisti sono una quindicina di veneti e l’unico che parla italiano è la guida tunisina. Ville e templi si susseguono (censiti ce ne sono ventuno), arriviamo alle grandi terme ulteriore prova della ricchezza di questa città, sono maestose nella parte pubblica e ancora di più in quella labirintica delle caldaie e dei condotti, dove però gli schiavi facevano una vita torturante. Il vento ha portato il sereno e il sole illumina tutto e si capisce ancora meglio perché veniva chiamata la dorata, la pietra gialla si illumina come se fosse placcata d’oro. Suona il telefono, inaspettata arriva la notizia che attendevamo da più di un mese: è arrivata l’autorizzazione per andare a La Galite, fra tre giorni confermare la data di partenza per l’isola e inviare una serie di documenti relativi alla barca. Il morale è alto, continuiamo a scendere la collina urbanizzata e ci troviamo davanti una delle ville più belle nominata dagli archeologi casa del trifoglio, in realtà era il bordello più importante della città, si entra da una scalinata che conduce a una serie di eleganti stanze che si affacciavano sul cortile interno. Ancora un impianto termale più piccolo e ridotto peggio ma con una latrina in pietra a dodici piazze a forma di ferro di cavallo che sembra appena ultimata, in qua e in là ci sono anche tanti pavimenti mosaicati. C’è una guida ferma fra il casino e le latrine e il grande Arco intitolato Settimio Severo il primo imperatore di Roma nato in Africa, si offre per accompagnarci ma in realtà anche lui è qui per provare a vendere qualche reperto che fa astutamente capolino dalla classica catana del tombarolo venditore. In questa zona lo scavo è solo parziale ma affascinante perché vivo, con le pecore e le capre che pascolano fra capitelli e are votive, scambio qualche parola con un pastore anziano tutto contento perché dice che qui in fondo non ci arriva mai nessuno, mi racconta che prima che attrezzassero l’area archeologica lui viveva fra i templi del centro e poi mi indica la via per raggiungere il tempio Numida, che in realtà si vede molto bene perché il mausoleo è alto più di venti metri, con una piramide in cima dove sta seduto un leone di pietra. Pur essendo il monumento architettonico più antico del sito, risale al secondo secolo avanti cristo, ha una forma che lo fa sembrare molto più recente e ricorda il mausoleo Tonietti del Cavo, la forma è quella di un obelisco tozzo a tre piani, è considerato il più importante monumento Numida esistente ed è famoso per l’iscrizione bilingue in Libico e Punico che recita “Ateban, figlio di Ypmatat figlio di Palù” Purtroppo l’arroganza e la stupidità dei colonizzatori europei ha lasciato la sua traccia di vergogna, anche qui infatti nel 1842 per volere del console inglese di Tunisi fu rimossa la pietra con l’iscrizione e questo causò il crollo del monumento. La pietra originale oggi trova a Londra al british museum e il mausoleo che si vede oggi fu rimesso su nel 1910 da una squadra di archeologi francesi. Il parco archeologico è ormai chiuso, ma non ci sono problemi perché si può uscire dai campi circostanti che non sono recintati, risaliamo dal lato ovest passando per i ruderi delle terme estive e poi il grande tempio dedicato a Giunone che rimane ai margini del centro monumentale fra i terreni coltivati circondato da olivi secolari. All’interno di questa maestosa scenografia assistiamo a una scena bellissima e allo stesso tempo imbarazzante perché lo sguardo viola un momento di preghiera di grande intimà e intensità. Poi passiamo sotto il grande arco dedicato a Alessandro Severo, ripassiamo dietro il Campidoglio per poi uscire da Dougga nuovamente bagnata dalla pioggia. Il tempo è il classico autunnale e il caldo patito fino a pochi giorni fa è un ricordo, ormai è tardi e facciamo la strada principale per raggiungere le Kef attraversando l’altopiano del Tell, piove sempre più forte e la campagna comincia ad allagarsi. Arrivati a le Kef proseguo per sfruttare l’ultima luce e vedere la strada per Mellegue dove ci dovrebbe essere un impianto termale di epoca Romana, la voglia di vedere l’Algeria è tanta ma una serie di posti di blocco armati mi fa capire che non è cosa. Imbocco la sterrata per il sito, sul lato ovest in alcuni tratti ci sono filo spinato e cartelli con i teschi che indicano la possibilità di campi minati, il fango scorre lungo la strada sterrata però, contrariamente a quanto detto da alcuni, la strada è percorribile, anzi è uno spettacolare sterrato a tornantoni reso ancora più divertente dal fango. Arriviamo in basso all’imbrunire osservando il fiume Mellegue torbo di fango che si sta gonfiando a vista d’occhio. Le terme antiche sono ai margini del fiume e domani inschallah verremo a visitarle per bene. Le Kef è un'altra Tunisia rispetto a quella della costa, anche un altro islam, siamo in terra Berbera lo si vede dalle facce affilate e dai fisici snelli dei suoi abitanti e lo si respira. La città si sviluppa su una collina rocciosa a 780 metri di altezza, il nome trae origine da Kaf che significa roccia in Arabo, la prima città fondata su questa roccia che domina il Tell fu costruita dai Cartaginesi nel cinquecento e si chiamava Sicca, una città fortezza che era famosa per le prostitute sacre che officiavano nel tempio dedicato a Astarte la Dea dell’Amore, quando Roma si sostituì a Cartagine il Tempio fu dedicato a Venere nome trasformato in Sicca Veneria. Grazie alla sua posizione strategica fu anche una delle roccaforti di Giugurta il re Numida che si ribellò a Roma e la sua indole ribelle è rimasta anche durante la dominazione Araba alla quale i fieri Berberi del Tell nel corso dei secoli si sono più volte ribellati. E’ l’ultimo giorno di Ramadan e le attività sono tutte chiuse per l’Haide, non si trova nemmeno un panino, la via centrale, che come sempre si chiama avenue Bourghiba, è fiancheggiata da un lungo porticato pieno di microscopici fondi ma la struttura più appariscente è l’hotel Sicca Veneria che con le sue luci a intermittenza fucsia sembra un sexy shop, l'islam bacchettone è lontano qui siamo nella città di Astarte e Venere. Nel frattempo diluvia e le strade diventano fossi, parcheggiare è un problema, col mulo era più facile, trovo un parcheggione vuoto ma un soldato armato sbuca e mi dice che è solo per militari. Sono ormai le undici, il fortunale si è fermato e si vede anche qualche stella, il centro si è ravvivato e la gente si riscalda intorno ai bracieri dove si arrostono salsicce di montone che col freddo ci stanno proprio bene. Dopo il convio un paio d’ore a internet che come sempre nei centri più piccoli è il principale punto di ritrovo e poi parcheggiamo in un posto tranquillo e ci mettiamo a dormire. |
Situazione di stallo Da Tunisi non è arrivato ancora niente, tutto quello che potevamo fare è stato fatto, le autorizzazioni non ci sono, il responsabile delle canoe dello sport nautique che ieri ci aveva dato appuntamento per stamattina non c’è, tutto è ormai fermo per l'Haid e ci saranno almeno tre giorni di festa. Domani inschallah ce ne andiamo, ho deciso di noleggiare una clio per una settimana, i tre mesi di permesso stanno per scadere e ho voglia di vedere tante cose, partire a piedi significherebbe rinunciare a La Galite quindi l'unica soluzione è la macchina in maniera da rientrare velocemente se arrivano le autorizzazioni. |
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La Medina di Bizerte Andiamo nuovamente al palazzo del Governatore per avere notizie delle autorizzazioni ma i vigilanti mi bloccano "interdit pas possible" è vietato entrare nel palazzo del Governatore con i pantaloni corti e le ciabatte, ridendo entro ma arrivano attendenti e poliziotti da tutte le parti e mi bloccano, Serena per fortuna può entrare e io rimango fuori ad aspettare fra le risate stentate della "banda interdit". Come previsto nessuna novità. Anche oggi piove sarebbe la giornata giusta per scrivere un po' ma manca la voglia, facciamo un giro al porto dove con le barche a vela arriva sempre qualche personaggio strano e poi in giro per la Medina, quella di Bizerte non ha i classici confini definiti da mura, ci si entra gradualmente camminando fra i banchi del mercato della ville nouvelle e senza che te ne accorgi ti trovi dentro la Medina accompagnato dal vociare dei mercatai che è uguale in tutte le lingue. Un formicaio per uomini la medina, il moderno per motivi di spazio rimane in gran parte fuori, estraneo è il puzzo degli scarichi della macchine e il loro rumore, il suono di sottofondo è un brulicare di passi e voci sussuranti, dai carrugi vengono fuori i suoni antichi delle botteghe dei falegnami e dei fabbri e al posto dei puzzi dei motori gli aromi acuti delle spezie e i profumi densi e intensi che arrivano dalle finestre delle cucine perché il ramadan è il mese del digiuno ma nelle case è tutto un preparare nell'attesa del grande pasto serale. Sbuchiamo nel porto vecchio dove uomini e gatti sonnecchianti si riparano dalla pioggia fra tettoie e porticati, mi piace osservarla questa passività ma non mi appartiene, è già troppi giorni che siamo statici è tempo di fare qualcosa di più attivo. |
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