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Sabato 4 ottobre 2008 da Ksar Ghilane a Matmata – Tunisia

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Bir Soltane

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Tamezret

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casa troglodita

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Haddej

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Il Marabutto

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Le case troglodite

Inizia a fare giorno ma rimane scuro, ci sono tante nuvole nere che sembrano minacciare pioggia. Partenza lanciata, devo uscire veloce dalla curva secca per superare il tratto di sabbia, fatto!  Attraverso il villaggio dei distributori e via lungo l’interminabile rettilineo dai tanti dossi, lungo la strada devo fare attenzione ai dromedari che sembrano nervosi per l’aria di tempesta e anche alla sabbia sulla strada  che rispetto a ieri è aumentata di molto. Dopo una trentina di chilometri deviazione a sinistra dove c’è una pista che porta al Pozzo di Bir Soltane, un tempo prezioso punto di rifornimento per uomini e carovane, oggi è praticamente abbandonato perché si trova all’interno di una zona militare, dopo poco infatti c’è un isolato posto di guardia dal quale un ragazzo in mimetica con un grande mitra mi ferma ma solo per indicarmi la strada giusta per il pozzo.
E` una mattina fredda e ventosa con le nuvole scure sempre più minacciose, qui a volte passano anche anni senza piovere ma ora stanno arrivando le prima gocce, il pozzo è molto antico ed è coperto da una cupola in muratura, le pietre del pozzo hanno il bordo interno con dei solchi profondi creati dallo scorrere delle corde che per secoli hanno tirato su acqua. Oggi a fianco del pozzo c’è un traliccio che sosiene l’elica di una pompa a vento  che porta in superficie l’acqua per un abbeveratoio e per il vicino corpo di guardia, le pale mi riportano in mente l’aerogeneratore del faro del Giglio. Bir Soltane è solo un pozzo ma è un luogo che evoca imprese mitiche soprattutto guardando le gigantesche dune gialle sullo sfondo che segnano l’inizio del grande Erg Orientale. Ancora dossi e poi la strada principale per Matmata lungo la quale su una collina si incontra il  paese di Tamezret tutto costruito in pietra, è bello peccato che è tutto circondato da cavi dell’energia eletrica. Si vedono le prime case scavate nella roccia, sono le famose case troglodite della regione di Matmata, diventate famose con Guerre Stellari per essere state usate nei vari episodi, queste lungo la strada principale si vede che sono attrezzate per i turisti con tanto di parcheggio davanti, infatti questa è la strada che percorrono i pullman per andare da Jerba a Douz. 
E’ una zona che merita di essere visitata bene ma ora la priorità è inviare a Bizerte la documentazione necessaria per andare a La Galite, breve sosta a Matmata vecchia per cercare senza successo un internet e un fax, poi giù in discesa verso Matmata nuova con lo stesso risultato, quindi bisogna andare a Gabes, grande città sulla costa che un tempo era il punto di arrivo delle carovane transsahariane e importante mercato di schiavi. Oggi è un importante polo industriale petrolchimico che si è sviluppato da quando hanno cominciato ad estrarre il petrolio nel golfo omonimo. Si attraversa una grande palmeraia e poi si entra nell’abitato, il centro è assimilabile a una città europea, andiamo al palazzo della telematica (qui c’è l’università di tecnologia e ingegneria informatica) è un centro grande con computer ultramoderni e ragazze velate con l’hi pod, è il posto ideale per spedire e in poco tempo riusciamo a fare tutto. Si ritorna verso Matmata, dopo il palmeto incotriamo una carovana di asini porta acqua e il grande oued che anche qui porta i segni dell’alluvione, poi quando inizia la salita le prime case troglodite. Mi fermo e iniziamo a camminare verso quello che sembra un villaggio sotterraneo ancora abitato, qualche piccolo cumulo di legna e letame e un pannello fotovoltaico non ci sono tracce, solo terra nuda, ogni tanto si trova una specie di cratere ti affacci e dentro vedi una specie di palazzo scavato nella terra a due o tre piani, la maggior parte sono abbandonati ma tre o quattro case sono abitate anche se ora non c’è nessuno.
Non è roccia è proprio terra e nemmeno troppo compatta, ci sono dei pannelli fotovoltaici che forniscono elettricità a bassa tensione sufficiente comunque per l’illuminazione e per ascoltare la musica che in Africa è comunque una priorità, il pavimento del cortile interno è in terra battuta, le porte sono di legno di palma e le pareti in alcuni casi sono imbiancate con la calce, per entrare nel cortile di ingresso si passa da una specie di arco sotterraneo che difficilmente si vede arrivando.   Camminando fra questi “crateri” apro una porta e mi trovo dentro uno spettacolare frantoio, non c’è nessuno ma è chiaramente ancora attivo come testimoniano le tracce e gli odori. E` tutto scavato nella terra e nella stanza più grande c’è  la macina in pietra con la parte circolare che fa da fondo tutta unta, sopra ci gira una ruota dello stesso materiale che fa perno su un palo verticale posto al centro e viene fatta ruotare  per mezzo di un asse che viene fissata su un animale, tradizionalmente questo lavoro lo facevano i dromedari ma qui le cacate indicano chiaramente che il lavoro duro lo fa un asino. Nella stanza a fianco c’è un altro sistema di spremitura con una pressa che sembra uscita dai cartoni animati dei Flinstones, c’è un foro profondo nella terra dove si inserisce un tronco di palma lungo circa sei metri che con delle corde viene tirato su e sotto si inseriscono dei cesti morbidi bassi e schiacciati a forma di disco che vengono riempiti di sansa, vengono messi sotto il tronco e inframezzati da sassi i tipo calastre, in pratica è una pressa sul principio del “pondo “ arcaico, sistema di spremitura dell’uva il cui funzionamento ho raccontato tante volte durante le escursioni nelle Valli di Pomonte e Chiessi.
E mi ritorna in mente Beppe di Pomonte che quando li raccontavo del viaggio (questo) che volevo fare  mi disse “che te ne fai di parti’ qui c’è tutto, e quello che un c’è c’è già stato basta ricordassi del passato”. 
E` tutto molto affascinante ma anche precario, ovunque resti di case crollate, basta un po’ di pioggia e si scioglie tutto. E` comunque il sistema più logico per abitare questa terra, dove oltre alla vegetazione sono rari anche i sassi, è sicuramente molto più confortevole e fresco rispetto a una casa di cemento, dentro queste stanze si sta benissimo anche perché qui l’umidità non esiste. Ritorniamo verso la strada, le case pozzo vicino sono ormai meta dei turisti, un turismo veloce e superficiale che sicuramente porta qualche soldo ma passa e va, guardo questi pullman che si fermano pochi minuti e poi ripartono, quasi per dire “ci sono stato” , mi rendo conto che io vado piano e ne sono fiero. Il vivere sull’Isola mi ha insegnato a osservare e cercare in spazi limitati, a volte basta percorrere pochi metri per scovare meraviglie. Matmata è vicina ma una strada sterrata a sinistra mi incuriosisce, siamo nella zona del villaggio di Haddej e qui sono ancora molto evidenti le tracce dell’alluvione che nel millenovecentosessantanove distrusse gran parte delle abitazioni, oggi in gran parte trasformate in ovili. Nel villaggio odierno le case a forma di scatola di scarpe in cemento sono  prevalenti e stanno sostituendo quelle tradizionali a pozzo, da qui iniziano i lavori di  un grande stradone in costruzione a breve ci  arriveranno i bus provenienti dalla vicina Jerba, la principale meta turistica della Tunisia, e cambierà tutto velocemente, con gli schivi pastori che si trasformeranno in tanti venditori di souvenir a caccia di facile argent, è un modello di sviluppo che non mi piace, uccide le cose vere, trasforma culture millenarie in spot pubblicitari.
La strada si sviluppa con larghi curvoni sterrati che invitano a guidare di traverso, queste strade grandi che di solito preludono alla distruzione di paesaggi e culture sono perٍ in questa fase intermedia, prima del bitume, un parco giochi irresistibile per chi ama guidare sullo sterrato, quindi ignoro il divieto e entro subito, guido tranquillo ma poi mi faccio prendere la mano e senza rendermene conto finisco per entrare a palla dentro un cantiere attivo, dove finisce la ps. Tornando indietro mi rendo conto che il bordo strada è delimitato da tondini di ferro che sporgono di pochi centimetri dal terreno, se ne prendevo uno bene che andava squarciavo una gomma.
Sulla sommità della collina più alta c’è un piccolo marabutto che domina tutto, ci fermiamo vicino al villaggio per vedere le vecchie case abbandonate e salire fino al santuario, due bimbi ci vedono e si aggregano, si vede che qui bazzicano comunque i turisti perché hanno una gran bramosia di fare le guide,” vien ici, vien ici” nei loro occhi non c’è la curiosità dei bimbi e nemmeno l’orgoglio degli Amazigh, solo il mito effimero dell’argent, quello che rende cupi anche gl’occhi dei bimbi. Passiamo comuque un paio di ore insieme fra case, stalle e santuari trogloditi. E` ormai il tramonto quando alla fine del villaggio incontro una fatina scalza che gioca col fratellino portandolo a spasso con una carretta, non pensano all’argent e ridono felici con gli occhi pieni di gioia come devono essere gli occhi dei bimbi, come dovrebbero essere anche quelli dei grandi. E` il crepuscolo quando siamo di nuovo a Matmata e come un incubo riappare subito la superguidazeccatuttofare che mi aveva già avvicinato stamattina, senza aver ricevuto in cambio la minima considerazione  ma da vero professionista dell’assillo riparte a raffica “cafè? Hotel? Ristorant? foto casa?  foto starWars? io amico benvenuto italia I love you amici Berlusconi giuventus  the best !” Mi esce un vaffanculo baritonale accompagnato da uno sguardo spiritato che dev’esse stato recepito bene  infatti inforca il motobecane e si dilegua.
Con la macchina mi  affaccio per qualche chilometro sulla strada per Tatouine, è un paesaggio inquietante fatto di monti brulli e ripidi qui è tutto friabile, precario, sul mare in lontananza saetta e ci sono le trombe marine e anche sopra di noi le nuvole sono scure e cariche di pioggia, quindi decido di tornare a Gabes per passare la notte. Italica pizza e poi parcheggio vicino al porto in uno slargo lontano dal fiume che mi sembra sicuro.
 

   

Venerdi` 3 ottobre 2008 da Douz a Ksar Ghilane – Tunisia

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Oasi di Douz

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Oasi di Ksar Ghilane

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Il Villaggio di Ksar Ghilane

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Il Forte nel Deserto

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Le Formiche del Sahara

 

Il Deserto di sabbia
Sveglia di buio per vedere l’alba sulla grande duna di Douz che è proprio davanti agli albergoni e poi non è cosi` grande. Il sole sorge gigante dietro le sagome delle palme, il cielo si incendia e le piccole dune del deserto prendono forma. Sono deluso dalla duna soprattutto perché decantata come la Grande Duna, mi aspettavo quacosa di simile alla Grande Duna di Erg Chebbi nei pressi di Marzouga in Marocco che avevo visto a gennaio. Questo è il desertino dei mille balocchi, alzato il sole si è scatenata la baraonda: i quad,  le moto e i fuoristrada alzano polvere e rumore, tutti in fila fanno una specie di girotondo fra le dune bianche davanti a noi e poi ritornano alla base, si alza anche un ultraleggero che fa dei microvoli di cinque minuti a rotazione, ma nel giro di mezz’ora tutto si quieta. Le dune sono piccole ma belle, di colore chiaro quasi bianco con i soliti magici ricami sinuosi di sabbia e ombra, è un posto divertente per giocare a fare salti e scivolate, pero` scalzi perché con le scarpe si fa troppa fatica e poi si riempiono di sabbia. Rientrano le carovane dei cammelli che hanno  portato i turisti a dormire nel deserto, in realtà molto vicini alla zona turistica ma infossati dentro le dune per coprire le luci del centro abitato, credo che abbiano dato un senso di Sahara selvaggio ai turisti, l’immagine dei cammelli in fila indiana fra le dune rimane comunque molto bella, ma lo spettacolo massimo di queste dunette sono i “Tombolamerda” gli scarabei che camminano veloci sulle dune lasciando una traccia simile a quella di due minuscoli cingoli. Camminiamo per tre ore fra le dune e poi rientriamo alla “grande” duna dove i finti Tuareg si stanno preparando all’arrivo dei turisti portando cammelli e allestendo le bancarelle di souvenir. Questo è un deserto per tour operator, c’è anche la pista dei go kart da sabbia che anche mi garbano ma non è certo questo il deserto che cerco. Attraversiamo un tratto della grande oasi rigogliosa con le sue tante palme ricche di caschi di datteri ricoperti con fogli di nailon per proteggerli dall’umidità della notte, poi passiamo dal villaggio appena oltre la zona turistica, questo è il paese dei cammelli ce ne sono a centinaia probabilmente le “navi del deserto” perlomeno in questa zona sono ancora legate all’uomo per il turismo in quanto le attività carovaniere sono ormai state soppiantate dai camion. Sono pochi chilometri ma è una  realtà completamente diversa da quella a ridosso della duna, fra le case semidisastrate, capre, cammelli, asini e tanta spazzatura. Proseguiamo in direzione Matmata, la strada è bella nel deserto roccioso si incontrano di tanto in tanto stentati cespugli dove pascolano piccoli branchi di dromedari selvatici, uno si ferma in mezzo alla strada ignorandomi, segno evidente che di traffico ce n’é poco, vale comunque la pena di fermarsi per godersi le espressioni ingonghi dei cammelidi e le puppate energiche di un piccolo, qualche foto e si riparte voglio andare all’oasi di Ksar Ghilane per vedere il vero deserto di sabbia, il Grande Erg Orientale. Le guide dicono che la strada è percorribile solo con i fuoristrada ma comunque vale la pena provare, dopo una settantina di chilometri sulla destra con a fianco un piccolo cafè, il bivio per l’oasi, ci sono tre persone, uno è un poliziotto e mi ferma, temo che mi dica che la strada è solo per i fuoristrada e invece è solo per chiedermi un passaggio per un collega che poi in realtà si rivela il direttore dell’accampamento fisso che si trova dentro l’oasi. La strada è agevole dritta e piena di dossi, meno male se no ci sarebbe da addormentarsi, man mano che si avanza le dune si sostituiscono alla roccia e la sabbia ogni tanto invade la sede stradale, dopo una trentina di chilometri, circa a metà strada incontriamo la stazione di un gasdotto, da qui la strada diventa sempre più stretta bisogna andare forte quando c’è la sabbia per prende’ ” la ire” come diceva il Moro. E` divertente un po’ come quando dopo le sciroccate serie, il lungomare di Campo si riempie di sabbia, solo che qui per evitare di rimanecci in mezzo bisogna entracci a palla. All`improvviso come un miraggio il villaggio, poco più che una serie di distributori (baracche circondate da fusti di benzina e gasolio) e di abitazioni con il tetto a botte e i panneli fotovoltaici, il tutto arso dal sole e senza nessun albero. E` il classico villaggio di frontiera dei film, quello prima del punto di non ritorno e in effetti, nonostante sia una zona ricca di petrolio, è l’ultima stazione di rifornimento prima di addentrarsi nel profondo sud Tunisino, il prossimo luogo dove è possibile rifornirsi è Borj el Khadra un avamposto militare, il punto più meridionale di questa nazione, che si trova a pochi chilometri da Ghadames la mitica città di carovanieri Tuareg nell’odierna Libia.
Walid (il nostro passeggero che nel frattempo si è svegliato) mi dice di proseguire a destra su una pista sterrata in direzione dell’oasi, due tre curve a novanta gradi e poi un tratto che finisce appena prima di rimanerci dentro, ancora qualche centinaio di metri e siamo all’accampamento nel cuore dell’oasi di Ksar Ghilane. Questa è proprio la classica oasi dell’immaginario colletivo, le palme, la sorgente, il laghetto e poi le dune tutt’intorno. E` incredibile con quanta forza esca l’acqua che  permette di irrigare un palmeto molto esteso che in alcuni tratti è addirittura allagato, il posto è molto bello e seguendo l’invito di Walid decidiamo di passare qui la notte. Intorno e dentro la pozza c’è un gruppo di tedeschi che fa il bagno, fa strano vedere le donne in bikini (e anche un po’ skifo perché so’ brutte) e la gente seduta che beve birra, ma questo è il turismo che violenta e omologa tutto anche le oasi. Fra qualche ora quando il sole sarà meno aggressivo vorrei andare a fare una camminata fra le dune fino a raggiungere l’antica fortezza di epoca Romana di Tivasar, che successivamente fu trasformata in ksour, di cui ho letto una descrizione molto appassionata. Dovrebbe trovarsi su uno sperone di roccia due o tre chilometri ad ovest dell‘oasi, chiedo a delle guide che si stanno riparando all’ombra del piccolo chioscho a bordo pozza che mi confermano i tre chilometri, ma quando capiscono che non ci voglio andare né in fuoristrada né in cammello i chilometri diventano prima cinque, poi sette e poi dodici, cosi` come i tanti pericoli che crescono con i minuti, pero` anche nel disappunto c’è comunque sempre cordialità.
Fa troppo caldo per entrare nel deserto, andiamo in giro nel palmeto dove c’è anche un albergo, l’unico punto rumoroso dell’oasi a causa del gruppo elettrogeno che da la corrente elettrica al complesso. Il palmeto è rigoglioso e ci sono tantissimi datteri, all’interno si trovano delle piccole radure dove pascolano pacifici dromedari, asini e cavalli, nonostante siano avvolti da nuvole di   mosche e zanzare. Il limite dell’oasi è segnato da grandi piante di tamerice, appena oltre troviamo delle dune alte una trentina di metri e molto ripide e bellissime, nonostante la luce accecante l’arancio dorato della sabbia contrasta con l’azzurro terso del cielo e le nuvole bianche sullo sfondo, è un posto ganzissimo per giocare a fare i salti, mi immagino quanto si divertirebbero i bimbi con cui facevo le escursioni all’Elba e mi riprometto di portare i bimbi Isolani in Africa per far partire “Basa Elba”. Prima di entrare nel deserto “vero” si ritorna al “villaggio di frontiera”  l’auto ti consente di vedere tante cose perٍ sempre troppo filtrate, per capire di più bisogna andare a piedi meglio se lentamente, in modo che oltre a vedere le cose che cerchi, vedi anche quelle che ti vengono incontro. Il villaggio delle cellule fotovoltaiche e dei dirtibutori dipinti con i loghi e i colori delle auto e delle moto da competizione che sono passate da qui qualche tempo fa, è un posto vero e duro e anche i suoi abitanti lo sono, ci guardano con sospetto come a dire il vostro recinto è dentro l’oasi qui si viene solo per fare rifornimento, una bimba dagli occhi di ebano mi squadra curiosa mentre sta scaricando delle stagne dal cassone di un camioncino, è bellissima e mi viene di fotografarla ma mi fulmina con uno sguardo di censura e non riesco a scattare. Mi trovo a girare fra le case rifugio in un clima di gelo nonostante gli almeno quaranti gradi, ma poi la curiosità ha il sopravvento e gli sguardi di soppiatto diventano cenni e poi sorrisi, come sempre il ghiaccio è rotto dalle donne che allargano i sorrisi da sotto i veli censori. Questo è un villaggio di venditori di benzina e cammellieri, isolato da tutto dove l’energia arriva dal sole per mezzo delle cellule fotovoltaiche che sono collegate a gruppi di batterie i quali fanno funzionare le televisioni e l’lluminazione, ci sono anche dei lampioni con i panneli come quelli sulla strada sopra il Macciarello, mentre per l’acqua c’è un pozzo. Un asino immobile si gode l’ombra del carretto che da croce si è trasformato in privilegio, le case sono circondate da muri per difendere l’abitazione dalla sabbia che il vento ci spinge contro, il tutto è  reso magico da incredibili nuvole bianche che come dirigibili immobili adornano il cielo. Mentre cammino fra i vicoli incrocio lo sguardo gentile di un bimbo che mi mostra fiero la sua meravigliosa bicicletta con una ruota sola con cui magari s’immagina pilota invincibile di moto da raid e mi ritornano in mente i pomeriggi passati a immaginarmi pilota da rally tutto rannicchiato dentro un macchinina a pedali ormai diventata troppo piccola, Salaam! Una voce ridente mi riporta a Ksar Ghilane, è un anziano del villaggio che assieme al nipote sta preparando i dromedari per andare all’oasi ad accompagnare i turisti, ne parla con rispetto ma anche come un corpo estraneo, facciamo un breve tratto insieme e poi ci salutiamo.
Il sole ora è meno forte e cominciamo a camminare, contrariamente a quello che pensavo non ci sono né dromedari né fuoristrada, i tedeschi  sono andati via e sono arrivati altri due gruppetti in fuoristrada di cui uno di italiani ma sono fermi dentro l’oasi. Iniziamo a camminare nel “mare di sabbia”  scalzi si cammina perfettamente, le parole qui sono di troppo e come quando vai sott’acqua osservi e immagazzini immagini e produci pensieri. Come il mare sotto, il deserto è silenzioso ed è anche apparentemente sterile e invece è vivo e sempre in movimento, se la guardi bene la sabbia anche quando sembra non esserci vento si muove e anche sotto i piedi è sempre in movimento, è solido ma assomiglia tanto al mare anche nell’illusione di sentire la sua voce che ti parla entrando direttamente nei pensieri. Le dune in questo tratto non sono molto alte e sono gialle, ogni tanto c’è qualche cespuglio erboso e anche qualche alberello isolato, su ogni duna il vento ha disegnato trame diverse mentre le nuvole bianche e plastiche rendono bucolico questo ambiente di prima impressione infernale. Poi esce il vento che aumenta velocemente e la sabbia vola dentro basse nuvole che bucano quando ti battono addosso, man mano che il sole cala le dune diventano di colore cangiante, arriviamo alle dune più alte che la luce è veramente bella, a poco più di un chilometro ora si vede bene il forte dove vola un aquilone, a fianco dello storico baluardo c’è un fuoristrada che gli leva un po’ di poesia, dall’altro lato vedo in lontananza dei cammelli che stanno venendo verso ovest. Due turiste americane alcolizzate con due accompagnatori arabi molto più giovani di loro, le babbione puzzano di alcool e assomigliano a Fulvia maga mago`. Del forte romano è rimasto poco e niente e anche lo ksour è fortemente compromesso, iniziamo a tornare indietro fermandosi sulle dune più alte per vedere il tramonto, ci sono dieci minuti di pura magia in cui le dune sembrano di materia impalpabile, tanto il gioco dei chiaroscuri ne fa cambiare continuamente la forma, poi all’improvviso appena tramontato il sole cominciano a uscire dalla sabbia delle bellissime formiche grigio metallo con le zampe rosse, sono frenetiche e mordaci e gli garba pizzica’ nei piedi, sono le Cataglyphis Fortis dette anche formica del sahara dicano che sia attiva anche con temperature esterne di  settanta gradi, i suoi segreti per difendersi dal caldo sono la velocità (per attraversare velocemente le zone assolate) e zampe lunghe (per tenere il corpo lontano dalla sabbia rovente) ma qui io le ho viste solo dopo il tramonto. Mentre il cielo si incendia a ovest e diventa algido e pallido ad est rendendo il paesaggio gelido e immobile, si cominciano a vedere le prime stelle quando da una grande tana esce un animale bianco, non riesco a identificarlo ma guardando le impronte penso che si tratti di un fenec la volpe del deserto. Ormai è notte, ma sotto le stelle camminare è ancora più bello, vedo i falo` degli accampamenti che sono a poche centinaia di metri dall’oasi, ecco dove erano finiti i cammelli visti prima, ancora quache passo e poi si rientra all’accampamento. 
   

Giovedi 2 ottobre 2008 da Sbeitla a Douz – Tunisia

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La Palestra

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Arco di Antonino

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I Templi di Giove Giunone e Minerva

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Dentro l`oued

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Oued Essaboun

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La Ferrovia

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Oued El Kebir

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Tozeur

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Chott el Jerid

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Lastre di sale

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Giochi di sale

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“Passano ancora lenti i treni per Tozeur”
Sbeitla, lo Oued el Kebir e il Chott el-Jerid
Mi sveglio che è già giorno, il cielo è sereno e regna il silenzio, la luce è molto bella e la pioggia che ha lavato tutto fa risaltare le pietre dei monumenti che brillano nel primo sole del mattino. Non c’è ancora nessuno, poi arriva l’addetto ai bigletti e si entra nella città. Camminiamo su un largo vialone lastricato che conduce alle grandi terme con annesse palestre, in alcuni tratti i pavimenti sono crollati e si vede benissimo il sistema di riscaldamento mentre dove i solai sono integri i pavimenti a mosaico sono bellissimi perché lavati e resi brillanti dalla pioggia. Come in tutte le città romane anche qui ci sono le scanalature per le porte a scorrere dei negozi e i pipi ritti di pietra che indicavano la via per raggiungere i lupanari. Come Bulla Regia e Dougga anche Sefetula fu costruita dai romani su una preesistente città Numida intorno al primo secolo e raggiunse il massimo dello splendore circa un secolo dopo, doveva la sua ricchezza alla campagna fertile ed era famosa soprattutto per la produzione dell’olio come testimoniamo anche i resti dei tanti frantoi, pero` a differenza di Dougga, rimase un centro molto importante anche sotto i Bizantini che ne fecero la città più importante della regione e la fortificarono per contrastare le ribellioni dei berberi. Nel 651 il prefetto Gregorio rese la città indipendente da Costantinopoli ma dopo pochi mesi il nuovo stato fu sconfitto dagli arabi che ne decretarono il declino.
Lasciate alle spalle le terme ci troviamo davanti il teatro che è molto grande pero` più che restaurato sembra ricostruito e stona con tutto il resto, il vialone principale ci porta davanti alla porta di Antonino, è uno dei monumenti più antichi della città risale a quanto pare al 139, un grande triplice arco dedicato a Antonino Pio e ai figli adottivi Marco Aurelio e Lucio Vero, dall’arco si entra nel grande foro tutto circondato da colonne e il magnifico Campidoglio reso ancora più bello dalle nuvole che sono spuntate alle sue spalle, come sempre il tempio di Giove al centro e quelli di Giunone e Minerva che qui ancora di più che negli altri siti visitati regalano una visione d’insieme di grandiosità e armonia. Quello del foro è uno spazio enorme costruito per accogliere centinaia di persone, stamani qui c’è sentore di magia con le pietre bagnate che luccicano al sole, è tutto cosi` maestoso e irreale, non c’è nessuno in questo monumentale e immobile silenzio. Spostandosi appena fuori si incontrano tre basiliche Bizantine costruite su preesistenti templi, la più grande è la chiesa di San Severio, la più bella è la basilica di SanVitale che fu costruita nel sesto secolo nel cui perimetro di mura si trovano tre fonti battesimali rivestite a mosaico perfettamente conservate, una con disegni di pesci che sembrano nuotare nell’acqua rimasta sul fondo per la pioggia, una tutta bianca e per ultima la più bella con richiami floreali che sembra una jacuzzi gigante tutta morbida con le tesserine piccole che ne rivestono le sinuosità.
Il sito è molto esteso e ricco di ville e templi, camminando verso nord ovest si incontrano i resti dell’immancabile arco dedicato a Settimio Severo, più avanti un grande anfiteatro ancora da scavare e poi il grande ponte che attraversa ancora il fiume Sbeitla, proseguo lungo il fiume che anche qui porta i segni del nubifragio notturno e poi poco prima dell’uscita il grandioso Arco di Diocleziano, ci sono dei giardini ricchi di fiori belli e un gruppo di giardinieri a chiacchera che quando ci vedono passare fanno finta di zappettare per poi fermarsi subito dopo.  
Ho una gran voglia di vedere  la zona del nubifragio e ripartiamo con l’intento di fare la strada di ieri fino a Douz, i fiumi sono di nuovo secchi qui la piena è come un treno che passa ma l’acqua ha scavato delle voragini impressionanti. Il paesaggio è caratterizzato da infinite distese di pittai, è completamente un altro posto rispetto a ieri, l’acqua nei fiumi e nei campi è scomparsa, è rimasto solo fango e tante voragini nel terreno. Arriviamo a Feriana anche lei irriconoscibile, il fiume è secco, ieri notte mi sembrava di vedere un treno ma non ero sicuro, il treno c’era e anche la stazione, la ferrovia è ricoperta di fango e sterpaglia strappate, mi fermo e faccio quatto passi nel letto del fiume, ieri sera l’acqua aveva almeno quattro metri di altezza. La vita scorre lenta e tranquilla come se non fosse successo niente, i pollai, che da queste parti sono minuscoli, raggiungono le dimensioni minime viste finora, sono infatti ricavati da vecchie botti di carburante.
Lungo la strada ci sono tanti distributori di benzina, niente a che vedere con quelli che siamo abituati a definire tali, sono dei banchini con taniche e bottiglie di varia capacità piene di benzina, miscela o gasolio, si va dalla bottiglietta da mezzo litro alla tanica da 25 litri e i prezzi sono chiaramente più bassi rispetto ai “distributori occidentali”.  
La strada è piena di tronchi e fango, finalmente vediamo cosa erano le misteriose luci della Steg, che chissà perché me la immaginavo come un immenso asadero argentino, è in realtà una centrale elettrica che pero` si pronuncia coma la bistecca dell’americani, è più o meno l’equivalente dell’Enel da noi. Passiamo sopra il ponte sul Oued Essaboun che ormai è diventato un torrentello ma anche qui le tracce della piena sono impressionanti, poco dopo un poliziotto ci mette in guardia sui pericoli della via e sulla possibilità che la guardia nazionale ci rimandi indietro, proseguiamo e dopo poco incontriamo il gasdotto transtunisino che porta il gas dall’Algeria alla Sicilia, ne avevamo visto la stazione di pompaggio sulla costa a nord di Kelibia i primi di settembre prima che la condotta diventi sottomarina.    
Il paesaggio è arido e la strada per una trentina di chilometri fiancheggia la ferrovia, proprio quella cantata da Battiato dove “passano ancora lenti i treni per Tozeur” la strada ferrata avanza a volte sopraelevata su piccoli ponticelli, a volte dentro gole strettissime con i binari stretti stretti che sembrano quelli di un trenino elettrico, è tutto molto cinematografico potrebbe essere il set di Lawrence d’Arabia o quello di un film western di Sergio Leone.
Un gruppo di camper olandesi che ci precedeva di poco sta tornando indietro, ci fanno segno che la strada è impraticabile, proseguiamo e dopo poco incontriamo lo Oued el Kebir (Il grande fiume). I segni della piena di ieri sono impressionanti, l‘acqua si è portata via un pezzo di strada e il fiume ha allargato l’ampiezza e la profondità del suo letto, ora la situazione è più tranquilla ma c’è sempre tanta acqua sopra il livello della via, la maggior parte di quelli che provano a passare ce la fa, quando qualcuno rimane in mezzo (uno su dieci) interviene un trattore con un gancio che tira fuori dai guai. La polizia controlla mentre fra gli automobilisti su entrambi i lati c’è chi prova e chi aspetta che l’acqua abbassi ancora di livello. Arriva il nostro turno e passiamo senza problemi.
Il paesaggio sta diventando sempre più desertico, aumenta il caldo e la vegetazione si riduce a qualche cespuglio, a pochi chilometri da Gafsa c’è un pozzo a bordo strada dove fanno la fila trainati dagli asini e guidati da bimbi i carretti con le botti, Il panorama è bello con le montagne scure che fanno da sfondo alle palme di Gafsa (l’antica Capsa dei romani) ma la città è fatta di palazzoni e caserme e c’è tanto traffico. Tiro dritto per Tozeur, ormai è deserto, non quello di sabbia ma terreno roccioso con qualche sterpaglia, con le montagne sullo fondo e un cielo allegro azzurro con le nuvole bianche e pancione, ritroviamo anche la ferrovia che fiancheggia nuovamente la strada, incontriamo un altro oued in piena che si è mangiato una strada e poi Tozeur dove finisce la ferrovia e finalmente incontriamo il treno. Tozeur è molto turistica me la facevo più esotica e fuori dal tempo, è più bella cantata da Battiato che dal vero, pero` c’è una pasticceria dove fanno le millefoglie bone. Ripartiamo alla volta del Chott el Jerid, il lago salato più grande della Tunisia, ha una superficie di quasi cinquemila chilometri ed è attraversato da una strada sopraelevata, è un posto molto suggestivo e anche la luce è quella giusta con le montagne sullo sfondo e il grande lago secco è un enorme specchio dove i blocchi di sale riflettono l’ultimo sole del giorno. Scendiamo nel Chott, si avanza in un paesaggio surreale camminando fra grandi lastroni di sale che schioccano sotto i piedi, le lastre sono facili da prendere si fratturano naturalmente come grandi mattonelle, i colori diventano sempre più belli fino al tramonto che arriva insieme al sorgere della luna, questo è uno dei luoghi dove è stato girato Guerre Stellari, da qui Luke Skywalker osservava i due soli, in effetti sembra di essere su un altro pianeta. Fino a qualche decennio fa qui si caricava il sale sui dromedari e si portava fino alle città, oggi è tutto meno poetico e il trasporto del sale viene fatto con i camion, aggregarmi a una carovana di dromedari che trasportano le lastre di sale è una delle cose che mi piacerebbe fare, qui non ce ne sono più ma in Sudan, in Ciad e in Niger mi hanno detto che si trovano ancora e inschallah forse riusciro` a farlo prima che anche questa secolare e rituale attività venga cancellata per sempre dal “progresso”.
E` ormai notte quando arriviamo a Douz, la cittadina considerata la porta del deserto, è più piccola di quello che pensavo, con la macchina andiamo a cercare la famosa grande duna di Douz, ma troviamo solo alberghi e cantieri, ormai è notte fonda domani la cercheremo meglio ma la premessa è abbastanza deludente, si mangia qualcosa e poi si va internet dove Serena crolla e si addormenta. Dormiamo nel parcheggio di un hotel quattro stelle all’ombra di un pullman e dei gipponi dei turistoni, con il consenso benevolo del guardiano.

   

Pensieri dal deserto (Ghadames sabato 8 novembre 2008)

 

La sensazione di essere dentro la storia,
la speranza e la vergogna 

 

Sono nel deserto Libico, nella mitica città dei Tuareg.
In questi giorni ho avuto forte la sensazione di vivere da dentro un momento storico importante: la vittoria di Barrak Obama, il primo presidente nero degli Stati Uniti.
Di certi momenti se ne respira l’importanza dalla tensione e dalla paura, sono mesi che se ne parlava di queste elezioni ma sempre con distacco e disillusione “tanto non cambierà mai nulla”  “è sempre un americano” “è amico di Israele”  “se vince è un fantoccio, se no lo fanno fuori”
Però in fondo la speranza di un cambiamento c’era.
Negli ultimi giorni si capiva che la paura che vincesse il vecchio soldato yankee era forte.
Lunedì sera ero a Sousse a cena con il mio amico Alì, uno che di politica non ama parlare ma stavolta anche lui è teso “ se vince Mc Caine non c’è speranza per il mondo, se vince Obama forse è possibile un futuro”.
Mercoledì mattina, ha vinto Obama, c’è aria di festa sul louage che mi sta portando alla frontiera Libica, senza tanto clamore come usa in questo tipo di democrazie, ma la radio invece che fissa sulle solite musichette cerca continuamente notizie sul fatto del giorno.
Passo la frontiera Libica con meno problemi del previsto, anche nella blindata nazione di Gheddafi l’argomento è Barrak, la gente è felice anche se scettica e soprattutto ancora incredula, sono tutti in attesa delle prime mosse, da oggi alla testa del paese considerato il nemico numero uno, quello che qualsiasi cosa fa ha sempre ragione, c’è un Africano anche se molto yankee. La speranza che possa di colpo diventare un alleato per sconfiggere la miseria e far crescere la democrazia e la libertà in Africa è tanta. Felice anche se scettica e soprattutto ancora incredula.
Un‘ora fa prima di venire a internet ero a mangiare  in compagnia di “belli giovani e abbronzati” (e di molto grossi) Tuareg, mentre la televisione raccontava le esternazioni del “brillante” presidente del consiglio italiano. Come italiano  mi sono sentito una merda e mi è ritornato in mente Mohamed di Kerkennah, un anziano ridaccione col dono dell’ironia che mi faceva lezioni di geopolitica sul tetto della sua casa ricavata da un vecchio forte ottomano, “voi italiani siete come noi, solo che da noi i dittatori vanno al potere con i colpi di stato, invece voi li eleggete democraticamente” e giù a ride’ a presa di culo.
È quasi un anno che sono in Africa, sono in pratica stato adottato da questa gente, sull’Atlas mi hanno ospitato nelle loro case dandomi da mangiare a da dormire e aiutandomi a trovare il cammino, tutti poveri, neri e mussulmani, quelli che vengono quotidianamente insultati e aggrediti da Calderoli e compagnia.
Quando arrivavo nei villaggi di montagna la sera la gente mi veniva incontro per salutarmi e offrirmi ospitalità, non ho mai montato la tenda nei villaggi sono sempre stato ospitato e il pensiero andava spesso alla pagaiata in canoa fatta poco prima di partire per questo viaggio, dall’Elba a Roma dove nel “mio” paese sono stato fermato due volte per vagabondaggio dai carabinieri.
Gli unici problemi li ho incontrati quando ho incontrato i trafficanti di droga sulla costa mediterranea del Rif, ma lì ormai non era né Africa né Europa, era solo un gran giro di soldi.

 

Anche io spero nel cambiamento, da tutte le parti, all’Elba, in Italia, in Africa e nel Mondo. 
 

   

Mercoled?¨ 1 ottobre 2008 da Le Kef a Sbeitla ‚Äì Tunisia

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Zaouia Sidi Abdallah Bumakhlouf

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Basilica

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Antica Tor?†

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la piena del Mellegue

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la Tavola di Giugurta

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L'alluvione nel deserto
Fa freddo, dopo qualche mese in ciabatte mi rinfilo le 8850, sono quelle nuove consegnatemi da Jader a luglio. Andiamo nel centro di Le Kef  per respirare l’aria di questa giornata di festa,
El Haid chiamata anche la piccola festa (Haid as Sagheer) che ormai è l’argomento principale da una decina di giorni, nella via principale ci sono un po’ di ragazzi mascherati stile carnevale che ballano intorno ad un altoparlante e tanti piccoli banchini di chicci e balocchi. È una festa tranquilla, da famiglie, di quelle stile natale, in cui i parenti si riuniscono per il gran pranzo di fine digiuno scambiandosi i dolci tradizionali a base di miele e datteri, già si parla della grande festa che ci sarà fra settanta giorni l’Haid el Adha dove ogni famiglia macellerà un montone. È la festa dei bimbi e soprattutto delle bimbe che girano per il paese inghingate come piccole spose, spesso accompagnate dal babbo, pavoneggiandosi, è dissonante la vistosa eleganza delle bimbe con lo stile dimesso e sempre nell’ombra delle donne.
La strada sale ripida fra le case bianche fino alla Basilica, un edificio costruito in epoca romana e poi trasformato in chiesa dai bizantini, prima di diventare moschea con l’avvento dell’islam, oggi questo edificio è sconsacrato ed è stato restaurato cercando di riportarlo alle sue origini architettoniche, è adibito a museo ma per la gente è ancora la Grand Mosqué. Poi salendo gli scalini bianchi raggiungiamo la bella Zaouia di Sidi Abdallah Bumakhlouf  il santo patrono della città, è un posto bello, armonico e rilassante, ombreggiato dal verde degli alberi lucente per la pioggia, è un edificio elegante con tre cupole bianche e porte verdi. Saliamo ancora fino ad arrivare alla grande fortezza della Kasbah costruita sulla roccia a strapiombo che la rende ancora più imponente. Questo  è da sempre il punto strategicamente più importante del Tell e ancora oggi all’interno c’è una base dell’esercito tunisino. Davanti all’ingresso c’è il guardiano in attesa, oltre il portone fra lapidi e statue di varie epoche, fanno bella mostra una serie di vecchi cannoni circondati da fiori gialli, da qui un altro portone ci invita al livello superiore dove ci sono due forti costruiti nel milleseicento dagli arabi che riportano evidenti le tracce dei francesi nelle strutture difensive e negli alloggi. Dalle feritoie dei bastioni alti si ha una vista bellissima sulla città vecchia che ingloba gli scavi romani dove spiccano le colonne delle terme e sul grande altopiano. Accompagnati da bimbi che fanno festa entriamo nella parte alta della medina dove troviamo un'altra Zaouia, una scuola sufi fondata dal maestro Sufi  Sidi Ali Ben Aissa che oggi in parte è trasformata in museo. E’ uscito un sole caldo che si sposa bene con il vento fresco, davanti al “Sufi center” c’è una piazza alberata con un cafè stile bar da mario prima maniera, con il pavimento ricoperto di mozziconi di sigarette, dove si radunano gli uomini a fumare e a giocare a carte, mentre in piazza i ragazzini scoppiano i petardi. Saliamo ancora e usciamo dalle mura della medina, davanti a noi un grande bastione di roccia, è una collina di pietra gialla con tante piante di capperi e grotte belle usate come stalle, nella forma e nei colori ricorda Forte Focardo. Una scala scalpellata nella roccia ci porta sopra una grande piattaforma con “la periferia alta” un agglomerato di case abbaraccate e tanta spazzatura, peccato per lo sporco perché il posto è molto bello, con la montagna ricoperta di pini in alto e le cave in basso. Scendiamo da un viottolino ripido che ci riporta alle mura. Camminando fra i vicoli del vecchio quartiere Ebraico troviamo all’interno di un piccolo cortile la Sinagoga che è aperta. Qui per secoli ha vissuto una numerosa comunità giudaica, oggi non esiste  più, ma c’è una famiglia che vive qui a fianco che custodisce l’edificio e il suo tesoro: tre rotoli delle Torà scritti mano molto antichi che emanano un gran fascino, oltre alle sacre scritture c’è una mostra di foto incartapecorite che raccontano gli ultimi decenni degli ebrei di Le Kef.
Le Kef è bianca e  le porte delle case sono celesti, in diversi scorci ricorda Ponza.
Quando si riparte mezza giornata se n’é già andata, lungo la via facciamo una sosta in un marabutto circondato da olivi secolari, più avanti tende militari, filo spinato e cartelli di pericolo però non si vede nessuno, chiedo informazioni a un pastore che mi dice che si tratta di un campo di addestramento militare.
Le montagne algerine sullo sfondo sono molto belle e si perdono in lontananza in un orizzonte di nuvole di tempesta, iniziamo la discesa per raggiungere l’hamman Mellegue circondati da colline multicolori dominate dal rosso degli ossidi di ferro. Nella notte la pioggia ha scavato il fondo della strada ma si riesce ancora a passare, arrivati in fondo andiamo a vedere il fiume che rispetto a ieri sera è almeno un metro più alto e poi andiamo alle terme romane. A pochi metri c’è una casina dove vive una famiglia che usa l’hamman come bagno ma permette a chi vuole di usufruirne, la signora ci consegna la chiave da cantina e andiamo. Dall’esterno è poco più di un insieme di ruderi ma scendendo è sorprendentemente bello, si scendono due rampe di scale e ci si trova dentro il calidarium, una grande stanza scavata  nella roccia con una piscina che emana vapori, sulla volta un lucernaio che illumina la stanza con una lama di luce, è un posto fuori dal tempo. La vasca è alimentata da una sorgente di acqua calda e salata che si trova a poca distanza, sul pavimento ci sono dei fori chiusi con dei cenci che vengono levati per svuotare la vasca e il livello è regolato da un’apertura di troppo pieno che manda l’acqua nel Mellegue. Si sta proprio bene ammollo in quest’acqua calda e salata, il caldo abbiocca e ci vuole uno sforzo di volontà per uscire, la sensazione di privilegio è grande, dentro un calidarium di duemila anni fa in perfetta efficienza e dentro ci siamo solo noi, gironzolando mi rendo conto che è più grande di quello che sembrava, c’è un’altra vasca ancora più grande che è quella destinata alle donne. Pensando alla strada che stanno costruendo ho la sensazione che anche qui siamo arrivati appena in tempo, è un posto di eccezionale bellezza che si è salvato perché arrivarci è complicato, ma se entra nel circuito turistico è la fine,  magari ci faranno anche il foro e il colosseo, ma questa magia sparirà per sempre. Scambio qualche impressione con il ragazzo che abita qui, lui spera nei turisti e negli investimenti che promettono ricchezza, magari gli faranno fare anche il guardiano o il giardiniere e avrà una casa con la doccia, ma dubito che potrà ancora andare a suo piacimento nell’hamman degli ancien roman.
Il fiume è sempre più gonfio, un salto a vedere le spettacolari rocce colorate che sembrano clonate dalla miniera di Rio Albano e poi si riparte anche perché ha ricominciato a piovere, i signori delle terme ci invitano a rimanere per un giorno, decliniamo ma sono contento perché ritorniamo a trovare l’ospitalità  berbera. Andiamo verso Sud scendendo praticamente paralleli al confine Algerino, il paesaggio è da campagna maremmana e il clima da autunno europeo, arriviamo a Tajerouine un paesone di frontiera pieno di caserme militari e famoso per il contrabbando con l’Algeria, come tutti i centri anche questo è ricco di reperti romani, un piccolo cartello indica a sinistra la Tavola di Giugurta la famosa montagna fortezza dove si racconta che Giugurta, l‘ultimo re unico Numida  avesse la sua roccaforte inespugnabile. Giugurta era un eccellente guerriero e riunificò il regno Numida che i Romani alla morte di Massinissa avevano diviso in tre regni assegnati formalmente ai figli di Massinissa. Questa nuova situazione politica non stava bene ai Romani che presero a pretesto l’uccisione di alcuni ricchi mercanti capitolini per attaccare il regno Numida, Giugurta resistette per sette anni dal 112 al 105  avanti cristo e fu sconfitto solo perché tradito da Bocco I re della Mauretania e suo suocero.
Si sale in direzione di  Kalaat es – Senan, la Tavola dovrebbe essere davanti a noi ma la nebbia nasconde tutto, la vediamo quando ci siamo sotto, è una montagna con la sommità piatta, un’enorme fortezza naturale che incute rispetto e saperla roccaforte dei guerrieri numidi, per i legionari di Roma non doveva essere piacevole. La strada finisce al minuscolo villaggio di Ain Senan, la macchina viene assaltata da un gruppo di bimbi sovraeccitati che chiedono soldi e bon bon, segno evidente che qui è arrivato il turismo di quelli che scendono dal fuoristrada, fanno la foto, regalano dinari e bob bon e via, chissà cosa sarebbe successo se fossimo arrivati con il mulo, probabilmente saremmo stati accolti e invitati a prendere un the. Il turismo sarebbe una grande risorsa per queste terre povere ma questo sistema di turismo è schifoso e porta solo illusione di ricchezza e toglie la dignità, questi bimbi per correre dietro ai regali, magari anche ingenui, dei turisti, senza accorgersene anzi giocando perdono il loro orgoglio, valore indispensabile per vivere in terre così dure, incrocio lo sguardo di un anziano del villaggio e ci leggo il mio stesso pensiero.  Nel frattempo inizia a piovere forte e non si può salire in vetta, decido di tornare  indietro con l’idea di ritornare per salire in cima alla Tavola di Giugurta. Da Kalat es-Senan prendo una stradina  sterrata, ma dopo pochi chilometri le buche e il fango ma soprattutto il fronte temporalesco che si sta avvicinando mi fanno sciegliere di tornare indietro verso Tajerine. Nonostante la pioggia e il fango si incontrano tante persone a piedi e in bicicletta che imperturbabili si spostano da un villaggio all’altro. Piove sempre di più, ci fermiamo su un ponte per vedere un oued che si sta mangiando le sponde, ancora lampi. Ci passa davanti un gruppo di cinghiali crinierati con una quindicina di piccoli che sembrano essere usciti da un mosaico antico. L’idea è quella di arrivare a Tozeur, passiamo da Kasserine, il centro più grande della zona, senza fermarci mentre tutt’intorno si sta scatenando un delirio di fulmini, con il buio i fuochi d’artificio sono ancora più belli, arrivano dei lampi che accecano e viene un’acqua come le funi, i lampi illuminano una campagna che sembra un lago che si vuole mangiare la strada, a un certo punto non vedo più niente ma l’unica cosa da fare è proseguire fino a Feriana il prossimo paese. L’arrivo è apocalittico con il fiume in piena a fianco della strada che minaccia di straripare, le vie del paese sono dei fiumi che portano giù di tutto, naturalmente l’energia elettrica è saltata. Dietro ho il fiume che minaccia di straripare,  davanti una depressione che sta diventando un lago poi la strada risale, non c’è molto da scegliere vado e va bene, parcheggio e aspetto con l’acqua che scorre sotto la vettura. Dopo dieci minuti ha praticamente smesso di piovere, lo spettacolo della piena è poderoso, mi vengono in mente i consigli dei pastori che incontravo sull’Atlas che mi raccomandavano sempre prudenza quando passavo nei letti secchi degli oued, ora ho capito il pericolo. Qui la gente prende tutto senza scomporsi minimamente, osserva tutto con apparente distacco, è tutto inschallah e amdullah, di prim’acchito sembrano tutti un po’ tordi, ma con una natura così violenta essere fatalisti è qualcosa di simile alla sopravvivenza. Leggo la carta stradale, per arrivare a Gafsa bisogna passare il fiume che si chiama El Kebir che in arabo vuol dire Il Grande, il che vuol dire che è meglio non andare troppo avanti, ma la curiosità è tanta avanzo un po’ incontrando fango tronchi e pozze, si capisce che l’acqua è già calata rispetto alla piena di qualche minuto fa. In lontananza si vedono tante luci, mi dicono che si tratta della “Steg” sembra una base spaziale, probabilmente è  un’industria o qualcosa del genere, chiedo se la strada per Gafsa è percorribile, ma nessuno lo sa, comunque la strada diventa sempre più impraticabile e decido di tornare indietro. A Feriana incontro un tassista che parla italiano è appena arrivato dalla strada di Kasserine mi conferma che verso Tozeur è impossibile andare e che El- Kebir è straripato e ci sono stati forse dei morti, però la strada per Kasserine è praticabile. Di dormire a fianco del fiume non mi va, così si torna a Kasserine. Tornando indietro mi rendo conto di quanta acqua c’era prima, ora la strada è alta sulla campagna  mentre prima l’acqua sembrava inghiottire tutto, anche Kasserine ha subito una bella lavata e il fango ha invaso le strade, anche questa è una città di frontiera e quindi è piena di caserme e di militari, ci fermiamo a mangiare un panino insieme ai tanti soldati in libera uscita che quando li vedi senza divisa e senza fucili sono dei ragazzini timidi e sbarbati, fissati coi telefonini e i vestiti alla moda. Anche qui trovo un internet e dal web arrivano notizie di tanti morti per il maltempo soprattutto in Algeria, come sempre è Roberto che da La Bonalaccia mi da le dritte per collegarmi sui siti giusti.
Ormai sono circa le due, sarà per l’elettricità dei temporali ma non ho sonno e allora decido di guidare ancora un po’ fino a Sbeitla così domattina presto andiamo a vedere i resti dell’antica città di cui ho letto meraviglie. Anche qui la strada è allagata ma comunque riesco ad arrivare e parcheggio davanti agli scavi del sito.

   

Marted?¨ 30 settembre 2008 Dougga, Le Kef ‚Äì Tunisia

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il teatro

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veduta del Tell

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il tempio di Saturno

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tomba preistorica

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opus africanus

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la nicchia di Giove

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il Campidoglio

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opus africanus

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i venti dei romani

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terme

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casa del trifoglio

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latrine

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Mausoleo Numida

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Arco di Alessandro Severo

 

Dougga la Dorata
Un ragazzo tunisino dai riccioli rossi mi consegna la classica sgraziata clio tre volumi con in dotazione un mazzo di datteri e un cd di Ramazotti in omaggio alle italiche origini.
Lasciamo una Bizerte che si sta dormendo il mattino del suo ultimo giorno di Ramadan e dopo un tranquillo controllo della gendarmeria cominciamo ad entrare nella campagna. Ci lasciamo alle spalle il Jbel Ickeul dove però voglio tornare prima di lasciare la Tunisia, sono stati percorsi solo pochi chilometri ma è già un altro mondo, pochissime macchine, ogni tanto un pik up carico di poponi gialli, quella che stiamo attraversando è una pianura brulla dove passano lenti carri trainati da asini che sembrano ignorare la pioggia, poi risaliamo  le colline del Teboursouk ricoperte di pini striminziti stile monte Orello, passiamo dall’omonimo paese e poi finalmente  il Tell, un altopiano roccioso che stamani è fasciato dalle nebbie. La pianura sopraelevata del Tell è assai adatta alla coltivazione del grano, caratteristica che rese questa regione ricca e importante già prima delle dominazioni Cartaginesi e Romane. Siamo qui per vedere i resti di Dougga considerata con la Libica Leptis Magna la più bella città del periodo Romano dell’Africa. Dopo una serie di ripidi tornantoni la strada spiana, sulla nostra destra i resti delle cave Romane con ancora evidenti le tracce dei solchi di cesura per il distacco di blocchi e colonne, in lontananza si vedono le prime colonne che si stagliano austere nel cielo plumbeo. Il sito è deserto, solo un paio di persone alla biglietteria, la pioggerellina e il vento freddo esaltano ancora di più il silenzio aumentando la suggestione. Davanti a noi c’è il teatro un perfetto semicerchio che poteva ospitare più di tremilacinquecento persone, fu fatto costruire da Marcus Quadratus (è scalpellato proprio così) uno dei più ricchi abitanti di Dougga nel 188 dopo cristo, la parte bassa dominata dalla scena  è ricca di stanze e cunicoli, saliamo in cima al camminamento alto sopra le gradinate, nel mentre la nebbiolina che circondava i monumenti si è dissolta aprendo uno scenario favoloso che domina tutta la città. Dougga si è conservata così bene perché dopo il declino dell‘impero Romano è stata praticamente abbandonata come centro urbano,  ha continuato ad essere abitata ininterrottamente (e in parte lo è anche oggi) ma da pastori e contadini che si sono insediati fra le monumentali opere dell’epoca classica. L’agglomerato si sviluppa su un colle morbido ricco di acqua sorgiva e di grotte naturali dunque perfetto per un insediamento umano, alla nostre spalle ci dovrebbero essere degli insediamenti risalenti al secondo millennio avanti cristo. Un viottolino risale fino al Tempio di Saturno, si trova a mezzo chilometro dalla zona adibita alla visite ed è quello ridotto peggio fra i tanti templi, ma da quello che rimane si capisce che doveva essere enorme anche perché Saturno prese il posto di Baal Hammon la principale divinità dei Cartaginesi, che i Romani da paraculi quali erano trasformarono in Saturno. Il tempio si trova su una grande terrazza che si affaccia da una posizione di dominio sulla ricca pianura circostante dove oggi come al tempo dell’Impero Romano si estendono grandi oliveti. In basso a poca distanza l’unica traccia cristiana del sito, la chiesetta di santa Vittoria che fu costruita dai vandali nel V secolo, quasi invisibile al cospetto di tanta grandezza, rudere che nelle dimensioni e nella forma ricorda le chiesine di Epoca Pisana della montagna Elbana come San Frediano e San Bartolomeo. Di fianco c’è la cripta dove ci sono ancora dei massicci sarcofagi in pietra in uno dei quali ci dovrebbero essere le reliquie della santa. Fra asini e i fichi d'india risalgo la collina in cerca delle tracce preistoriche, qui c’è anche una fattoria  abbaraccata, a metà strada fra la casa del vecchio Urru e il caprile di Evangelista sopra San Piero, davanti all’uscio il padrone di casa mi osserva da un bel po’ è in compagnia di un paio di cani, ci saluta e ci viene incontro e con fare alla”Gino Brambilla”  mi indica la zona delle tombe che si trovano poco più in alto. Sono tombe dolmeniche piuttosto massicce le più grandi sono di forma ovale costruite con grossi lastroni e ricordano quelle delle Piane della Sughera, il padrone di casa mi ha accompagnato e mi fa vedere resti di ceramica e forni per la terracotta, ma soprattutto mi vuole far vedere la sua catana piena di monete e lari di terracotta che dice aver trovato zappando qui intorno. Siamo sul dorso del colle, da qui si vedono bene le imponenti cave da cui proviene tutta la pietra color oro usata per la costruzione di Dougga. Ritorniamo in direzione del sito principale camminando fra i coltivi dove fra le zolle sbucano continuamente pezzi di ceramica, scendendo fiancheggiamo un acquedotto Romano usato ancora oggi per portare l’acqua alle casa di Dougga nuova, anonimo paese di case a forma di scatola di scarpe costruita a valle dell’insediamento antico dove è stata fatta trasferire la popolazione quando la città monumento è stata aperta alle visite turistiche. Ritorna a piovere, ci ripariamo nelle vecchie cisterne dove ci sono ricoverati centinaia di reperti, ci sono tante statue alcune veramente grandi, mosaici, are e un po’ di tutto. Lo scroscio dura poco e passando fra olivi e melograni ci troviamo “in centro”. Finalmente osservando da dietro le mura del Campidoglio capisco l’Opus Africanus la tecnica costruttiva usata dai romani in Africa, si tratta di colonne di pietra con pezzi orizzontali e verticali che servivano da sostegno e da appiglio per il resto della muratura fatto con pietre più piccole, un po’ come si costruisce oggi con le colonne di cemento armato e gli “specchi” riempiti con le “murette”. Le vie sono lastricate meravigliosamente, mi piacerebbe che qui ci fossero Babbo e Peppe loro apprezzerebbero la qualità di questi lavori eccellenti, il reticolo delle vie è diverso dal solito rigore geometrico delle città dell’antica Roma, è tortuoso e a volte labirintico, le vie seppur più maestose ricordano quelle sinuose viste qualche settimana fa a Bulla Regia, infatti anche qui la città è stata costruita su un insediamento precedente. La storia ci dice che Thugga, questo è il nome originale, era già un grande insediamento quando i Cartaginesi nel quarto secolo avanti cristo vi si insediarono, nel secolo successivo, dopo la sconfitta di Cartagine nella secoda guerra Punica, diventa con il benestare di Roma città Numida sotto il regno di Massinisa e rimane sotto di loro fino al 46 avanti cristo. Quando il re Giuba I durante la guerra civile romana si schierò dalla parte del perdente Pompeo, Giulio Cesare gliela fece pagare e pose termine per sempre al regno Numida. Thugga divenne Dougga e iniziò il processo di romanizzazione che raggiunse il culmine fra il secondo e il quarto secolo, periodo in cui furono costruiti la maggior parte dei monumenti. Poi con l’invasione dei vandali tutto lo splendore e la ricchezza Dougga la dorata finì rapidamente.
Quando durante le conversazioni un capisco nulla e succede spesso con l’Arabo, penso che se i romani avessero romanizzato di più l’Africa del nord magari tutto il nord africa avrebbe mantenuto una matrice linguistica latina con innegabili vantaggi per noi e sicuramente senza l’avvento dell’Islam tutto il nord africa avrebbe una matrice linguistica latina, in questo viaggio penso spesso al grande popolo del mediterraneo e credo che una lingua comune seppur frutto di una dominazione avrebbe aiutato tanto l’integrazione fra le due sponde del mare nostrum. 
La via principale ci conduce nella piazza dei venti, siamo circondati da templi che si estendono in tutte le direzioni, sul pavimento è incisa una grande rosa dei venti, dodici nomi scalpellati alcuni si leggono bene altri meno Africus (che corrisponde allo scirocco), Septemtrio (Tramontana), Auster, Leoconotus, Faun, Arcistes, Circius, Aqui e poi altri quattro che non si leggono più, è incredibile che in un posto così bello ci siamo solo noi. Subito dopo si arriva davanti al Campidoglio, la parte più imponente di tutto il sito costruito sopra una collina ha grandi mura alte oltre dieci metri e sei grandi colonne in monoblocco che sostengono il portico, all’interno ci sono tre nicchie quelle laterali per le statue di Giunone e Minerva e la più grande al centro per l’mmagine di Giove che doveva essere alta almeno sei o sette metri. Proseguiamo camminando nel grande spazio del foro, il silenzio è rotto, arriva un gruppo di turisti sono una quindicina di veneti e l’unico che parla italiano è la guida tunisina. Ville e templi si susseguono (censiti ce ne sono ventuno), arriviamo alle grandi terme ulteriore prova della ricchezza di questa città, sono maestose nella parte pubblica e ancora di più in quella labirintica delle caldaie e dei condotti, dove però gli schiavi facevano una vita torturante. Il vento ha portato il sereno e il sole illumina tutto e si capisce ancora meglio perché veniva chiamata la dorata, la pietra gialla si illumina come se fosse placcata d’oro.
Suona il telefono, inaspettata arriva la notizia che attendevamo da più di un mese: è arrivata l’autorizzazione per andare a La Galite, fra tre giorni confermare la data di partenza per l’isola e inviare una serie di documenti relativi alla barca.
Il morale è alto, continuiamo a scendere la collina urbanizzata e ci troviamo davanti una delle ville più belle nominata dagli archeologi casa del trifoglio, in realtà era il bordello più importante della città, si entra da una scalinata che conduce a una serie di eleganti stanze che si affacciavano sul cortile interno. Ancora un impianto termale più piccolo e ridotto peggio ma con una latrina in pietra  a dodici piazze a forma di ferro di cavallo che sembra appena ultimata, in qua e in là ci sono anche tanti pavimenti mosaicati. C’è una guida ferma fra il casino e le latrine e il grande Arco intitolato Settimio Severo il primo imperatore di Roma nato in Africa, si offre per accompagnarci ma in realtà anche lui è qui per provare a vendere qualche reperto che fa astutamente capolino dalla classica  catana del tombarolo venditore. In questa zona lo scavo è solo parziale ma affascinante perché vivo, con le pecore e le capre che pascolano fra capitelli e are votive, scambio qualche parola con un pastore anziano tutto contento perché dice che qui in fondo non ci arriva mai nessuno, mi racconta che prima che attrezzassero l’area archeologica lui viveva fra i templi del centro e poi mi indica la via per raggiungere il tempio Numida, che in realtà si vede molto bene perché il mausoleo è alto più di venti metri, con una piramide in cima dove sta seduto un leone di pietra. Pur essendo il monumento architettonico più antico del sito, risale al secondo secolo avanti cristo, ha una forma che lo fa sembrare molto più recente e ricorda il mausoleo Tonietti del Cavo, la forma è quella di un obelisco tozzo a tre piani, è considerato il più importante monumento Numida esistente ed è famoso per l’iscrizione bilingue in Libico e Punico che recita “Ateban, figlio di Ypmatat figlio di Palù” Purtroppo l’arroganza e la stupidità dei colonizzatori europei ha lasciato la sua traccia di vergogna, anche qui infatti nel 1842 per volere del console inglese di Tunisi fu rimossa la pietra con l’iscrizione e questo causò il crollo del monumento. La pietra originale oggi trova a Londra al british museum e il mausoleo che si vede oggi fu rimesso su nel 1910 da una squadra di archeologi francesi. Il parco archeologico è ormai chiuso, ma non ci sono problemi perché si può uscire dai campi circostanti che non sono recintati, risaliamo dal lato ovest passando per i ruderi delle terme estive e poi il grande tempio dedicato a Giunone che rimane ai margini del centro monumentale fra i terreni coltivati circondato da olivi secolari. All’interno di questa maestosa scenografia assistiamo a una scena bellissima e allo stesso tempo imbarazzante perché lo sguardo viola un momento di preghiera di grande intimà e intensità. Poi passiamo sotto il grande arco dedicato a Alessandro Severo, ripassiamo dietro il Campidoglio per poi uscire da Dougga nuovamente bagnata dalla pioggia.
Il tempo è il classico autunnale e il caldo patito fino a pochi giorni fa è un ricordo, ormai è tardi e facciamo la strada principale per raggiungere le Kef attraversando l’altopiano del Tell, piove sempre più forte e la campagna comincia ad allagarsi. Arrivati a le Kef  proseguo per sfruttare l’ultima luce e vedere la strada per Mellegue dove ci dovrebbe essere un impianto termale di epoca Romana, la voglia di vedere l’Algeria è tanta ma una serie di posti di blocco armati mi fa capire che non è cosa. Imbocco la sterrata per il sito, sul lato ovest in alcuni tratti ci sono filo spinato e cartelli con i teschi che indicano la possibilità di campi minati, il fango scorre lungo la strada sterrata però, contrariamente a quanto detto da alcuni, la strada è percorribile, anzi è uno spettacolare sterrato a tornantoni reso ancora più divertente dal fango. Arriviamo in basso all’imbrunire osservando il fiume Mellegue torbo di fango che si sta gonfiando a vista d’occhio. Le terme antiche sono ai margini del fiume e domani inschallah verremo a visitarle per bene.
Le Kef è un'altra Tunisia rispetto a quella della costa, anche un altro islam, siamo in terra Berbera lo si vede dalle facce affilate e dai fisici snelli dei suoi abitanti e lo si respira. La città si sviluppa su una collina rocciosa a 780 metri di altezza, il nome trae origine da Kaf che significa roccia in Arabo, la prima città fondata su questa roccia che domina il Tell fu costruita dai Cartaginesi nel cinquecento e si chiamava Sicca, una città fortezza che era famosa per le prostitute sacre che officiavano nel tempio dedicato a Astarte la Dea dell’Amore, quando Roma si sostituì a Cartagine il Tempio fu dedicato a Venere nome trasformato in Sicca Veneria. Grazie alla sua posizione strategica fu anche una delle roccaforti di Giugurta il re Numida che si ribellò a Roma e la sua indole ribelle è rimasta anche durante la dominazione Araba alla quale i fieri Berberi del Tell nel corso dei secoli si sono più volte ribellati.
E’ l’ultimo giorno di Ramadan e le attività sono tutte chiuse per l’Haide, non si trova nemmeno un panino, la via centrale, che come sempre si chiama avenue Bourghiba, è fiancheggiata da un lungo porticato pieno di microscopici fondi ma la struttura più appariscente è l’hotel Sicca Veneria che con le sue luci a intermittenza fucsia sembra un sexy shop, l'islam bacchettone è lontano qui siamo nella città di Astarte e Venere. Nel frattempo diluvia e le strade diventano fossi, parcheggiare è un problema, col mulo era più facile, trovo un parcheggione vuoto ma un soldato armato sbuca e mi dice che è solo per militari. Sono ormai le undici, il fortunale si è fermato e si vede anche qualche stella, il centro si è ravvivato e la gente si riscalda intorno ai bracieri dove si arrostono salsicce di montone che col freddo ci stanno proprio bene. Dopo il convio un paio d’ore a internet che come sempre nei centri più piccoli è il principale punto di ritrovo e poi parcheggiamo in un posto tranquillo e ci mettiamo a dormire.   
   

Luned?¨ 29 settembre 2008 Bizerte ‚Äì Tunisia

Image Situazione di stallo
Da Tunisi non è arrivato ancora niente, tutto quello che potevamo fare è stato fatto, le autorizzazioni non ci sono, il responsabile delle canoe dello sport nautique che ieri ci aveva dato appuntamento per stamattina non c’è, tutto è ormai fermo per l'Haid e ci saranno almeno tre giorni di festa. Domani inschallah ce ne andiamo, ho deciso di noleggiare una clio per una settimana, i tre mesi di permesso stanno per scadere e ho voglia di vedere tante cose, partire a piedi significherebbe rinunciare a La Galite quindi l'unica soluzione è la macchina in maniera da rientrare velocemente se arrivano le autorizzazioni.
 
   

Domenica 28 settembre 2008 Bizerte – Tunisia

New layer…

Sabato 27 settembre 2008 Bizerte – Tunisia

Image La Medina di Bizerte
Andiamo nuovamente al palazzo del Governatore per avere notizie delle autorizzazioni ma i vigilanti mi bloccano "interdit pas possible" è vietato entrare nel palazzo del Governatore con i pantaloni corti e le ciabatte, ridendo entro ma arrivano attendenti e poliziotti da tutte le parti e mi bloccano, Serena per fortuna può entrare e io rimango fuori ad aspettare fra le risate stentate della "banda interdit". Come previsto nessuna novità. Anche oggi piove sarebbe la giornata giusta per scrivere un po' ma manca la voglia, facciamo un giro al porto dove con le barche a vela arriva sempre qualche personaggio strano e poi in giro per la Medina, quella di Bizerte non ha i classici confini definiti da mura, ci si entra gradualmente camminando fra i banchi del mercato della ville nouvelle e senza che te ne accorgi ti trovi dentro la Medina accompagnato dal vociare dei mercatai che è uguale in tutte le lingue. Un formicaio per uomini la medina, il moderno per motivi di spazio rimane in gran parte fuori, estraneo è il puzzo degli scarichi della macchine e il loro rumore, il suono di sottofondo è un brulicare di passi e voci sussuranti, dai carrugi vengono fuori i suoni antichi delle botteghe dei falegnami e dei fabbri e al posto dei puzzi dei motori gli aromi acuti delle spezie e i profumi densi e intensi che arrivano dalle finestre delle cucine perché il ramadan è il mese del digiuno ma nelle case è tutto un preparare nell'attesa del grande pasto serale.
Sbuchiamo nel porto vecchio dove uomini e gatti sonnecchianti si riparano dalla pioggia fra tettoie e porticati, mi piace osservarla questa passività ma non mi appartiene, è già troppi giorni che siamo statici è tempo di fare qualcosa di più attivo.   
   

ULTIM’ORA

Gli aggiornamenti dell'ultimo minuto.