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Luned?¨ 8 settembre 2008 Bizerte – Tunisia

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Da Aluch Ali a Ciccio
Ramadan al mattino vuol dire silenzio, la maggior parte delle persone comincia a uscire di casa intorno a mezzoggiogiorno. I piccoli pescherecci si specchiano nella darsena immobile del Porto vecchio, hanno le forme familiari delle barche da “pesce bono”. Il vecchio canale costruito dai cartaginesi che portava nel lago di Bizerte partiva da qui, ma fu interrato dai francesi nel 1895 che poi ci costruirono sopra parte della ville nouvelle. Entriamo nella medina piccola e silenziosa e in parte abbandonata che porta ancora evidenti, in alcune zone, i segni dei bombardamenti francesi del 1961 quando le forze coloniali si rifiutavano di restituire la città alla nuova nazione magrebina, l’esercito invase la base francese e i francesi risposero violentemente con le truppe stanziate in Algeria, ci furono novanta ore di combattimenti e più di mille morti.
La città è dominata dall’alto da una grande fortezza chiamato forte spagnolo, ma che in realtà fu costruita da Aluch Ali dopo la cacciata degli spagnoli da Algeri nel 1570. Aluch Ali, il successore di Dragut al comando della flotta ottomana, era in realtà un Calabrese che si chiamava Giovanni Dionigi Galeni ed era destinato alla vita monastica, fu catturato nel 1536 da Khayr al Din (Barbarossa) nei pressi dell’isola di Capo Rizzuto e fatto prigioniero, successivamente rinnegò la fede cristiana e iniziò una brillante carriera come Corsaro Mussulmano. Oltre che grande ammiraglio fu anche governatore di Algeri, Tunisi e Tripoli.
Dall’imponente fortezza voluta da Giovanni Aluch Ali si gode di un panorama ampio che oltre alla parte vecchia e alla ville nouvelle scopre anche i tanti impianti industriali affacciati sul lago.
Lasciata la parte vecchia facciamo un giro allo sport nautic alla ricerca di informazioni. Lo sport nautic è un porto turistico dove ci sono anche i circoli sportivi con i kayak e le derive, avendo una barca di proprietà sembra che per uno straniero andare a La Galite non sia poi così complicato comunque molto meno che per un passeggero. Passato il ponte levatoio andiamo al porto nuovo, quello dei pescherecci grandi, in maggioranza  zaccarene e paranze, ma ci sono anche barche più piccole che calano nasse, palamiti e tramagli, e poi le barche dei corallari inconfondibili per le camere iperbariche fissate sui ponti. Gente disposta ad andare qui se ne trova, ma il problema sono le autorizzazioni, Capitaneria di Porto e Guardia Nazionale sono rigide, i pescherecci non possono portare passeggeri. L’unica barca autorizzata è il Bichi di un certo Kaled ma oggi è in mare.
È sera quando rientriamo in centro, giro a internet, Michelangelo ha sistemato l’archivio del diario di viaggio di elbaeumberto che ora è finalmente diviso per mesi e per giorni e quindi molto più facile da consultare, e a breve la stessa cosa sarà in linea per l’archivio fotografico.
A Bizerte c’è un ristorante italiano, punto di ritrovo dei tanti italici che sono qui per lavoro, il proprietario Ciccio è un siciliano originario di Mazara del Vallo, è una persona assai ben inserita nel sistema bizertino, qui conosce tutti, fa un paio di telefonate e ci da dei riferimenti, domani si dovrebbe sapere qualcosa.
   

Domenica 7 settembre 2008 Bizerte – Tunisia

Image Il porto vecchio
Attraversiamo una Kelibia deserta fino alla gare routiere, la mattina nei giorni di ramadan fa sembrare tutto disabitato. Col bus si torna indietro e rivediamo i fenicotteri rosa nella laguna di Korba, poi dall’interno in un’ora e mezzo si raggiunge la capitale attraversando un paesaggio siciliano. Da Tunisi in louage fino a Bizerte passando vicini a Utica la famosa città romana, attraversiamo il canale di Bizerte dal ponte girevole e poi ci sistemiamo vicino al porto vecchio, tra la medina e la ville nouvelle. Fa tanto caldo e i ragazzi si divertono a tuffarsi dai ruderi dei vecchi ponti sul canale che collega il mare col lago di Bizerte. Il porto vecchio è affascinante, si tratta di un un porto canale che si allarga in una darsena, ricorda vagamente il porto vecchio di Bastia, è fiancheggiato dalla Kasbah e dalla Medina a destra e dalla Ksibah a sinistra dove si sviluppa il piccolo quartiere italiano, il luogo in cui vivevano i pescatori siciliani e i corallari che si erano trasferiti qui nell’ottocento. Un giro nei mercati all’aperto e poi cominciamo a cercare informazioni per raggiungere la Galite. Ormai è tardi ma domani al circolo nautico dovremmo trovare la persone che ci darà le giuste dritte. 
   

Sabato 6 settembre 2008 Cap Bon – Tunisia

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L’Arcadia di Cap Bon 
Partiamo presto con un petit per raggiungere El Haouria alla base di Cap Bon, da qui si cammina tre chilometri per ritrovare il mare sul lato nord del capo, dove si trovano le cosiddette grotte romane che in realtà sono antiche cave di arenaria. Il sito è chiuso in attesa di imminenti lavori per la messa in sicurezza, ma non c’è nessuno quindi si entra. Sotto la zona archeologica c’è un piccolo scalo dove sono ormeggiate un paio di barche di legno e un potente gommone, le rocce della scogliera sono giallastre e lavorate dal mare, formano tante piccole vasche profonde orlate di sinuosi pinnacoli, dove si cristallizza il sale, assomigliano tanto a quelle dei Cancherelli dietro il Cavo e anche alle scogliere gialle intorno a Capo Stella.
La cave antiche si presentano con delle ampie aperture a pochi metri dal mare che conducono a dei grandi saloni che si estendono nella penombra su più livelli, collegati fra loro da scalinate scalpellate nella roccia. Questi imponenti spazi ipogei furono scavati nell’antichità, i primi a sfruttare le cave di El Haouaria furono i Punici che già nel VI secolo a.c. cominciarono a estrarre  questa pregiata arenaria gialla resistente e facilmente lavorabile, la pietra estratta venne usata per la costruzione di Cartagine. I Romani, conquistate queste terre, continuarono l’attività estrattiva, anzi  l’aumentarono, si resero conto che la pietra era migliore nel sottosuolo e iniziarono a costruire una serie di pozzi e gallerie per tagliare l’arenaria migliore, con il risultato di creare un suggestivo mondo di gallerie e saloni sotterranei che si estendono paralleli alla costa per oltre un chilometro. Le tonnellate di arenaria estratta vennero usate soprattutto per costruire la Cartagine Romana intorno all’anno zero e per costruire iI gigantesco anfiteatro di El Jem (Thysdrus) ma si dice che la trasportarono anche fino a Roma per costruire alcune parti del Colosseo. È sicuramente un luogo di grande suggestione con gli spazi che assumono forme e dimensioni idefinite per i giochi di luci e ombre che si disegnano sulle pareti. Visitare queste cave senza nessuno è stata una grande fortuna, speriamo che i lavori di messa in sicurezza in previsioni di futuri flussi turistici non ne snaturino il fascino.
Proseguiamo lungo la scogliera in direzione del Capo, davanti a noi l’isola di Zambra, che assomiglia a Montecristo visto dal Giglio, e l’isolotto di Zambretta entrambe riserve naturali protette non accessibili. Lungo la costa ci sono una serie di cave minori, poi si incontra un piccolo porticciolo naturale incastonato fra le rocce e una piccola spiaggia dove sono ormeggiate delle barchette di legno, alcune hanno lo scafo come le nostre, altre con il fondo piatto per muoversi sopra i bassi fondali, il mare dai colori bellissimi è ricco di secche semiaffioranti.   
In lontananza, prima di Cap Bon, si vede la sagoma di un relitto da cui di tanto in tanto esce del fumo nero, dall’aspetto si capisce che deve essere lì da diverso tempo e che si è incendiato, ma questo fumo nero che viene e va è strano, comunque per capire di cosa si tratta basta andarci. C’è un viottolino disegnato dalle capre a picco sul mare che porta in direzione della nave, ogni tanto viene giù qualche sassolino fatto precipitare dalla capre che brucano fra i cespugli radi sopra di noi. Il relitto è un grande rimorchiatore dalle lamiere arrostite da un grande incendio, la mente va alla carcassa ancora fumante del Moby Prince, che vidi nell’aprile del 91 nel porto di Livorno.
Ci tuffiamo e andiamo a vedere da vicino, il mare è bellissimo trasparente e ricco di ricci e di pesci, anche la nave è notevole, vista dal mare sembra ancora più grande, ha delle grandi eliche a prua e a poppa. A bordo c’è un gruppo di ragazzi che stanno recuperando il rame dai cavi di bordo, ecco svelato il mistero del fumo, sono sorpresi di vederci ma ci invitano a salire sulla loro nave dove passano le giornate a smantellare e sciogliere, è un modo come un altro per rimediare qualche soldo. Hammed mi mostra orgoglioso la nave, giriamo i ponti, la sala macchine allagata e i tanti disegni che hanno fatto per rendere più bella la loro “Arcadia”. Sì arcadia, perché questa nave sa di Arcadia e di Capitan Harlock, c’è anche la camera del comandante sull’ultimo ponte, con tanto di branda “qui si riposa il comandante” mi conferma Hammed. Il pirata tutto nero che per casa ha solo il ciel, quello che fu abbuiato dalla censura perché mandava un messaggio di ribellione, Capitan Harlock è un anarchico che combatte contro i governi oppressori e corrotti, lotta per degli ideali e contro i più forti e la sua ciurma è un’accozzaglia di scarti del sistema. Mentre cammino fra queste lamiere arrostite insieme a questi ragazzi orgogliosi della loro nave, mi sembra di sentire la voce fuoricampo di Harlock “ …la gente mi chiama Capitan Harlock… Io vago per i confini dello spazio, in libertà. L'Universo è la mia casa… la voce sommessa di questo mare infinito mi invoca e mi invita a vivere senza catene… la mia bandiera è un simbolo di libertà."
Capitan Harlock per me è stato un amico prezioso, mi ha svelato l’indole Anarchica così come De André, sarà per il ciuffo che nasconde il volto ma io questi due li ho sempre associati, entrambi capitani di chi capitani non ha. 
Una nave che non esiste, un lavoro che non esiste.
Che mi ricorda una tragedia che non si vuole svelare e un cartone che non si vuole far vedere, il relitto che fuma è un catalizzatore di memorie e di censura.
Ma qui si sta bene, chi sa immergersi sta rimediando qualche pesce e un paio di polpini per la cena, la nave fantasma è il loro mondo dove nessuno viene a rompere i coglioni perché non ci sono strade comode per gendarmi, mi spiega Rachid un ragazzo magrissimo che parla italiano perché è stato per cinque anni in Italia da clandestino, poi sempre da clandestino se n’è tornato a casa, a El Haouaria e anche lui si è aggregato alla banda dell’Arcadia. Era partito poco più che bimbo con un gommone per la Sicilia, con l’idea di guadagnare tanti soldi e poi tornare ricco a casa e si è trovato a combattere con ricatti e malavitosi e la costante paura di finire in carcere, ma ora si gode il clima solidale del relitto e il mare bello di Cap Bon. 
A prua si bruciano le guaine dei cavi di rame seguendo le direttive del leader, che è un ragazzone con gli occhi celesti, silenzioso come deve essere un capitano, quando si fa fuoco si allertano le vedette e si sta sempre pronti a scomparire nelle caranchie come granci favolli, se qualche vedetta o gommone della gendarmeria arriva. Il rame recuperato si vende e poi si divide il bottino.
Salutiamo e ci si rituffa per rientrare, vedo passare un branco di piccole lecce, tanti saraghi, le tane dei polpi sono vuote, già visitate dal reparto viveri dei cacciatori di rame, mentre rientro rimango incantato dal movimento ipnotico di un nudibranco che nuota leggero muovendo la sua cangiante  sagoma dai contorni idefiniti.
Poi ancora sentiero fino alla punta estrema dell’Africa incontrando capre curiose e falchi pellegrini. Le rocce sul capo cambiano, diventano bianche e compatte e scompaiono nel mare cobalto dove il vento teso che scende dalla montagna disegna trine bianche di schiuma. Passa veloce un grande gommone, chissà chi porta e dove, nelle rocce ci sono grandi spaccature da cui risuona la voce potente del mare e poi pareti sempre più alte fino a rivedere il faro, che ora è vicino. È il grande faro di Capo Bon, sul crinale incontriamo postazioni militari, bunker e basi di cannoni, all’improvviso una scena surreale, una nuvola di polvere sollevata da asini al galoppo che ci vengono incontro per poi scrutarci perplessi. Arrivati al faro il guardiano sorpreso ci apre il cancello e ci porta a vedere l’enorme lanterna nascosta dalle tende, ormai è il tramonto, è il momento di preparare e scoprire la gigantesca lanterna ruotante, i finestrini si aprono a trecentosessanta gradi, ma lo sguardo va verso Pantelleria nella vana speranza di vedere qualche luce.
Salutiamo il guardiano e torniamo verso El Haouaria, rientriamo che è notte piena ma senza problemi grazie alla roccia chiara e le stelle. Sembra che non ci sia nessun mezzo per Kelibia fino a domani, ma poi come sempre, si risolve, troviamo un passaggio e rientriamo a Kelibia che non è  ancora domani.
 
   

Venerdi 5 settembre 2008 Kelibia – Tunisia

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Le tagliate sul mare

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Aspis, Clupea  –  Grassera e Lucceri
Il ritmo ramadan ci ha invischiato, si scambia il giorno per la notte, cosa che sul fisico produce un effetto zombi, mi sembra impossibile ma lo scorso anno di questi tempi dormivo mediamente tre quattro ore per notte e mai rilassato, col cervello disperso in mille fronti, in primis partire per questo viaggio. Gironzolo pigro nel paese semideserto, tutto parla del ramadan, anche le pubblicità, quelle  dei “portable” con gli sconti ramadan sulle schede telefoniche, anche il supermercato è tutto un’offerta ramadan compri tre paghi due, omaggio ramadan, novità ramadan.
A Kelibia il mezzo più comune è il motorino, di solito è un motobecane a gas di colore marrone e con cassetta di plastica gialla fissata sul portapacchi dove si porta tutto, compreso i figlioli, raramente c’è una persona sola sopra, di solito due, a volte tre, l’unica costante è che nessuno ha il casco. È una cittadina pacifica ma disordinata e piena di contrasti, ville appariscenti con grandi giardini accanto a ruderi e cumoli di spazzatura, macchinoni, grandi fuoristrada metallizzati che sfrecciano di fianco ai carretti trainati dai ciuchi. È un centro abitato circondato da una natura benevola, una campagna fertile, la più ricca della Tunisia e un mare ricco di pesce, proprio come la vicina Sicilia, verso la quale per anni c’è stato un grande traffico di clandestini, non il grande traffico degli “africani neri” qui si trattava più di un movimento di gente del posto che con piccole barche o gommoni raggiungeva la costa meridionale della Sicilia usando la vicina Pantelleria come scalo intermedio o riparo a seconda delle situazioni. Fino a qualche anno fa tutti facevano a gara  per entrare in Italia allettati dai grandi e facili guadagni, favoriti anche da un controllo fittizio da entrambi  i versanti, ora le cose sono cambiate perché le multe e i controlli sono più severi, il governo italiano ha anche messo a disposizione della gendarmeria locale due quad, due cavalli e due fuoristrada per controllare la costa fra Kelibia e Cap Bon, ma il deterrente più forte sono le notizie non proprio idilliache riportate dai tunisini di ritorno, che parlano di sfruttamento e continui ricatti da parte della mafia che in cambio di aiuto per coprire la clandestinità ti fa vivere in pratica in uno stato di schiavitù. Comunque nonostante tutto ogni tanto qualcuno va, una nottata è sufficiente per raggiungere la zona di Mazara del Vallo, ma anche qui ormai il mito è la penisola Arabica.
La storia di Kelibia si perde nella notte dei tempi, nasce come insediamento berbero, fu conquistata dai cartaginesi nel v secolo avanti cristo che la chiamarono Aspis  “scudo”  a loro volta scalzati dai Romani che dopo aver distrutto l’isediamento Punico fondarono Clupea, i cui resti spuntano in qua e in là fra gli edifici nell’abbandono e nell’indifferenza totale. Colonne, resti di acquedotti e cisterne, ville e mosaici, anche il campetto dove i ragazzi giocano a pallone ha una parte del campo ricoperta dalle tesserine policrome dei mosaici e poco distante una serie di grandi e raffinati capitelli affiora da un cumulo di spazzatura. È triste questa mancanza di rispetto verso le tracce del passato, resa ancora più irritante dalla costruzione lungo la costa di pacchiani locali con finte colonne classiche in cemento armato e architetture stile altare della patria, proprio davanti a delle tagliate sul mare che sembrano clonate da quelle delle piscine di Cavoli. Qui ci sono reperti più appariscenti rispetto all’Elba ma il trattamento purtroppo non è molto diverso, d’istinto verrebbe di dire che qui, a differenza che da noi, non c’è la cultura e il rispetto del passato, ma se uno pensa alla Villa romana del Cavo sepolta sotto una villa moderna e recintata dentro una proprietà privata, alle tante colonne romane e pisane, allo stato dei siti Etruschi di San Martino e di Monte Castello, per non parlare del Volterraio e del Giogo, senza scomodare Montemersale, Grassera e Lucceri, la problematica assume subito confini più ampi, con l’aggravante da noi della maggiore disponibilità economica e forse istruzione di base.
   

Gioved?¨ 4 settembre 2008 Kerkouane ‚Äì Tunisia

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Kerkouane ?
Kerkouane è considerato il più importante sito archeologico Punico, si trova a una quindicina di chilometri da Kelibia è uno dei motivi per cui ci siamo fermati qui, in questo percorso di avvicinamento a La Galite. Il sito fu scoperto dai francesi nel 1952, restaurato e dichiarato patrimonio immobile dell’umanità. In realtà sembra che la vera Kerkouane sia stata ritrovata da alcuni archeologi italiani alla metà degli anni settanta a un paio di chilometri più all’interno, ma non solo non furono mai condotti dei veri scavi, ma fu distrutta e sepolta per sempre con le ruspe e l’esercito in una sola notte per volere dell’allora presidente Bourghiba; aveva investito per promuovere il sito e non voleva stravolgere i lavori di recupero archeologico, di viabilità e di pubblicità.
Probabilmente sono arrivato in questo sito prevenuto dopo aver sentito i racconti sulla seconda distruzione di Kerkouane (la prima l’avevano fatta i soldati romani sotto la guida di Attilio Regolo nel 256 a.c) ma la città cartaginese è una delusione, il sito è in gran parte ricostruito in maniera grossolana e il cemento la fa da padrone ovunque. È comunque un luogo suggestivo affacciato sul mare e circondato da palme nane, ci sono resti di colonne e mosaici, forni per la lavorazione dei metalli, ma i famosi bagni con le vasche rosse (i cartaginesi avevano le vasche da bagno dentro le abitazioni private) sono invece pacchianamente ricostruiti con il cemento.
In effetti esiste un villaggio che la gente chiama Kerkuoane ma nessun cartello stradale lo indica e si raggiunge solo con una strada secondaria, la zona archeologica cancellata è sepolta nei campi abbandonati e nei coltivi, nessuno ne sa nulla o comunque non ne vuole parlare.
Il caldo diventa soffocante, si va al mare. È una costa che alterna spiaggie bianche a scogliere “Pianosine” il mare è trasparente e poi non c’è nessuno a parte le capre che arrivano fino alla battigia nella speranza di trovare qualcosa da mangiare fra scogli e sabbia. Passate le ore più calde a mollo, si continua a camminare verso Cap Bon, ritornano le dune che si spengono nella campagna arsa dove pascolano capre e mucche, si comincia a vedere gente soptratutto ragazzi che pescano, c’è anche un pescatore magrissimo che fregandosene del Ramadan si sta cocendo un paio di pesci mentre fuma, il mare chiama per un'altra nuotata e poi arrivati a Dar Allouch con un passaggo ritorniamo a Kelibia.
Manca poco al tramonto e come da copione i ragazzi che passeggiano per i vicoli stanno montando le chiare d’ovo nelle ciotole per fare i dolci del Ramadan, e davanti ai panai che sfornano c’è la fila.
Dopo cena ci fermiamo a fare due chiacchiere con Tarek, un ragazzo di ventuno anni che lavora nel bar dell’italiano e che è alla ricerca di una fidanzata, “una seria non una puttana” dice “ ma è sempre più difficile bisogna trovale di dieci dodici anni se no è un problema”.
Poi mi spiega “qui non è come da voi, una ragazza che esce da sola e parla con gli uomini è considerata una puttana, io ne conosco tante a noi ragazzi ci piace stare con loro, anche solo per parlare, però non vorrei mai sposare una donna che si veste che si vede le cose, una così qui non se la sposa nessuno, trova solo marito vecchio che ha già avuto cinque mogli. Meglio che ti scegli una di dieci anni, ti fidanzi e poi quando hai i soldi fai una casa, ti sposi e fai i figli”
– Così te intanto ti diverti e lei sta in casa o va in giro velata insieme a mamma.
“Si però può andare a scuola e poi può lavorare per quello che ha studiato, questo è giusto. Però è un problema è sempre più difficile se studiano a Tunisi cambiano, non si vestono più come si deve, le ragazze che studiano non fanno il ramadan vanno a giro la notte a Tunisi e sono tutte puttane.
Sai anche le ragazze di Kelibia che studiano, qui vanno a giro con il velo e sempre con la mamma o le sorelle o le sorelle del fidanzato, ma quando sono a Tunisi girano vestite come puttane con i cosi nel naso e fumano, ti giuro l’ho visto quando sono andato a Tunisi”.
Ride Tarek quando mi racconta e mi racconta anche di come tanti invece di lavorare cercano di sposarsi una turista straniera magari anche vecchia così con la pensione uno vive come un pascià.
Chissà come sarà fra vent’anni, mi rimane difficile pensare che le adolescenti di oggi diventate donne se ne staranno velate dentro le loro case mentre gli uomini se ne stanno spaparanzati al cafè fino all’alba. 
   

Mercoled?¨ 3 settembre 2008 Kelibia ‚Äì Tunisia

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Le Dune
I benzinai pigramente portano sulla via i distributori  con le ruote, anche a Kelibia al mattino il punto più vivo è il porto che qui si trova a un paio di chilometri dal centro, nella zona del mercato del pesce fanno bella mostra due tonni lunghi un paio di metri, alle noste spalle sulla collina che sovrasta la costa il grande forte domina il paesaggio. Camminiamo lungo la scogliera, dove sono frequenti le tracce di antiche cave di pietra, è una zona ricca di ville di ricchi tunisini, tutte molto grandi e pacchiane con pagode archi e grandi cancellate. Si alternano scogliere e piccole spiagge bianche, poi si incontra una spiaggia più ampia dove hanno costruito il mostro italiano, un villaggio valtour imbandierato di tricolori per la visita dell’ambasciatore italiano di Tunisi, la spiaggia è controllata da guadiani e bagnini che non ti fanno entrare, non ti fanno passare se non hai il braccialetto colorato, breve discussione poi con la promessa di non fermarci ci concedono di attraversare il” Truman show” dove un paio di centinaia di connazionali forniti di gazzetta, corriere e novella duemila, se ne stanno tutti appiccicati fra ombrelloni e lettini davanti a un bar che emana una musica sismica. Superato il villaggio ancora qualche costruzione e poi la spiaggia diventa bella e selvaggia, una distesa di dune incontaminata che si tuffa nel mare turchese, è la grande spiaggia di El Mansourah che si sviluppa per oltre venti chilometri fino a Cap Bon. Ci fermiamo davanti alle dune più alte, dove la spiaggia fa una curva e in mare c’è una secca con i resti di un relitto. Il mare è bello e ricco di corrente, intorno alle secche e al relitto ci sono tanti saraghi, giudole, perchie e le solite castagnole. Le dune sono integre ricche di giunchiglie, paglie marine e gigli di mare, sembra un mondo vergine lontanissimo dal casermone del villaggio turistico e invece siamo a pochi chilometri, speriamo che non gli venga in mente di costruirne anche qui. Verso sera la spiaggia comincia ad animarsi, qualche pescatore e un paio di cavalli che galoppano eleganti sulla sabbia compatta, man mano che rientriamo verso il centro abitato la gente aumenta, qui per il ramadan si dorme fino a tardi e poi nel pomeriggio si va al mare per rinfrescarsi ed aspettare il tramonto. Oltre il villaggio dei turisti col braccialetto di plastica c’è una grande calca e guardando le donne costrette dal loro credo a fare il bagno avvolte in mille cenci, mi viene da pensare a come sono diversi nella forma ma ugualmente castranti i due mondi balneari confinati, specialmente per le donne: da una parte chiuse nel recinto le donne ignude col braccialetto colorato, di qua senza recinti ma avvolte dentro i cenci bagnati che impediscono i movimenti. Saliamo verso il grande forte che imponente domina Kelibia e la sua costa, è una fortezza dalla storia lunga e gloriosa, nel quinto secolo avanti cristo i Cartaginesi conquistarono il villaggio berbero posto sulla collina e costruirono il primo grande forte che resistette per secoli a tutti gli assalti, fu raso al suolo dai Romani  nel secondo secolo avanti cristo per evitare che divenisse  una roccaforte ribelle, i Bizantini intorno al sesto secolo ricostruirono un piccolo forte che poi ritornò imponente con la dominazione araba. Tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo divenne un importante centro Sufi e fu teatro di numerosi scontri, e poi Turchi, Spagnoli, Ottomani ognuno dei quali ha aggiunto qualcosa, le ultime modifiche le fecero gli italiani insieme ai tedeschi per installarvi delle batterie di cannoni.
Le mura sono imponenti e ben conservate e al tramonto sembrano ancora più grandi, mi immagino vedette all’erta per i temutissimi pirati cristiani,come a Cosmopoli o a Giglio Castello, le stesse storie e le stesse piante intorno alle mura, le stesse guerre, le stesse maschere divine.
Il sole pone alle spalle di Kelibia, mentre dai minareti iniziano le nenie serali.
 
   

Marted?¨ 2 settembre 2008 Mahdia – Tunisia

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Capo Africa

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Il Faro

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La Lanterna di Capo Africa

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Le Saline

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Il faro di Capo Africa
Il Ramadan stravolge i ritmi naturali, di notte si mangia e si va in giro e all’alba dopo un’abbondante colazione si va a dormire. È una mattina silenziosa e ovattata Mahdia dorme ancora dopo la prima notte di ramadan e i bei vicoli di ciottoli bianchi sono tutti per noi. Il silenzio è totale tanto che si sente il rumore dei passi, usciamo dalla medina e andiamo verso il porto peschereccio, qui anche se pigra c’è un po’ di attività, ci sono le grandi paranze e i motopesca costieri che rientrano dopo aver salpato i tramagli, un giro fra i cumuli di reti e poi ritorniamo dentro le mura antiche.
La città fortificata fu fondata nel 916 dal capostipite della dinastia Fatimida Obeid Allah, più conosciuto come El Mahdi che fece fortificare l’intero promontorio dividendolo da terra con un impomente muro largo oltre dieci metri, che chiudeva il punto più stretto della penisola per prevenire gli attacchi da terra (lo stesso concetto dei bastioni del fronte d’attacco della fortezza di Cosmopoli) di questa parte delle fortezze fatimide oggi è rimasta solo la grande porta fortificata di  Skifa el Kahla che ricorda la Porta a Mare ferrajese, ma con un tunnel lungo una cinquantina di metri.
Facciamo il giro del promontorio partendo dal lato nord e girando in senso orario, c’è una calma surreale, è patana piena il mare è immobile e tutto si confonde in un mellifluo vapore leggero e impalpabile. Lentamente la medina comincia ad animarsi bimbi e ragazzi scavalcano la stradina e entrano in acqua cercando polpi e favolli fra gli scogli armati di ferri uncinati. Il fondale è ciottoloso e l’acqua trasparente e i tanti guzzi colorati si specchiano nel mare immobile, nella lastra liquida e ferma si riflettono anche le case che adornano il bordo esterno della medina, sono bianche e basse e ricordano quelle di Ponza, qualcuno cala i tramagli osservato dai gabbiani che pigramente aspettano il loro turno. Fra il mare e la medina i resti delle antiche fotificazioni difensive.
Camminiamo verso Capo Africa, nel mare piatto all’improviso un gruppo di delfini inizia a saltare intorno ad un tramaglio, sono tursiopi gli stessi grandi delfini visti tante volte intorno all’Elba e a Pianosa. Gli splendidi giocolieri del mare attirano l’attenzione ammirata dei pochi presenti, tutti felici dello spettacolo meno il pescatore che ha calato il tramaglio che dal guzzo cerca invano di scacciarli sbattendo i remi in mare.
Un arco isolato che si apre sul mare nel punto più estremo indica che siamo arrivati al leggendario  Capo Africa, un tuffo è d’obbligo queste rocce sono uno dei confini simbolo del pianeta, è un mare  bello e familiare completamente diverso da quello di Kerkennah, dominato dal blu e adornato da  nuvole di castagnole.
Circondato dalle bianche tombe del grande cimitero mussulmano, sopra di noi su di un piccolo rilievo il faro domina la scena, entriamo nella struttura militare e il guardiano ci concede di salire dentro la struttura raccomandandomi solo di richiudere l’usci quanto riscendo.
La vista è superba si domina tutta la penisola, davanti a noi nascosta dalla foschie c’è Lampedusa,
l’Italia è vicinissima poche decine di miglia, è un grande privilegio essere in cima a questo mitico faro, ma il privilegio vero è questa dimensione di viaggio senza scadenze, me lo sento grande il vanto di prendermi tutto il tempo che voglio osservando un gruppettino di turisti arrivato con un pulmino nei pressi del Capo, fanno una sosta veloce di cinque minuti, tre minuti ad ascoltare la guida due per fare le foto e poi ripartono alla volta del forte. I turisti non alloggiano dentro Mahdia ma a pochi chilometri da qui, lungo la sabbiosa costa nord dove hanno costruito la zona turistica, un sistema che separa oggi i complessi turistici come in passato la ville nouvelle costruita esterna alla medina, una divisione netta dalla realtà locale, un viaggiare molto televisivo (filtrato) lontano dal quotidiano reale, dove si amplificano le distanze e le paure e il guardiano gentile che senza conoscermi mi ha regalato il privilegio di questa superba visione  magari viene visto come un pericoloso terrorista solo perché ha un camicione bianco e la barba lunga.
 Passato il Capo, nella scogliera scalpellato nella roccia il porto antico, scendiamo attraversando il cimitero e ritorniamo sulla costa, ci sono  parcheggiate delle vespe con gli adesivi e la marmitta   polini che fanno tanto anni ottanta.
Il riparo è scavato  nelle rocce assai simili a quelle dei conglomerati conchigliferi di Pianosa, è un rettangolo con due ingressi e oggi ospita solo le piccole barche di legno dei pescatori, intorno scalpellate nella roccia tenera ci sono le vasche delle saline ancora ben conservate perché usate fino a pochi anni fa, che lasciano ben immaginare come dovevano essere le saline della costa meridionale dell’isola piatta dell’arcipelago toscano. La costa è rocciosa e ricca di grotte e piccoli faraglioni, in alto la fortezza di Borj el Kebir costruito nel XVI nel punto più alto della penisola sui ruderi di una preesistente struttura fatimida sovrasta tutto, è ben conservata e i cannoni che spuntano dai bastioni la rendono molto scenografica, davanti fra i cardi e l’erba secca cannoni e colonne antiche molte delle quali sono di granito simili anche nella grana a quelle che si trovano fra Cavoli e Moncione, chissà quale è la loro origine, ora giacciono abbandonate  nell’indifferenza ma chissà quale storia nascondono. Salgo su un rudere per fare una foto e trovo un paio di persone che pennicano, questo è uno degli aspetti più ganzi del ramadan, nei punti più inaspettati trovi gente che dorme, appena c’è una macchia di scuro (ombra) c’è uno che dorme.
Incrocio un apino che porta due turisti americani, sono inconfondibili biancovestiti, unti più di una teglia pe’ la schiaccia per paura del sole, il sorriso idiota e la faccia schifata che gli occhiali a specchio non riesce a nascondere, non lo so perché ma mi verebbe di prendeli a sassate.
È già pomeriggio quando finito il giro ci ritroviamo a Skifa el Kalha, recuperiamo gli zaini e si va alla stazione dei louage, si parte per la prima tratta, destinazione  Sousse, poi un veloce cambio di louage e via per Nabel attraversando una campagna arida ma ricca di olivi alle spalle del golfo di Hammamet; e poi un'altra coincidenza e si riparte subito per Kelibia percorrendo una sdrada lungocosta che fiancheggia la grande laguna di Korba dove ci sono già tanti fenicotteri rosa.
Arrivati attraversiamo la medina composta di case tradizionali ma con i vicoli sabbiosi molto larghi, in alcuni dei quali entrano addirittura le macchine e ci piazziamo in un piccolo alberghetto sul limite della città vecchia. Il cielo si fa scuro e finalmente la tanto desiderata pioggia che ha però un effetto devastante sui motorini e sui loro conducenti che cascano a raffica sul viscido delle prime gocce sparpagliando cibo e vettovaglie per la via.
Il muezzin avverte tutti che il secono giorno di ramadan è finito e tutti vanno a mangiare, anche noi.
C’è aria di festa nel centro di Kelibia con tutte le attività aperte e i cafè stracolmi di gente, entriamo all’Arabesque e veniamo subito avvicinati da un italiano, si chiama Claudio e vive qui da otto anni è il proprietario di questo locale, ha una gran voglia di parlare e ci racconta diverse cose interessanti, è  un milanese e si atteggia un po’ alla Lorence d’Arabia, dice “gli arabi bisogna cercare di amarli senza smettere mai di disprezzarli” Fa un’analisi sprezzante e distaccata ma ricca di osservazioni interessanti, si parla di scuola, corano, ramadan, donne, prostituzione e fughe di clandestini verso l’Italia. Clima eccellente, ritmo lento e la possibilità di vivere con un tenore da pascià con una rendita che in Italia ti permetterebbe a malapena di vivere, le motivazioni della sua scelta di vita.
Il tempo vola e le tre arrivano in un attimo, anche perché è pieno di gente, il ramadam è un rito ma anche una festa e ha anche un forte aspetto commerciale, per certi versi ricorda il nostro natale. Prima di andare a dormire ci compriamo un po’ di frutta  perché domani sarà tutto chiuso almeno fino a mezzogiorno.
   

Luned?¨ 1 settembre 2008 da Kerkennah a Mahdia – Tunisia

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Primo giorno di Ramadan
Si chiude gli zaini, salutiamo Samir, un salto al museo per salutare e lasciare un cd di foto e poi in pulmino fino al porto di Sidi Youssef all’estremo sud dell’Isola. Oggi è il primo giorno di ramadan il mese dedicato ad allah che ricorre tutti gli anni  nel mese in cui il corano fu rivelato a maometto, il giorno è stabilito dalle autorità religiose in base all’osservazione delle fasi lunari e varia a seconda dei paesi, in medio oriente la celebrazione è iniziata ieri. Dall’alba al tramonto i mussulmani non devono mangiare ne bere, non devono fumare e sono tenuti ad astenersi dai rapporti sessuali. È tutto più rallentato del solito, anche i traghetti hanno ridotto le corse. Nell’attesa facciamo un giro fra le barche arenate per la bassa marea, la grande secca brulica di vita granchi, paguri, garzette, gabbiani e grandi aironi grigi si danno da fare, per loro non c’è il ramadan. La stazione del porto è piena di gente, rispetto alle nostre parti la cosa che risalta di più è la grande differenza di abbigliamento fra la gente, specialmente fra le donne, ci sono donne vestite all’occidentale con e senza velo, altre con la classica veste lunga e poi, specialmente le donne anziane con i colorati costumi tradizionali.
Il sacrificio del Ramadan è osservato rigorosamente, almeno in pubblico, ma anche tanto ostentato, specialmente dai ciccioni, ce ne sono diversi che dopo meno di mezza giornata di digiuno ti guardano con occhi disperati mentre se ne stanno agonizzanti sdraiati fra panchine e vialetti.
Aprono i cancelli e si imbarca. Dal ponte più alto si vede quasi tutta kerkennah, le isole piatte si confondono fra loro e le sagome delle tante palme si perdono nella calura estiva. Il traghetto fiancheggia le sagome a freccia delle charfia e in un attimo Kerkennah scompare nella foschia e si cominciano a vedere i fumi delle industrie di Sfax.
Rumore e puzzo di città, nonostante sia tutto chiuso per il ramadan si respira ugualmente la frenesia urbana. Facciamo un giro per la medina, si entra dentro le mura da Bab Diwan e subito troviamo una grande calca davanti a un venditore di pane e dolci, svicolando lateralmente la medina è semideserta e i vicoli stretti fanno si che ci sia anche un po’ d’ombra, poi un giro nella via principale, che è un grande mercato ogni minuto più affolato. Non ero più abituato alla calca e agli odori forti dei souk, sono poche miglia ma è veramente un altro mondo rispetto alle isole appena lasciate. Un giro intorno alle belle mura bianche e poi alla stazione dove però non ci sono treni, gli orari sono ridotti per il ramadan e fino a domani è tutto fermo. Raggiunta la stazione dei louage, dopo una lunga attesa raggiungiamo le otto persone necessarie a riempire il taxi e si parte per El Jem dove voglio andare per vedere il leggendario anfiteatro romano conosciuto anche come il colosseo d’africa. il louage attraversa una campagna ondulata ricca di alberi d’olivo sembra un paesaggio dell’interno della Sicilia, all’improviso dalla campagna dopo un avvallamento, come un miraggio appare gigantesco l’anfiteatro, la cittadina bianca che gli si sviluppa intorno è schiacciata dall’imponenza delle monumentali mura ocra dello “stadio antico”. Attraversiamo i vicoli deserti di El Jem e raggiungiamo l’anfiteatro dell’antica Thysdrus costruito intorno al duecentotrenta dopo cristo per volere del proconsole Gordiano, un latifondista africano che si arricchì tantissimo grazie al commercio dell’olio e delle fiere, diventando assai influente nei fatti dell’impero tanto che per un breve periodo nel duecentotrentotto arrivò ad essere addirittura imperatore di Roma. Il colosso non si può visitare, è chiuso, anche qui c’è l’orario speciale del ramadan, il custode dorme sdraiato all’ombra dei grandi archi aspettando l’ora del convio e non ha nessuna intenzione di farmi entrare. Anche dall’esterno comunque si può ammirare questo complesso maestoso e imponente, il terzo per grandezza della Roma antica, poteva contenere più di trentamila spettatori che qui come a Roma assistevano a spettacoli con fiere e gladiatori. Il monumento è famoso anche per l’epica resistenza della regina berbera Al Kahina che fu l’ultima ad arrendersi nel settecentouno all’invasione dei maomettani, dopo una serie di vittorie contro gli invasori arabi, accerchiata si barriccò all’interno dell’anfiteatro che era rifornito d’acqua da un acquedotto sotterraneo e collegato con un canale sotterraneo lungo oltre venti chilometri che permetteva alla donna di sfottere gli assalitori mostrandogli ogni giorno del pesce fresco. Questa storia me l’aveva raccontata un Amazigh a Midelt in Marocco, per esaltare la considerazione della donna nella loro cultura ma, solo ora riesco ad inquadrarla in un luogo e in un tempo.
El Jem è deserta sono tutti in attesa del tramonto, i louage sono fermi, ma un tassista gentile ci accompagna alla stazione dei bus dove fra qualche ora partirà un pullman per Madia. Arriva il tramonto e boomm un botto avverte che il primo giorno di ramadan è finito e il rumore delle scodelle invade la via. Siamo gli unici sul pullman snodato che attraversando la campagna ci accompagna fino alla cittadina costiera di Madia, una città bianca che si sviluppa su uno stretto promontorio sul mare che mi ricorda l’Aretusa di Siracusa.
   

Domenica 31 agosto 2008 Isole Kerkennah – Tunisia

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controcorrente

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la Charfia

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Ultimo tramonto di Kerkennah
Sono grato a Kerkennah e alla sua gente per i tanti insegnamenti, fra le tante cose ho conosciuto le  le feluche a vela latina, le avevo viste solo nelle vecchie stampe in bianco e nero e sentite raccontare, invece ora le conosco e so portare una barca con la vela latina, l’imbarcazione degli antichi. È successo un po’ come per l’asino e per il mulo in Marocco, la feluca del passato immaginato è diventata una compagnia del quotidiano vissuto, tracce di un passato sfuggito per sempre e inaspettatamente ritrovato così lontano da casa.
Un amico ci ha prestato una piccola barca e ne approfittiamo per andare a vedere la grande charfia sulla punta nord di Kraten considerata la zona più pescosa dell’Isola. C’è una corrente molto forte e risalirla a remi è veramente impegnativo, intorno alla punta c’è un fondo sui tre metri, per Kerkennah queste sono acque profonde, qui nei pressi del capo con il movimento delle maree si creano delle correnti violentissime, dei veri e propri torrenti dentro il mare. Tutto è condizionato dalle correnti, la navigazione e l’orientamento delle charfia, con queste condizioni si vede bene come il pesce venga convogliato dalle pareti di reti e fronde di palma nel punto di massima corrente per poi essere definitivamente imprigionato nelle nassa alla fine del canale trappola. Charf vuol dire onore e la Charfia per un kerkenniano rappresenta l’onore della famiglia, un qualcosa che viene dal passato da conservare con cura perché permette alla famiglia di vivere decorosamente. Le charfia vengono tramandate di padre in figlio, quelle più grandi come questa appartengono a più fratelli, vengono manutenzionate costantemente, ma il lavoro grosso di ripristino si fa a fine settembre quando si sostituiscono i legni consumati dal mare.
Mentre doppio la punta ci godiamo l’ennesimo spettacolare tramonto kerkenniano forse il più bello di tutti, è l’ultimo di questa lunga permanenza in questo arcipelago.
Ormeggiata la barca ci ritroviamo con Sami, Samir e Mafud e quattro bretoni alla spiaggia di Beljem per una grigliata di pesce in riva al mare che chiude degnamente la giornata.

   

Sabato 30 agosto 2008 Isole Kerkennah – Tunisia

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"Na razza inteligente e tremenda"
La nostra permanenza a Kerkennah sta per finire, lunedì mattina si riprende il traghetto, è stato un periodo lungo e statico, perlomeno rispetto al resto del viaggio, ma pieno di emozioni e continui riferimenti all’Elba e al suo arcipelago. Mi sono sentito accolto dalla gente di Kerkennah e parte di questa comunità insulare, mi immalinconisco a salutare volti  e voci che stanno diventando familiari e con loro le tante storie di queste isole, storie che raccontano di navi cristiane incagliate negli insidiosi bassi fondali di questo mare, di marinai tratti in salvo dai Corsari locali accolti come fratelli e invitati a iniziare una nuova vita come pirati di barberia.
Mi sono sentito coinvolto e parte in causa dei tanti problemi che poi sono i soliti delle Isole: carenza idrica, edilizia selvaggia, abbandono dell’agricoltura, fuga di cervelli, un senso di sconfitta mal celato che aleggia nell’aria. La realtà è che i bassofondali sabbiosi che per secoli hanno protetto Kerkennah nel suo limbo anarchico, non ce la fanno più a difendere le isole piatte dall’attacco del consumismo, il modello imperante non si insabbia sulle secche e il privilegio della propria autonomia diventa un limite. Lo conosco bene questo senso di frustrazione, è nella genetica di ogni isolano che subisce quella che io chiamo la parabola delle piccole Isole, in origine belle libere e povere che poi si trasformano, rimangono sempre piccole ma  diventano meno belle un po’ più ricche e molto meno libere. Sono sempre più convinto che la forza di reagire le isole, soprattutto le piccole isole, la debbono trovare nella loro unione, perché come diceva Aristide “l’isolani so na razza inteligente e tremenda” il problema è che so’ sparpagliati e divisi (isolati) sono convinto che l’unione degli insulari può far nascere qualcosa di veramente importante per gli Isolani in primis e poi anche per il mondo tutto.
Qui a El Attaya trovo terreno fertile quando parlo di queste cose anche se si parla una lingua tutta nostra fatta di parole italiane, francesi, arabe, gesti e disegni nella sabbia, ci si intende alla grande.
Sarebbe proprio bello realizzare concretamente un gemellaggio fra l’Elba e Kerkennah e niente meglio di una visita scambio fra bimbi delle due isole lo potrebbe sancire, è complicato ma si può fare. Con Samir e “Kunta Kinte”(il preside della scuola di El Attaya) su Kerkennah ho un riferimento eccellente per “Base Elba” dieci giorni a Kerkennah ospiti delle famiglie dei loro coetanei con tre giorni in feluca bivaccando con le tende sugli isolotti, Samir referente per le escursioni ed il preside per organizzare la logistica con la scuola e le famiglie. Ora viene la parte più difficile quella operativa l’importante sarà non arrendersi davanti alle tante difficoltà.
In serata vado a salutare Ali Baba domattina parte per Sousse dove lavora come veterinario, ancora qualche anno poi ritornerà definitivamente sull’isola natia. Mi racconta anche del suo soggiorno di quattro mesi a La Galite per studiare le capre isolane per conto del governo, di quanta pace e quanto tempo per pensare aveva e nonostante i tanti aspetti belli, di quanto gli pesasse quell’isolamento così prolungato, a differenza del guardiano dell’isola che lì viveva sereno e non aveva altro desiderio se non quello di restare lì senza dover rendere conto a nessuno.
Ci salutiamo con l’intento di rimanere in contatto e rientriamo camminando lungo gli ormai familiari vicoli sabbiosi.