La delusione del Cocomero Africano Il gran caldo mi spinge a comprare un cocomero ma il risultato è avvilente, una zucca acerba e insapore tutta seme e niente zucchero, il cocomero africano è una grande delusione. Qui si chiama Battikh ed è un frutto insulso e gommoso. |
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Il canale Coranico Il venerdì è il giorno dedicato ad Allah, anche al cafè dei perdigiorno all’ora della preghiera di mezzogiorno, alla televisione si mette il canale coranico che recita le Sura, non é solo il Muezzin a richiamare i precetti islamici , in ogni luogo ci sono continuamente situazioni ed azioni che richiamano ad Allah e agli insegnamenti di Maometto, come quando in serata nel pieno del lavoro con tutta la fila della gente che è lì in attesa del fitir, Mustafa sospende tutto, prende il tappeto riposto in un angolo, fa le abluzioni nel lavandino, poi stende il tappeto sulla via e rivolto alla Mecca si mette a pregare. |
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Zerzura e il Mariage Giornata di relax, fa un gran caldo, camminando alla ricerca di un posto dove poter lavorare comodamente collegati ad internet finiamo in un piccolo internet cafè gestito da un tipo strano, sembra un locale abbandonato che però deve avere avuto un suo momento di gloria, in una catasta di riviste trovo un vecchio Airone che parla della mitica Zerzura l’oasi che nessuno ha mai trovato e di una grotta ricca di pitture rupestri nei pressi di Gilf Kebir, al confine tra Egitto, Libia e Sudan, c’è anche una bellissima intervista al Prof Fabrizio Mori, il famoso paleontologo e archeologo Toscano “riscopritore” delle pitture rupestri e dei graffiti dell’Acacus, le sue parole sagge mi fanno ritornare in mente Haroun e Yaya gli amici Tuareg che mi avevano parlato con grande ammirazione del Professor Mori. Abdullah mi racconta che il suo locale è il punto di riferimento per gli esploratori e che lui sa tante cose, ma quando gli chiedo di Zerzura mi dice che è il nome di un agenzia di fuoristrada e che il nome è forse quello del proprietario. Ringrazio per l’inaspettata lettura sul chiocco del sole e saluto, anche perché qui internet costa venti paund l’ora senza adsl mentre in paese si trova a dieci volte meno. Anche qui a Mut la vita si riavviva dopo il calare del sole, mentre si gironzola in lontananza si sente sempre più forte e distorta la solita musica che ci perseguita dal Marocco, proviene da una specie di giardino attrezzato, mi affaccio e mi ritrovo ad assistere al solito matrimonio Nord Africano: la festa statica di due coppie immobili sul trono e una folta schiera di parenti e amici seduti a guardarli, gli unici che si muovono in maniera agitata sono il cameraman e il fotografo che fanno le foto di rito costringendo i disgraziati festeggiati ad una serie di assurde pose plastiche che nemmeno la mente del mitico Ubaldo Cetica al massimo dello splendore avrebbe partorito. |
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Le suorine, le dune e il grano dorato Passiamo la mattina al cafè popolare in attesa di un passaggio per Mut, il centro principale dell’oasi di Dakhla, l’Africa mi ha insegnato che non ci vuole fretta, poi la giusta occasione arriva, ci scambiano per turisti e un paio di autisti ci propongono trasferimenti a prezzi fuori mercato, anche perché per i pochi europei che capitano qui il valore primario non è il costo del servizio, ma l’ottimizzazione del poco tempo a disposizione e su questo i trasportatori giocano, però con noi cascano male. Nell’attesa assistiamo alle performance dei macellai che prima affilano le lame dei coltelloni e poi in un battibaleno sminuzzano un quarto di dromedario, e mentre si gioca a domino e si sorseggia the si osserva lo scorrere lento della vita quotidiana. Il minibus giusto arriva nel primo pomeriggio, si caricano gli zaini sul tetto e si parte stranamente mezzi vuoti, ma già alla seconda fermata il pulmino si riempie e come al solito ci si ritrova stivati, sono salite anche due pie ragazze totalmente velate, hanno uno scatolone forato in cui portano dei piccioni, prima di lasciarle il loro accompagnatore, presumibilmente il babbo, si assicura che non siano a rischio di contatto fisico con uomini o ancora peggio con infedeli. La strada avanza sempre dritta circondata da un’aridità assoluta, di tanto in tanto si elevano dalla grande distesa piatta dei picchi erosi che troneggiano dall’alto come fortezze militari. La monotonia è interrotta dagli avvallamenti che fanno corrugare la schiena al serpente di asfalto e danno il via ad un movimento ondulatorio amplificato dagli ammortizzatori spompi del pulmino, a ogni dosso sembra di incontare le tre onde del traghetto col guzzo. Si avanza veloci nella depressione andando incontro a quella che sembra una catena montuosa finché la via con’un ampia svolta a novanta gradi, allontana dai picchi lasciandoci abbondantemente sotto il livello del mare. Dal nulla improvvisamente spunta una chiazza di verde, è un campo di erba medica irrigato, è il primo coltivo di una serie di terreni agricoli strappati al deserto che precedono il villaggio di Abu Minqar, siamo circa a metà strada ci fermiamo per un quarto d’ora, anche per l’irrinunciabile sosta preghiera. C’è una piccola moschea all’aperto e un cafè in muratura, è una struttura malandata e sporca che ricorda il circolino della Bonalaccia, solo che qui nessuno gioca a “Padrone e sotto” e i disegni colorati che sono dipinti sulle pareti raccontano la grande voglia d’acqua fresca di questo villaggio nato qui grazie a qualche pozzo che a reso abitabile una piccola porzione di questo sottosuolo arso, sui muri sono raffigurati un fiume circondato da alberi, un grande lago e un’isola circondata da acque agitate che da rifugio a delle feluche. Il tempo di prendere un the e di sgranchirsi le gambe e si riparte, il panorama che ci scorre intorno sarebbe bello ma qui tutti tirano le tende e cosa ancora più antipatica si usa tenere i finestrini chiusi per non far sveltolare le tendine, il risultato amplificato dal pesante vestiario è che si viaggia dentro un vagone di puzzo di sudore. La “suorina” più giovane fa suonare al suo telefoninino una nenia Coranica, mentre lei assorta nella cantilena mistica prega sottovoce. Il torpore generale si dissolve bruscamente quando incrociamo un camion rovesciato, purtoppo una scena vista già troppe volte, un mezzo semidistrutto e gente stradiata nella sabbia. Il deserto sta diventando sabbioso e la rena dorata spesso invade la careggiata, le dune avanzano inesorabili, spesso coprendo quasi totalmente i piloni dell’enegia elettrica, passiamo dal bel villaggio di Qasr prorio nel momento in cui la luce è più bella e si prosegue in direzione di Mut che ormai si trova a soli trenta chilometri da qui. Finalmente siamo nella grande oasi di Dakhla e il deserto cede il posto a una campagna rigogliosa, ci sono grandi estensioni di campi di grano dorato ed è in corso la mietitura, c’è un gran via vai di ciuchi e carretti che danno un senso di festa insieme ai tanti capelli di paglia che qui sono portati da uomini, donne e bimbi. La strada prosegue fiancheggiando il lago di Mut e poi dopo pochi minuti siamo dentro il capoluogo dell’oasi, il pulmino ci lascia ai margini della città vecchia, ormai è l’imbrunire ora bisogna trovare un posto per dormire, da domani si comincerà a gironzolare. Cercando una sistemazione attraversiamo buona parte della cittadina, per fortuna qui i controlli non sono assillanti, solo un poliziotto ci ferma e ci fa un paio di domande ma con fare molto blando. Camminare con gli zaini carichi con queste temperature è impegnativo, ci fermiamo a mangiare una frittella allo zucchero e poi ci sistemiamo in un albergo che sembra avere solo noi come ospiti. |
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La “Cattedrale” e i meravigliosi picchi bianchi del “Deserto Gotico” Ci svegliamo con la prima luce che precede un’alba ovattata dalla foschia, intorno a noi le tracce di un fenec che ci è venuto a trovare durante la notte, pochi minuti e il sole esplode la sua potenza, fa già caldo. Lasciamo quello che non serve nella tenda e ci avviamo in direzione del Deserto Bianco Occidentale, i cui picchi elevati e maestosi si stagliano in direzione delle Libia, passando dalla zona più famosa dei Mushroom fino a raggiungere l’asfalto e passare oltre. Avanzo tenendo come riferimento il picco più alto, da questo lato il deserto è prevalentemente roccioso, si cammina su un pavimento di blocchi di compatto calcare scuro che si alternano a quelli più teneri e canditi. In una ventina di minuti raggiungiamo il primo wadi secco, si scende da uno scivolo bianco nel fiume asciutto il cui letto è coperto di sabbia, qui dentro i picchi scompaiono e si vede solo questa larga pista sabbiosa e le sue alte sponde bianche, ci sono le tracce del passaggio di un dromedario, un tempo questi wadi erano le vie privilegiate dei predoni perché consentivano un’andatura sostenuta agli animali e allo stesso tempo li nascondevano alla vista di eventuali vedette, era comunque assai rischioso perché da qui non vedi niente e in caso di imboscata non c’è scampo. Ritornati sul plateau bianco, ancora piastroni di calcare ora circondati da sabbia di arenaria e da qualche stentata traccia di vegetazione, la depressione sprofonda incontrando un nuovo wadi, superato il secondo canale la “cattedrale bianca” comincia ad avere una forma più definita e ricorda veramente un’architettura gotica. Saliamo sopra un “isolotto” bianco che si affaccia sul mare di sabbia gialla che precede il grande picco, finalmente è a tiro, da quando l’ho visto la prima volta che siamo entrati nel Sahara Beida è diventato un obbiettivo, fra noi e il gigante bianco solo una distesa di sabbia gialla. Avvicinandosi al picco si incontra una distesa di funghi che cinge il massiccio principale, sembrano sculture messe lì a protezione del gigante bianco e parte dello stesso progetto architettonico, più in alto già sul massiccio principale, c’è una grande scultura naturale a forma di testa umana che sembra osservare e proteggere il “grande edificio” come fa la grande Sfinge con la Piramide di Chefren. Il paesaggio è da sogno, per le forme, i contrasti di colore e per l’assenza di rumori di fondo che ci permette di ascoltare il suono flebile prodotto dal rotolare dei granelli di arenaria, il vento scava la sabbia intorno a queste protuberanze di calcare, creando delle buche in cui si accumulano i piccoli detriti vegetali che attraversano il deserto. Girandogli intorno sul lato est il massiccio bianco svela un secondo picco rimasto finora nascosto, ora l’architettura della cattedrale è veramente completa e le sagome delle due torri appaiono massicce e squadrate come due grattacieli, tutt’intorno qualche picco isolato che anticipa una cordigliera di guglie giganti, tutte diverse anche se simili, un paesaggio che ricorda le grandi vette Alpine delle Dolomiti e anche i mitici picchi Andini della zona di El Chalten, il CerroTorre, Fitz Roy, tutto è maestoso, candito e rivolto verso l’alto in questo monumentale paesaggio gotico di montagne senza nome. Come tutti i deserti anche il “bianco occidentale” ti fa sentire polvere, microscopico nell’immensità ma questo deserto roccioso regala emozioni diverse dal “mare di sabbia” o dai “campi di funghi”: le grandi dune ti spiazzano perché sono un’immensità fatta di microscopici granelli, essenza stessa del divenire in costante movimento, inesorabile, imprevedibile e invincibile, mentre questi blocchi enormi dalle forme potenti li percepisci come colossi fragili, hanno sculture poderose ma crepate, le cui forme consumate sono state decise proprio dalla piccola sabbia, i colossi aristocratici hanno il destino segnato, sono destinati a scomparire perché non possono lottare contro l’azione combinata e costante di un esercito di miliardi di granelli di arenaria e basalto, un invincibile esercito di pulci plebee decide le forme dei giganti e già ne sentenzia il futuro crollo. Queste architetture decise dalla sabbia e dal vento sembrano uscite da un progetto prestabilito, da un disegno concepito da una mente sovrannaturale. Anche i funghi ti raccontano una storia diversa, loro ti confondono e ti deridono perché le loro forme surreali miscelano il sogno con il reale, ti spalancano un universo infinito ma lo scavano dentro di te, mentre questi picchi imponenti e arditi mi spiazzano e mi stupiscono ma rimangono esterni a me, il loro disegno geometrico, colossale e ripetitivo sembra frutto di un disegno razionale nato per costruire una monumentale metropoli di pietra bianca, progettato e scolpito da una mente sovrannaturale che ha concepito queste architetture e gestito le forze della natura per realizzarle, qui si respira la meraviglia di un deserto monumento che più che al delirio dei pensieri ti porta alla contemplazione della potenza della natura . Cominciamo a salire sull’ormai battezzata “Cattedrale” anticipata da colate sciolte di calcare che scendono giù dai fianchi del massiccio come immani sculture dalle forme sinuose e plastiche, come immensi e candidi veli di sposa pietrificati da qualche sortilegio mentre sventolavano. Ormai siamo sotto le guglie, si cammina dentro il calcare precipitato dai fianchi dei torrioni, in gran parte la roccia si è ormai trasformata in una polvere fine come il talco, ovunque sbucano grandi cristalli spesso in forma di spettacolari rose del deserto albine. Le due grandi torri sono segnate da impressionanti fratture dovute principalmente allo shock termico che questi colossi devono sopportare, sembrano opere di giganteschi scalpellini, che io mi immagino come polifemi con subbia e mazzolo a dare forma a queste guglie a volte obelisco, a volte piramide, intorno a ogni “opera” gli scarti della lavorazione, risulta difficile immaginare che tutto questo un centinaio di milioni di anni fa era sedimento sul fondo del mare. Si sale fino alla base della torre che si è rivelata nel finale, mentre si cammina fra i due torrioni si ha la sensazione di camminare sul tetto di un grande e immacolato duomo, mi viene da pensare che questa mastodontica scultura di calcare sia proprio il mitico palazzo che i nomadi del deserto avevano eletto regale dimora del potente Re Higgin, il gran signore padrone del Sahara Beida. Qui era la porta per entrare in Egitto per le carovane Tuareg provenienti dalla Libia, provo ad immaginarmi l’emozione di un giovane carovaniere Tuareg quando per la prima volta si trovava ad attraversare il Sahara Beida, dove secondo le leggende viveva una misteriosa e potente tribù di spettri al cui comando vi era l’immortale Higgin, un Dio fantasma dotato di poteri straordinari. Spesso per evitare la calura vi transitavano di notte sfruttando anche il potere riflettente di queste pareti bianche, sicuramente doveva essere un momento di grande emozione e suggestione e questi picchi giganteschi e geometrici dovevano sembrare ai carovanieri gli edifici di una città monumentale abitata da divinità. Da qui in cima si domina il Deserto Bianco, grande è la meraviglia di queste montagne candide che si perdono verso la Libia, nonostante la luce ormai accecante tenda ad appiattire tutto. Ci fermiamo un po’ all’ombra dell’arco a due fori, la grande testa a guardia del palazzo da qui è soltanto un pulpito da scalare, certo che declamare da qui qualsiasi cosa sapendo le sembianze che ha questa roccia dal basso, avrebbe fatto sicuramente un grande effetto e mi viene da pensare che questi fantasmi potenti e leggendari fossero in realtà degli istrioni sahariani che si divertivano a suggestionare chi passava da qui. Il tempo sta cambiando velocemente, il vento sta aumentando e si sta alzando da ovest una nuvola di polvere bianca, bisogna andare, scendiamo dal lato sud velocemente dalle ripide pareti ricoperte di polvere bianca che rendono facile e divertente la discesa; centinaia di conchiglie, delle strane bolle di roccia scura che escono dal calcare più compatto, la catterale da qui è diventata una grande e slanciata torre. Si cammina nella cappa alzata dal vento che sta diventano sempre più forte, è un vantaggio per la temperatura però non si vede niente, questo è un percorso semplice e nelle zone sabbiose dentro gli wadi si vedono ancora le nostre tracce, ma sono condizioni in cui perdere l’orientamento può essere facile, voltandosi è solo una nuvola bianca. Arrivati alla strada, attraverso per l’ennesima volta la zona dei funghi e vado a smontare la tenda che trovo rovesciata dal vento e poi ritorno da Serena che mi sta aspettano sulla via. Questa volta l’attesa è abbastanza lunga e i pochi mezzi che passano tirano a dritto, finalmente si ferma una macchina, è il tedesco dell’orsacchiotto, stavolta è da solo, ieri è tornato al Cairo ha noleggiato una macchina e stamani è partito dalla capitale per raggiungere Farafra, sembra un'altra persona rispetto all’alienato passeggero di ieri, chiacchera ed è di buon umore, ci scende al distributore e poi si va a sistemare all’Hotel del Faraone. Si ritorna al fonduk per lasciare i bagagli e poi si va a vedere la famosa fonte magica di Farafra, orgoglio dell’oasi da cui sgorga, a quanto dicono, acqua fresca in estate e calda in inverno, ora è sicuramente calda. Dopo una partitina a pallone con i bimbi del villaggio, si ritorna al ristorante di Hssein, dove lavora anche il figlio Hammed che ci racconta dei malesseri di Farafra, del suo desiderio di sposare una donna occidentale e della droga che sta alienando tutti i giovani egiziani, anche quelli che vivono nelle piccole oasi come Farafra, passiamo una serata a conversare e a raccogliere informazioni, poi ci salutiamo, domani si parte la prossima oasi sarà Dakhla. {youtube}ue6CLg0dFf8{/youtube} |
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Arsura desertica e surreale paesaggio Artico Sveglia prima dell’alba, con una grande scorta d’acqua si parte alla volta del Deserto Bianco, ci prendiamo due the “tin shai” al bar del benzinaio e poi ci avviamo lungo la strada. Dopo un paio di chilometri arriviamo al controllo di polizia che stamani passiamo senza problemi, proseguiamo lungo la strada e dopo poco un pik up si ferma e ci da un passaggio, lo guida un ragazzo diretto a Bawiti, per noi è perfetto io voglio essere lasciato alla Montagna di Cristallo, il punto di confine fra il Deserto Bianco e quello Nero. Si fila spediti, il “Sahara Beida” ci scorre sui lati, superiamo la zona più bassa della depressione, quella totalmente bianca , poi la strada comincia impercettibilmente a salire. Nonostante il mattino sia appena iniziato fa già caldo e dai finestrini aperti entra già aria calda, ci fermiamo quando incontriamo un cantiere stradale dove Hammed deve consegnare sigarette e schede telefoniche a un suo amico contattato telefonicamente, se le viene a prendere con una grande livellatrice portando via una bella fetta di massicciata. Il cantiere ha un aspetto infernale, baracche di lamiera, ruspe, silos e un frantoio per macinare la roccia con cui fare l’asfalto, l’aria è calda, densa e velenosa, una miscela unta di gasolio, polvere, catrame e grasso che fa bruciare gli occhi e irrita la gola all’istante, questi operai prenderanno anche una bella mesata ma a che prezzo? Sicuramente qualcuno li racconterà come eroici portatori di progresso, ma io li vedo come schiavi dannati, mi ritorna in mente Angiolino di Pomonte che mai aveva voluto lavorare da “sottoposto” mi diceva “le ditte ti promettono le mesate sicure e la pensione da vecchio, ma puntano a fatti mori’ prima di diventallo, meglio vive povero che sottoposto” ribadendo fiero “noi alla miseria siamo abituati da sempre, ma anche a un ave’ padroni”. Si lascia il cantiere, ogni tanto a fianco della strada appaiono dei chiusini che mi sembra di capire siano una conduttura di acqua, arrivati alla collina di cristallo salutiamo e ringraziamo Hammed che ci ha regalato questo passaggio. Questo è uno dei punti più famosi e reclamizzati del Parco e anche uno dei più visitati, anche perché si trova a pochi metri dalla strada asfaltata, anche ora ci sono un paio di fuoristrada con un gruppetto di giapponesi, un autista-guida ci riconosce, è uno dei tanti visti a Bawiti, è sorpreso di vederci ancora in zona e ancora di più del fatto che siamo senza macchina. Il sito per la verità è piuttosto deludente e soprattutto ridotto male, nonostante la zona dei cristalli sia circondata da una corda per non far avvicinare le persone, dentro non c’è rimasto gran che; comunque dopo, quando il gruppo sarà andato via, gli voglio dare un’occhiata più approfondita, intanto lascio lo zaino grande con viveri e tenda in un grottino e cominciamo a salire sulla collina nera sopra di noi da dove si dovrebbe godere un bel panorama. Mentre si sale nello sfasciume di basalto e cristalli smuovo un sasso e viene fuori un grande ragno giallo dalle inquietanti mandibole a forma di pinza. La vista dalla vetta è notevole, questo è il punto di confine reale fra il Deserto Nero (Sahara Suda) e quello Bianco “Beida” la strada che risale verso nord-est è circondata da montagnole coniche di basalto, intorno le polveri nere di questa roccia vulcanica formano un tappeto scuro che si esalta a contrasto quando icontra le sabbie gialle di arenaria, mentre volgendo lo sguardo verso sud-ovest il serpente bitumato si perde nella depressione del Sahara Beida dove predominano i bianchi calcari organogeni. Andati via i nipponici scendiamo alla “montagna di cristallo” anche se in realtà tutta questa zona ha una struttura simile e di cristalli ce ne sono molti di più qui in cima, nel frattempo è arrivato un altro un gruppo, sono francesi e la loro guida è un effemminato rasta biondo; scendono dal pulmino, pochi passi, tre minuti di spiegazione, cinque minuti di foto e via in direzione di Farafra, quando arriviamo sono gia partiti. Come avevo intuito, nonostante le corde a difesa, il sito è devastato e gran parte dei cristalli sono stati distrutti per portare via cimeli geologici e ormai sono solo anonima polvere. Ci mettiamo in marcia verso il Sahara Beida, la via bitumata si stringe verso l’orizzonte e poi scompare nel bianco, anche stavolta rimediamo velocemente un passaggio, dopo una ventina di minuti si ferma un fuoristrada un po’ scarcassato di una delle tante guide di Bawiti, il driver ha un solo cliente, un tedesco strano e silenzioso che sembra interessato solo ad accarezzare il suo orsacchiotto di peluche. Dopo qualche chilometro lasciamo l’asfalto per entrare nel Deserto Bianco da Aqabat per imboccare il cosidetto “passaggio difficile”, si tratta di una pista sabbiosa con dei tratti in controtendenza che danno continuamente l’illusione di cappotare, il percorso ha il momento clou nella discesa a precipizio da un’alta e ripida duna veramente divertente, il tedesco però non gradisce e protesta dicendo che l’orsachiotto ha paura, Mohammed autoproclamatosi il miglior pilota delle oasi occidentali, torna sull’asfalto senza raggiungere il Double Peak, un massiccio blocco di calcare con due torrioni gemelli, che è uno dei picchi più famosi di questo deserto e in passato era un importante riferimento per le carovane di dromedari che lo attraversavano. Si torna di nuovo sulla strada, dopo qualche chilometro il driver lascia nuovamente l’asfalto e rientra nel deserto dalla pista che conduce alla sorgente di Ain Khadra dove si fermeranno a riposare, salutiamo lo strano duo e continuiamo lungo la via principale, poco più avanti incontriamo un ragazzo con un paio di cammelli che aspetta accovacciato a una catasta di coperte, nella speranza che qualche turista si fermi per fare un giro, per ripararsi dal sole si è coperto con le coperte di lana, fa strano con questo caldo ma è il sistema usato dai beduini quando non c’è nessuna possibilità d’ombra. Il caldo oggi è devastante non c’è un alito di vento e il paesaggio tende sempre più ad assumere un’illusoria forma liquida e confini indefiniti, provvidenziale arriva un altro passaggio, si fermano due fuoristrada così lindi che sembrano appena usciti da una concessionaria, sono anche loro guide di Bawiti e fanno parte dell’organizazione più forte dell’oasi di Bahariyya, stanno andando a Farafra e in serata porteranno nel deserto un gruppo dell’hotel di Mister Pharaon. È un tipo che trasmette competenza, è incuriosito dal nostro modo di viaggiare e ci fa i complimenti per come vogliamo visitare il deserto, prima di lasciarsi si accerta che abbiamo acqua a sufficienza. Mi faccio lasciare nel cuore del Deserto Bianco, ormai siamo proprio sul chiocco del sole, il caldo è abbioccante e la luce accecante, sentenziamo che l’unica cosa da fare è fermarsi all’ombra del primo fungo e aspettare. Per un paio d’ore l’unica azione è quella di ruotare insieme all’ombra, a queste temperature anche scacciare le mosche è uno sforzo, l’aria è così calda che se respiri con la bocca la saliva ti si secca in gola. La calura fa oscillare tutto, le forme e i pensieri, si fluttua dentro un’indefinibile sensazione di movimento statico e il deserto si svela poderoso, una sublime rappresentazione della bellezza che uccide, è una dimensione contemporaneamente onirica e reale che ti predispone a uno stato di sogno cosciente, mi sento come un’entità gassosa, è come se i pensieri mi galleggiassero intorno. In questo clima estremo mi trovo a confrontarmi con un concetto di presente nuovo, un qui e ora fluttuante dove quello che vedi è più miraggio che realtà, sei circondato da illusioni e il reale lo devi immaginare, è difficile spiegarlo con le parole ma è come una dimensione parallela e ci vuole disciplina per non farsi dominare dal delirio, ma in questo il deserto è onesto, ti chiarisce subito che la sua potenza ti può uccidere, ci vuole poco per morire disidratato sul fondo di questo antico mare. L’ombra di questo fungo è una postazione di osservazione eccezionale, un privilegio assoluto, come lo potrebbe essere una bolla d’aria sul fondo del mare e mille visioni e infiniti pensieri pulsano intorno a questo fungo di calcare mentre gli si ruota intorno come lancette di orologio. Dopo un paio d’ore ci spostiamo verso un grande fungo qualche centinaio di metri più all’interno, è circondato da morbida sabbia dorata, perfetta per montarci la tenda, e piastroni di basalto, facciamo calare luce e temperatura e poi iniziamo a camminare nella grande pianura bianca. Si avanza dentro questa surreale distesa di giganteschi “selvi” albini, cerco lo sguardo di Serena per condividere la magia di questo posto e ne trovo conferma nell’ espressione di meraviglia disegnata nel suo volto, i blocchi di calcare si susseguono in centinaia di figure fantastiche le cui forme cangianti variano ad ogni passo, case dei puffi diventano torri di vedetta e poi relitti di astronavi e il dinosauro una sfinge e poi un grande cobra, si cammina sulla sabbia finché non arriviamo in una zona dove predominano i lastroni plastici di calcare bianchissimo, ma ci sono anche degli strati più sottili che nella parte superiore, cotti dal sole, si induriscono e si colorano di un grigio metallo così lucido da sembrare lamiera. Ricominciamo a trovare conchiglie, qui ce ne sono di molto più grandi rispetto a quelle viste nei giorni scorsi. Mentre il sole si abbassa il gioco delle ombre distende nelle sabbie nuovi fantasmagorici personaggi, contemporaneamente le formazioni rocciose si svelano acquistando profondità. Questo deserto bianco sembra diviso in capitoli, ogni zona ha una sua caratteristica, attraversiamo un tratto con decine e decine di forme così simili da sembrare clonate, che ricordano una fornata di meringhe giganti e poi una distesa di corrosi pipi ritti tutti rivolti allonsù come se aspettassero una pioggia di tope spaziali. Un tratto sabbioso con qualche giunco ci ricorda che qui sotto c’è acqua, poi ancora sculture di calcare in forma di campane e meduse giganti, non c’è nessuno in questo paesaggio di magia e l’assenza di tracce di pneumatici ci conferma che qui solitamente non ci viene nessuno. Arriviamo in una depressione dove incontriamo uno scenario se possibile ancora più esaltante, è come un fermo immagine di quando spengi la calce per fare il bianco di pisa, solo che qui è tutto solido e si estende per chilometri. Sulla via del ritorno incontriamo degli affioramenti di basalto, queste rocce vulcaniche scure le cui forme, per quanto erose, ricordano ancora la fluidità della loro arcaica forma liquida . Ci godiamo un tramonto pallido, la potenza del sole è contenuta dalla foschia, sembra di essere dentro un paesaggio artico, quello che fino a pochi minuti fa era una fornace ora appare come una banchisa polare. È ormai buio quando si monta la tenda, fa comunque sempre un gran caldo, si decide di dormire fuori anche per godersi la stellata. {youtube}oFgtI88DqSk{/youtube} {youtube}cd4xfUMiMrM{/youtube} |
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Mister Pharaon e Abu Nuss il villaggio Beduino/Nubiano Oggi è Pasqua, in italia è una festa importante ma qui è un giorno anonimo, uno dei tanti, quando ero all’Elba in questo periodo ero sempre impegnato ad organizzare le escursioni, tutti volevano venire a fare trekking sull’Isola ed era sempre un problema trovare gli alloggi e le guide a tutti, chissà come sarà la situazione quest’anno. Questa è la seconda Pasqua Africana, la prima la passammo nella neve dell’Atlas, questa nel cuore del Sahara, chissà dove saremo la prossima. Primo incontro della giornata con un poliziotto che ci chiede al solito la nazionalità, dove abbiamo dormito e dove siamo diretti, colazione al cafè “casa del popolo” dove ormai siamo di casa, qui tutti hanno facce interessanti, ma il più fotogenico è il macellaio che dalla sua sedia pulpito posizionata sul marciapiede osserva con attenzione ogni movimento e poi dispensa saggezza a chi la vuole ascoltare. Il caldo avvolge tutto e tutti si rintanano all’ombra, mi faccio barba e capelli e poi andiamo a fare un giro nell’oasi, l’unico luogo che la logica termica consiglia di visitare. Nonostante che la temperatura sia notevolmente più bassa, fa caldo anche qui e i canali dove scorre l’acqua tiepida sembrano dei grandi termosifoni, le proprietà sono segnalate da cancelli, spesso senza alcuna recinzione intorno, il lavoro dei contadini nelle oasi è soprattutto quello di controllare e deviare il flusso delle acque dai canali principali a quelli secondari per mezzo di tante piccole chiuse che permettono di allagare a rotazione i terreni dove coltivano le palme da dattero, gli olivi e gli albicocchi, il terreno non viene zappato anche perché in pratica è sabbia, ogni tanto si incontrano le vasche dove la gente la sera viene a lavarsi. Ritornati nella città vecchia con il sole ormai a picco, ci andiamo a riparare all’ombra per qualche ora, verso le quattro si esce per andare a fare un giro al villaggio di Abu Nuss. Nel frattempo le ricerche di passaggi per Djara Cave portano tutte all’albergo più famoso, quello gestito da un temuto e rispettato beduino locale detto el Pharaon, il gran faraone di Farafra è considerato da tutti un gran ladrone per i prezzi che mediamente sono il doppio rispetto agli altri, ci riceve camicione bianco e rasatura degna di antico sacerdote di Amon, gli chiedo se è possibile andare a Djara Cave e quanto costa, mi dice il prezzo: 150 Euro al giorno, rimango spiazzato, non sono più abituato a fare i conti in euro, ma realizzo subito che è una cifra per noi improponibile, ci vuole un giorno per andare e uno per tornare, sono 2250 Pound quello che normalmente spendiamo in un mese, per il momento le stalattiti di Djara Cave non ci vedranno, penso che una soluzione la troveremo, penso che da Asyut polizia permettendo sia possibile raggiungerle a piedi o magari in cammello, percorrendo l’ultimo tratto dell’antica via carovaniera dei datteri, quella che collegava Siwa al Nilo. Mi diverte pensare a come si fa presto a cambiare i propri parametri, se fossi arrivato qui fresco dall’Europa un’escusione in fuoristrada con autista, guida e cuciniere compreso di vitto e tenda per due persone al costo di 150 euro, mi sarebbe sembrata assai economica, sono molto contento e fiero del fatto che si riesca a viaggiare e nello stesso tempo a mandare avanti anche il sito di elbaeumberto con un budget inesistente per i parametri europei. Salutiamo Mister Pharaon comunque persona gentile e cordiale e ci incamminiamo verso Abu Nuss, pochi minuti e si rimedia un passaggio in pik up fino al posto di blocco dove si scende, solito controllo e solite domande e solita seduta sulla murella delle guardie, che non capiscono perché voglio andare ad Abu Nuss dove non c’è niente da vedere, ci vogliono cercare un passaggio per rimediare un bashish ma insisto un po’e ci lasciano andare a piedi dicendo che siamo pazzie e che cuoceremo sotto il sole…il primo mezzo che passa ci carica, l’autista è un abitante originario di Farafra e ci tiene a dirmi che ad Abu Nuss ci vivono solo Beduini e Nubiani e che lì prima del progetto agricolo della Nuova Valle c’era solo il deserto, ci lascia dopo qualche chilometro all’inizio della campagna bella che mi aveva colpito giovedì, mucche ibis e tanto grano, invece che nel cuore del Sahara sembra di essere nel delta del Nilo. Farafra è l’avamposto più isolato della Nuova Valle, il governatorato più grande e meno popolato dell’Egitto, la nuova valle fu voluta da Nasser per sostenere l’innarestabile incremento democrafico egiziano, sfruttando le acque profonde delle enormi falde acquifere delle oasi per creare nuova terra fertile dal deserto. Fino alla metà degli anni sessanta questa piccola oasi rimase fuori dal progetto e l’agricoltura e conseguentemente la popolazione era dimensionata al potenziale idrico naturale, poi iniziarono a fare pozzi, oggi ce ne sono oltre cento, e questo ha permesso una grande espansione di terre agricole e l’insediamento di villaggi come Abu Nuss, dove si sono stanziati gruppi di Nubiani sfrattati dalla loro terra che è rimasta sommersa sotto le acque del lago Nasser con la costruzione della grande diga di Assuan e da Beduini stufi della vita nomade. Camminiamo lungo i canali dove ogni tanto aggalla qualche pesce, passa una donna beduina alla guida di un carro, come da tradizione è completamente velata di nero, nei campi c’è tanto grano che qui si coltiva a ciclo continuo, ci sono campi di frumento verde, dorato e già mietuto, ci sono anche tanti vitellini e mucche grasse e in buona saluta, questo sfruttamento eccessivo anche qui come a Siwa sta provocando dei problemi, ma l’impatto visivo dei campi di erba medica, di grano e palme è molto bello. La vita brulica anche in aria, ci sono tante rondini e anche i gruccioni che non riesco mai a fotografare per bene, è strano sembra di essere sul delta del Nilo e invece basta allungare lo sguardo ed è solo sabbia e terra arsa. Arriviamo al villaggio poco prima del tramonto, ci sono dei pescatori improvvisati che provano a catturare qualche pesciotto nel canale con delle canne da pesca fatte con la lisca delle fronde di palma, nel villaggio c’è aria di festa, questa è l’ora del rientro dai campi, i bimbi nella “piazza” giocano alle macchinine spingendo delle stagne di plastica sfondate e girando le ruote scassate, c’è un bel clima la gente è gentile e contenta di vederci e vuole le foto per il gusto di vedersi anche un attimo nel visorino della camera. Sempre quando ti allontani dai flussi anche minimi di turismo il viaggio si arricchisce di umanità e si riesce ad avere un rapporto fra persone, che quando lo vivi ti sembra normale, perfino banale, come dicevano i saggi Amazigh dell’Atlas, “la terra è un unico pianeta e gli uomini un'unica razza” ma purtroppo non è sempre così. Per me l’Egitto ha un fascino storico irresistibile e delle tracce di questo affascinante e magico passato ne voglio vedere e sapere il più possibile, quindi spesso saremo in zone turistiche dove vige il credo che tutto e tutti sono solo merce, ma lasciata la terra dei Faraoni, voglio stare il più lontano possibile dalla vie di comunicazioni principali e dalle zone abituate a ricevere turisti. È bello essere in un luogo dove nessuno ha da venderti niente, dove si è felici per un semplice scambio di saluti, osservare i ragazzi che vanno a vedere il tramonto dalla piccola collina dietro il villaggio, la moschea con il minareto a traliccio, il cafè del paese dove la presenza di Serena, la femmina senza velo, fa gente, un’immersione di umanità dentro un villaggio di profughi circondato dal nulla. È ormai sera quando si riparte a piedi, dopo un paio di chilometri passa il pik up passeggeri, davanti sono in tre e con noi una decina di persone sul cassone, man mano che ci si avvicina a Farafra si diventa sempre di più, l’autista raccoglie tutti, alla fine siamo 23. Arrivati al posto di blocco ci controllano, la polizia ci riconosce ma stavolta ci lascia rientrare senza le solite domande. Cena al solito posto con minestra, riso e kebab e poi si va a comprare acqua e viveri sufficienti per passare, polizia permettendo, i prossimi due giorni nel Deserto Bianco. {youtube}RzkS06Oq1x4{/youtube} |
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I fogli dei poliziotti e il sogno realizzato di Badr Farafra è avvolta nella cappa della calura già di prima mattina, in paese è arrivato un numeroso gruppo di fuoristrada francesi, stanno facendo un raid dalla Tunisia alla Turchia e la loro sosta ha messo in subbuglio i poliziotti che continuano fare domande ai fuoristradisti e a scrivere continuamente su fogliettini non si sa bene cosa. Cerchiamo di rintracciare gli italiani del “progetto” chiedendo di volta in volta, tra un passaggio in moto (qui è normale andarci in tre e anche in quattro) e l’attraversamento di un piccolo tratto desertico, arriviamo alla sede del Parco del Deserto Bianco. Purtroppo i due italiani che sono responsabili del progetto non ci sono, però ci parlo al telefono, sono in vacanza sul Mar Rosso per qualche giorno, è un vero peccato perché poteva essere una bella occasione per vedere e saperne di più. Rientrando in paese ci fermiamo a vedere il museo Etnico di Farafra, è una struttura bella e originale costruita di argilla e fango secondo le tecniche tradizionali, l’ha voluta e costruita Badr Abd El-Moghniat un artista nato a Farafra che qui realizza ed espone le sua opere. L’ingresso è libero, è un ambiente accogliente che ricorda gli ksour della regione tunisina di Tataouine, ci sono tante piccole stanze su due livelli che si affacciano su una grande corte interna, dentro ci sono esposte tante opere, sculture e dipinti realizzate con tante tecniche diverse, spesso miscelate fra loro, mi piacciono tanto le sculture di argilla cruda che ritraggono uomini anziani seduti nella sabbia a giocare a “Siga” (una specie di dama che si disegna nella sabbia e si gioca con le ghiaie) le loro epressioni sono scolpite con grande maestria tanto da rendere reale la partita. Ogni stanza è colma di opere che ritraggono soprattutto mostri benevoli e grandi mani, sono sogni materializzati, anche le donne qui sono protagoniste, figure sensuali avvolte nei lunghi capelli, spesso nuotano nude dentro paesaggi di sogno, però non è un mondo solo gioioso quello riprodotto, anzi i protagonisti sono spesso sofferenti e a volte disperati, però mai crudeli. Mentre gironzolo fra gli sgabuzzini espositivi arriva Badr Abd el Moghniat, il fautore del museo e di tutte queste opere, si presenta e comincia a raccontarmi di se e del museo, ha occhi larghi e mani grandi, è del cinquantotto ma sembra più giovane, forse per via del faccione barbuto sormontato da una ceppata di capelli neri, nelle sue espressioni ci rivedo Sergio Rossi. Mi spiega che il museo rappresenta il suo terzo grande sogno traformato in realtà, il primo è stato quello di fare l’artista, il secondo il grande giardino delle sculture, Badr è nato a Farafra e la sua è un’antica famiglia e di questo va molto fiero, tutte le opere sono ispirate alle storie e alle tradizioni locali che qui come a Siwa, anche se con più promiscuità con altre etnie, sono legate alla cultura Amazigh. Mi spiega che il suo usare esclusivamente legno, rocce e colori locali vuole essere un grido contro il cemento che sta soffocando Farafra e la sua storia, si chiacchera un po’ nonostante la mia ignoranza linguistica comunque ci si intende, è incuriosito dal viaggio e condivide con me il pensiero che ci sia grande affinità fra le Oasi e le Isole, che bello sarebbe poter portare le sue opere all’Elba e ancora di più scoprire in che maniera l’Isola toccherà la sua creatività, intanto ci si scambia gli indirizzi poi chissà magari si riesce a combinare qualcosa. Come a Motopia, la casa della fantasia voluta da Mohamed Fawzy a Dakrur nell’Oasi di Siwa, anche qui si respira la libertà di pensiero e di espressione, anche nelle bellissime foto d’epoca esposte che ritraggono donne scalze avvolte in vesti eleganti, ingioiellate e sempre a viso scoperto, così diverse da quelle completamente velate e sfuggenti che si vedono oggi a Farafra. Ormai il sole è a picco e il caldo è veramente forte l’aria sembra densa e non si riesce a fare nient’altro che attendere che il sole si abbassi. Verso il tramonto andiamo a fare un giro dentro il vecchio villaggio che si sviluppa sopra una piccola collina, della storica fortezza originaria che si trova sul vertice non è rimasto praticamente niente, solo un grande cumulo informe di mattoni crudi sciolti, la trovò più o meno così anche il primo europeo che visitò Farafra nel 1819 che raccontò di avervi trovato il rudere di una fortezza abbandonata e un centinaio di abitanti. La “città vecchia” si sviluppa intorno all’antica e misteriosa rocca di fango, è un piccolo villaggio fortificato in mattoni crudi in gran parte abbandonato, dove comunque vivono ancora un po’ di persone, solo qualche casa mantiene integralmente l’affascinante architettura tradizionale, ormai le colonne di calcestruzzo sbucano come demoni da tutti i lati. Nei cortili interni le donne lontane dagli sguardi indiscreti si ritrovano per chiacchierare, i vicoli dei vilaggi Sahariani sono sempre affascinanti anche se sgarrupati come questi e regalano sempre scorci di magia, nel cuore del “centro storico” c’è un bel marabutto bianco e intorno diverse piccole moschee da cui i muezzin stanno chiamando la preghiera del tramonto che da il via al flusso di adunanza degli uomini. Passiamo davanti alla moschea principale e poi entriamo nell’oasi antica, quella che per millenni ha permesso alla gente di vivere qui, è un posto di pace e silenzio con una temperatura assai piacevole grazie alle grandi palme che ombreggiano il tutto, al suo interno ci sono numerose sorgenti, alcune delle quali calde che alimentano le vasche dove i contadini finita la giornata si stanno lavando. Oltre alle palme ci sono anche tanti banani e delle grandi piante di vite rinselvatichite potenti e selvagge che ricordano quelle viste in Marocco nella catena del Rif lo scorso anno, probabilmente quello che rimane dei vigneti per cui era famosa Farafra durante il periodo della dominazione Romana. Gli italici invasori qui estesero anche la coltivazione dell’olivo che a differenza dei vitigni non è mai stata abbandonata, gli olivi sono ancora numerosi e ce ne sono diversi secolari che sono sono alti almeno una decina di metri, c’è anche qualche albicocco ma i frutti purtroppo sono ancora acerbi. Come ieri con l’arrivo della notte Farafra si ravviva, ora la temperatura permette alla gente di passeggiare per le strade e anche le attività sono tutte aperte, i soliti micro negozi, i barbieri, il calzolaio e l’immancabile negozio di mobili che espone degli orribili catafalchi scuri. Farafra oltre che la porta del Deserto Bianco è anche il punto di partenza della pista che conduce al Djara Cave, una grotta poco conosciuta di cui si dicono meraviglie, passiamo la serata a cercare informazioni su questo luogo, che però sembra molto difficile e costoso da raggiungere. |
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La magia del mare estinto e l’incontro con lo sguardo di un viaggio chiamato speranza Il chiarore del nuovo giorno mi sveglia, ci godiamo un’alba meraviglia dalla tenda, il sole gigante e pallido sorge da quella che sembra una banchisa di ghiaccio, velocemente le sagome inusuali di questa depressione prendono forma mentre il cielo pennellato da stracci di nuvole leggere diventa arancio. Si fa colazione con pane e marmellata, poi si lascia la tenda montata con lo zaino grande dentro e si inizia a girare spingendosi all’interno del Deserto Bianco, purtroppo la luce non è quella tersa di ieri, è tutto ovattato, avvolto in una foschia flebile che rende vaghe e indefinite le forme e le distanze, è tutto molto suggestivo, ma purtroppo le foto non rendono onore a questa atmosfera fiabesca. Si cammina fra letti di sabbia e grandi piastroni di gesso da cui sbuca tanta marcassite, il minerale di ferro più comune da queste parti, si tratta di un bisolfuro di rame con la stessa composizione chimica della pirite, che si è originato dall’interazione del ferro contenuto nell’acqua dell’antico mare, con lo zolfo presente nei depositi di sedimenti organici del fondo marino. Ce ne sono tanti noduli di svariate forme, le più appariscenti in forma di elaborate croci di ferro, oltre al minerale tutt’intorno ci sono centinaia di conchiglie e tanti resti di coralli fossilizzati. Camminando in direzione Sud incontriamo una grande distesa di funghi di calcare e poi delle strane “bolle” di gesso e di fango, fra queste forme cangianti è facile perdere l’orientamento, un po’ perché la foschia aumenta ma sopratutto perché questo delirio di “forme informi” è così suggestionante che la mente inizia a vagare in costruzioni fantastiche che ti fanno stare bene ma poi ti portano fuori rotta. Per avere dei riferimenti bisogna salire sui rilievi di calcare latteo che ogni tanto si elevano come isole dalle sabbie, questi accumuli levigati dall’erosione hanno forme plastiche disseminate di tanti chiodini di marcassite che osservati da vicino svelano forme complesse formate da sovrapposizioni di cristallizzazioni geometriche di incredibile perfezione, questo deserto anomalo regala bellezza e meraviglia sia nella vastità che nel dettaglio. La luce è stranissima sembra di essere dentro una nuvola, questa nebulosità però attenua il calore che altrimenti sarebbe insopportabile. Si avanza da diverse ora fra sabbia e gesso, dovremmo aver percorso una ventina di chilometri quando entriamo in una zona di isolotti di calcare rotondeggianti, hanno la base circondata da un cerchio di marcassite e cristalli che l’erosione ha scavato e fatto precipitare. Ancora qualche centinaio di metri e incontriamo una grande piazza di gesso sopraelevata, al suo interno ci sono grandi linee rette dove si concentrano accumuli di cristalli, da qui cominciamo a tornare in direzione del nostro campo base, facendo però un giro diverso e lungo il cammino incontriamo un’enorme vena di marcassite e poi un filone di grandi cristalli di gesso lungo diverse decine di metri, ritroviamo il terreno sabbioso e finalmente anche un pochina di vegetazione cespugliosa e qualche piccola palma, saliamo su un grande altopiano e dalla sommità mi rendo conto che sono mezzo chilometro più a ovest di quello che pensavo, da qui si ammira una vasta distesa di coni dalla base larga e la forma arrotondata che si disperdono a perdita d’occhio fino a svanire nella foschia, sembrano gigantesche lampate (patelle per i continentali) che vagano nelle sabbie per effetto della caligine che fa vibrare tutto. Ancora bolle di fango e funghi di gesso e poi lunghi strani fossili che affiorano dal calcare, sono come alberelli stilizzati che assomigliano a gorgonie fossilizzate e forse lo sono davvero, una distesa di grandi conchiglie poi ancora marcassite, stavolta oltre ai soliti chiodi è presente anche in forma di spirale e poi, dopo una giornata a vagare, di nuovo alla tenda. Questa prima uscita nel Deserto Bianco è stata eccellente, ora però bisogna rientrare anche per capire come reagiscono i poliziotti. Ripassiamo dal primo campo di funghi incontrato e poi ritroviamo l’asfalto, una breve attesa di una mezz’oretta poi passa un pik up che ci da un passaggio fino a Farafra, soliti due controlli ai posti di blocco con solite domande e poi di nuovo in paese. Si mangia in un posticino dove sono gentili ed economici e i proprietari, babbo e figliolo ci parlano del “progetto italiano” che anche qui, come a Siwa, ha una sede. Facciamo anche una sosta al cafè per prendere uno shai (the) e giocare un po’ a domino e poi si rientra al fondouk dove inizia una epica battaglia con le zanzare. Arriva la notte che qui a causa delle temperature diurne è un momento di massima vitalità della comunità, fuori si sta decisamente meglio, ritorniamo al café della stazione, Farafra è Africa vera, da qui transita diversa gente proveniente da sud che risale verso Settentrione in cerca di fortuna, questo locale che mi piace perché non ti trattano da turista, è un posto interessante, mi incuriosisce e mi affascina un gruppetto di tre ragazzi, probabilmente provenienti dal Sudan o comunque dall’Africa Sub Sahariana, stanno aspettando un passaggio, questa è gente che si sposta in cerca di sopravvivenza (la fortuna qui è un concetto troppo astratto) con un sacchetto di plastica come bagaglio, sono diretti verso nord, hanno occhi larghi e spauriti, pieni di paura ma anche di coraggio, chi ha i documenti regolari viaggia con i bus di linea, gli altri si arrangiano come meglio riescono; arriva un furgone, un incrocio di sguardi e saltano dentro, in un attimo svaniscono come fantasmi e proseguono il loro viaggio di speranza. {youtube}JMTZjz4aYyA{/youtube} |
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La Luna Rossa nel Deserto Bianco Colazione con la frittellona di farina come si usava fare nei villaggi marocchini, poi si compra l’acqua e i viveri per andare nel deserto bianco, appena usciti la polizia turistica ci riferma per la solita intervista “uotnacionality? uariufrom? Fonduk? Uariugoo? why ?…” ci si avvia sulla strada che conduce al deserto bianco alla ricerca di un passaggio che arriva subito per la gentilezza di un camionista che ci carica a bordo, al primo posto di blocco la polizia ci ferma, solita tiritera “chi sei da dove vieni, dove dormi, dove vai?” Parla anche con il camionista, al quale chiede se si paga, correttamente risponde no…. Ci fanno scendere e sedere sulla murella, nel frattempo fanno salire due al posto nostro e comincia una serie di telefonate. Dopo poco arriva il pik up del capo, il classico poliziotto boss, occhiali a specchio, baffo alla Sadam Hssein, fronte bollata e sorriso da faina, insieme a lui l’autista attendente, occhi di servo e aspirante sosia del capo, solito saluto, poi solite domande, come da copione ci sconsiglia di andare nel deserto da soli… dove si risiede, con chi si va… Gli rispondo che nel parco si può pernottare e che lo sappiamo bene perché il progetto del parco è stato fatto dagli italiani, solito farfugliamento, poi arriva un fuoristrada guidato da uno “splendido” che si presenta come padrone del founduk dove si alloggia, ci dice che è stato chiamato dal gran capo della polizia per accompagnarci nel deserto… vuole 150 pound, ha inizio un collettivo elencare, divieti, leggi e pericoli, ma si tiene il punto e alla fine torna indietro. Al posto di blocco arriva un bus turistico che naturalmente non da un passaggio a tipi non ben identificabili quali orgogliosamente noi siamo, dopo un po’ passa un pik up collettivo, i taxi di qui, naturalmente gli sbirri ci devono fare la cresta, si tratta a manciate di pound, alla fine ci si accorda per venticinque, metto lo zaino sul tetto, mi puppo un’altra dose di solite domande e la raccomandazione di tornare domattina presto a Farafra e finalmente si parte. L’autista ci porterà alle porte del deserto bianco ma prima deve finire il suo giro e andare al vilaggio di Abu Nus, a noi va benissimo è una buona occasione per vedere anche se di sfuggita questo piccolo villaggio, c’è anche un lago, sede di un fallito tentativo di itticoltura, il paesino è sgarrupato, il minaretto fatto con essenziale traliccio di ferro con quattro altoparlanti e due mezze lune sul vertice, dal cassone telonato scendono una decina di persone, arrivano correndo i figli dell’autista per salutare il babbo e rimediare qualche nichelino per i bon bon. Si riparte subito, l’oasi è rigogliosa ci sono tante mucche grandi e lungo i numerosi canali abbondano le garzette e altri ucceli acquatici, ci scorrono intorno le immagini di una campagna ricca anche i girasoli qui sono grandi e le grandi estensioni dei campi di grano fanno pensare alle oasi al tempo dell’antica Roma. Si ripassa dai poliziotti, lungo rettilineo per il Deserto Bianco, dopo pochi minuti siamo di nuovo fermi a un altro posto di blocco, le solite domande e poi dritti fino alla meta, incrociamo il bus turistico visto prima, torna già indietro, cosa cazzo avranno visto non lo so. Abdullah ci lascia alla porta principale del famoso White Desert dove c’è un grande pannello che descrive le piste e i luoghi censiti più famosi. È subito magia, i grandi e surreali funghi bianchi divenuti il simbolo di questo straordinario luogo, ci circondano e stagliano le loro sagome nel cielo terso. Il Deserto Bianco si estende per circa 3000 kmq, si tratta prevalentemente di depositi di calcare bianchi organogeni, i famosi “chalk” dei libri di geologia, tutto questo surreale paesaggio ha avuto origine dai sedimenti organici depositatisi sul fondo del mare che ricopriva questa zona nel cretaceo, circa un centinaio di milioni di anni fa. Le rocce candide sono formate principalmente dai resti delle conchiglie, di microrganismi (microforaminiferi) e di coeve microscopiche alghe unicellulari, dette coccolitosfere; questi depositi accumulatisi sul fondo di questo mare estinto una trentina di milioni di anni fa, quando il mare si è ritirato definitivamente, hanno cominciato ad essere erosi dalle sabbie di arenaria abrasive e molto più dure, provenienti dalle rocce limitrofe, erosione meccanica che combinata con l’azione delle piogge e gli sbalzi termici ha originato col passare dei millenni questo fantasmagorico paesaggio. Camminiamo dentro una distesa di funghi in direzione Sud Est, alle nostre spalle in lontananza i suggestivi picchi affilati del Deserto Bianco Occidentale e il famoso El Qubur “lo scalpello di Dio” chiamato anche dalla gente del deserto il Pipo di Allah. È veramente bello, temevo di trovarmi in un “recinto per turisti” invece non c’è nessuno, intanto che lo penso a poca distanza passano dei fuoristrada con tutta l’attrezzatura per il campo, ma velocemente scompaiono. Si sale su una cascata candida che sembra latte solidificato, per poi fermarsi su un altopiano meraviglia, che ci regala un panorama eccelente sui funghi e sulle alture del Sahara al Baida, solo l’assilo delle mosche ci conferma che è tutto vero. Pone il sole infuocando il cielo mentre tutto si colora di arancio, sono attimi densi di meraviglia, i colori cangianti scaldano le forme fantasmagoriche delle rocce regalandogli una parvenza di movimento, siamo avvolti in uno scenario maestoso ed armonico che esige solo contemplazione, ogni movimento o azione è inopportuna, disturba e sa di atto sacrilego. I toni del cielo da rossi sono diventati viola, nell’immobilità dell’imbrunire monto la tenda, mentre la luna piena sorge e poi diventa rossa. La temperatura è decisamente calata e il pile e il cappelo di lana sono assai graditi, dalla balconata della collina bianca ci affacciamo sul deserto illuminato dalla luna piena, la visuale si estende per decine di chilometri dentro un paesaggio d’argento adornato da infinite e indefinite sagome, nel silenzio ci godiamo il privilegio di questo scenario fantastico. {youtube}fDp7oEz4D9k{/youtube} |
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