I rifornimenti ai posti di blocco Sahariani Dormono tutti al fonduk, si caricano gli zaini sul cassone insieme alla pala, le tavole anti insabbiamento, la tanica del carburante, un po’ di legna e le immancabili coperte. Apro la stanza dove dorme l’autista, mi sembra che non ci sia nessuno, poi guardo meglio e il tappeto arrotolato in fondo ha due appendici che sono i piedi del driver, arriva Grraziaa!!! anche lui autista ma da buon Siwano solo per giri a corto raggio, stamani è stranamente pimpante e con la sua classica espressione da fulminato allegro entra nella camerata del collega Beduino gli urla qualcosa e lo sveglia. Tempo un quarto d’ora si parte, per prima cosa andiamo a prendere un Siwano a casa sua che si piazza nel cassone e si mette a dormire, poi si va dalla polizia per fare i permessi, i militari ci consegnano un grande sacco e uno scatolone di cartone pieno di viveri. Lasciata la caserma si parte alla volta del palmeto a fare un po’ di legna per il the, la ricerca è lunga e sembra infruttuosa, solo qualche steccolino, ma poi l’autiere si stufa di raccattare bricioli, prende un lungo ramo secco di olivo e lo carica nel cassone. Si parte passando dalla via per Dakrur incontrando tanti bimbi che stanno andando a scuola, un ultimo sguardo alla montagna dei fantasmi e poi si imbocca la strada che taglia la laguna, la via asfaltata prosegue costeggiando il lago di Zaytun fino al primo posto di blocco della polizia, quello che martedì era il limite invalicabile e che si può varcare solo con il permesso speciale rilasciato dai militari. Consegnamo un po’ di viveri del sacco, Mustafa da dietro lo schienale del sedile tira fuori anche un po’ di pane e lo regala ai poliziotti che contraccambiano regalandoci due rametti di basilico, un soldato con un cencio in capo si tuffa sui viveri mentre un paio di altre guardie spostano i fusti vuoti che ostruiscono la carreggiata e si inizia la traversata del deserto. È da subito un ambiente totalmente arido, pochi chilometri e la strada diventa pista, ci insabbiamo un paio di volte, pala, tavole sotto le ruote e via, nella prima ora di chilometri ne facciamo davvero pochi, la pista sabbiosa si alterna all’asfalto della strada in costruzione, che una volta ultimata collegherà l’oasi di Siwa a quella di Bahariyya. La strada principale è circondata da lingue di asfalto steso senza massicciata per permettere ai mezzi di avanzare, c’è anche un impressionante frantoio per macinare la pietra nel deserto e fare la breccia, i cantieri sbucano dal nulla e la gente vive dentro baracche arroventate, le dune invadono spesso i tratti già ultimati di carreggiata e le piste laterali di servizio si deformano, spesso risultano impraticabili, sono diversi anni che stanno lavorando a questa strada nel tentativo di asflatare il deserto, l’impresa da qui appare titanica e anche i mezzi meccanici per quando enormi sembrano poca cosa al cospetto della potenza e della dimensione del deserto. Arriviamo al secondo posto di polizia, una baracchina sgarrupata coi pannelli solari per fornire l’energia elettrica, solita distribuzione di viveri ai militari nelle cui facce abuliche è dipinto l’isolamento. Lasciata la postazione di controllo si avanza cercando una deviazione sul lato sinistro della strada per raggiungere come concordato un importante sito, trovato l’imbocco procediamo per una pista disegnata dentro una depressione bianca fino ad arrivare a vedere una montagnola candida che si eleva precedendo una sottostante pianura dove spiccano alcune palme, sullo sfondo la vegetazione si fa più fitta e si ha la percezione di uno specchio d’acqua, il posto è molto bello ed è anche un importante sito archeologico in cui si trovano numerose sepolture che dovrebbero risalire al periodo Romano, ma Mustafa ha furia e dà segni di insofferenza anche nel vedermi fare le foto. Il terreno è disseminato di piccoli dischi sottili di roccia grigia a forma di moneta, una volta ripartiti il beduino si rilassa, ritorniamo sulla strada principale e si prosegue verso oriente, gli unici mezzi che si incontrano sono quelli che lavorano al cantiere stradale, il caldo comincia a diventare pesante e la caligine disegna confini indefiniti sull’orizzonte, si cominciano a vedere anche delle grandi dune in lontananza, hanno colori più sbiaditi rispetto a quelle Libiche, si viaggia a una media di cinquanta chilometri all’ora, forse meno, avanzando per lo più sulla massicciata del futuro stradone. Per raggiungere il terzo posto di polizia si fa una deviazione di qualche centinaio di metri per arrivare alla postazione baracca che man mano che si entra nella profondità del deserto diventa sempre più fatiscente. Per farsi scorgere dai “guardiani” Mustafa deve suonare più volte, poi un ragazzino assonnato fa capolino e di seguito altri tre, attratti soprattutto da Serena che guardano come fosse un miraggio, solita distribuzione di viveri e si riparte. La monotonia della pista si interrompe quando la pista si incunea in una depressione da cui si elevano tante montagnole scure che si innalzano dal bianco come ruderi di gigantesche piramidi, è un paesaggio estremamente suggestivo con la strada che si infila sinuosa fra le gibbosità, le montagnole hanno i fianchi erosi tanto da creare delle sagome da grandi funghi, sotto una di queste un gruppo trasportato da un paio di fuoristrada si è fermato a fare la pausa pranzo. Poco dopo anche noi ci fermiamo sotto un grande panettone di roccia, per i beduini la sosta pranzo è un rito irrinunciabile, si sveglia anche il Siwano e comincia a spezzettare la legna per fare il fuoco. Approfittando della sosta saliamo sul più alto di questi cocuzzoli, il panorama è bello e surreale, scende verso sud nella depressione di Bahrein, siamo a circa centoquaranta chilometri da Siwa, qui un tempo c’era una rigogliosa oasi, oggi c’è solo un po’ di verde e qualche cespuglio sofferto di palme, poi la grande conca che da l’illusione di essere ricoperta d’acqua si spenge indefinita nelle grandi dune del mare di sabbia. Ormai è poco più di una chiazza di sterpaglia in mezzo al niente, ma fino a pochi decenni fa era un’irrinunciabile tappa intermedia per le carovane che da Siwa avanzavano verso l’oasi Bahariyya. Bahrein è balzata all’attenzione delle cronache archeologiche nel 2003, quando un gruppo di italiani ha portato alla luce un importante tempio risalente al Periodo Faraonico, il santuario era dedicato ad Amon e fu costruito per volere del Faraone Nactnanebo I (380 – 360 a.c.) Il luogo del ritrovamento dovrebbe trovarsi ad una cinquantina di chilometri da qui ed è improponibile chiedere a Mustafa di raggiungerlo, anche perché non essendo pista battuta sarebbe necessario un fuoristrada, il rimpianto di non poter raggiungere i resti del tempio è mitigato dal fatto che i blocchi superstiti del tempio ancora ricchi di pigmenti colorati sono stati trasportati a Marsa Matruh in un deposito della sovrintendenza archeologica in attesa di restauro. A quanto affermano gli archeologi la maggior parte dei blocchi del tempio fu distrutta nei primi secoli dopo cristo, quando i blocchi di calcare vennero smantellati e cotti nelle fornaci per fare la calce. Il mutare delle rotte commerciali e probabilmente anche il peggiorare delle condizioni climatiche, portarono gli abitanti ad abbandonare l’oasi intorno al quinto secolo e da allora Bahrein non è più stata abitata stanzialmente. Ci sono fossili ovunque, conchiglie e coralli e migliaia di piccoli dischi grigi che sembrano monete, il suolo è formato da calcare bianco e basta smuovere la superficie e tutto calcare del terreno per trovare una polvere bianchissima di gesso, tutto originato dai sedimenti organici depositatasi sul fondo di quello che un centinaio di milioni di anni fa era un mare, un anticipo del famoso Deserto Bianco che dovremmo visitare nei prossimi giorni. Tornati al “campo base” si mangia e si chiacchera, la classica conversazione essenziale “io Beduino lui Siwi, io arab” “io no arab io Siwi different, different language” “questo in Siwi si chiama… in Arabo…. in Italiano…” e via elencando pane, pomodori, formaggio, peperoni, conchiglie, lucertole e mosche e ognuno mentre enuncia il suo idioma si dimentica quello dell’altro. Immancabile rito del the e si riparte, qualche decina di chilometri e si arriva al quarto controllo di polizia, è più grande degli altri, ci sono tanti cani, gli unici che si accorgono del nostro arrivo, in una delle baracche i soldati sbracati sulle brande rimangono immobili anestezzati dalla calura, in questo sorprendere i guardiani mi sembra di rivedere la motovedetta che porta i viveri a Montecristo, lasciamo altri viveri e si riparte, la scena si ripete più volte, ogni volta si devia e si suona per svegliare i militi, per quanto atteso il pik up con il convio coglie sempre impreparati, persi nell’ozio forzato di queste postazioni di controllo sperdute e lontane anche dall’unica strada da dove normalmente non passa nessuno. La via continua a scendere dentro una depressione che sembra non finire mai circondata dai paesaggi surreali di queste lande aride sotto il livello del mare, la discesa si interrompe in un inaspettato lago dove si sviluppa un grande e rigoglioso canneto che con i suoi colori vivi ci rammenta che sotto questa apparentemente infinita distesa di arsura sterile, si trova una delle più grandi riserve di acqua dolce del pianeta. Si procede spediti, Mustafa guida con aria annoiata tenendo la testa inclinata e gli occhi semichiusi con lo sguardo fisso sull’orrizonte, la monocromia alienante del paesaggio abbiocca aiutata dalla calura, guardando nello specchietto retrovisore la strada sembra evaporare dopo il nostro passaggio, poi come fosse un miraggio appare una macchia arancione indefinita, all’inizio sembra un’illusione di vapore, ma poi prende velocemente la forma di un camion che poderoso avanza e ci raggiunge, mentre ci affianca ci si scambia i saluti, proprio come quando si incontra una barca in mare aperto. Ogni tanto la pista viene invasa dalla sabbia, per tre o quattro volte Mustafa con abilità se la cava per un pelo, ma poi la rena prende il sopravvento e ci piantiamo. Spalando e mettendo le tavole sotto le ruote si acquista poco e il pikup ogni volta affonda di più fino a che non si insabbia anche il telaio e si pianta definitivamente. Il posto è favoloso e l’idea di passare la notte qui mi alletta, soprattutto per la vicinanza alla dune, dopo una mezz’oretta arrivano due fuoristrada per turisti senza passeggeri e dopo un’ora di manovre varie e tentativi falliti si supera l’ostacolo e si riparte, peccato perché sarebbe stato stato un posto bello per bivaccare. Ancora un po’ di passaggi critici con accumuli di sabbia sulla via, poi Mustafa dice “finish after no problem”, il paesaggio diventa sempre più bello con le dune alte a poca distanza che cominciano a prendere forma più definite con l’abbassarsi del sole, entriamo in una pianeggiante distesa bianca e poi ancora dune e forme surreali. Altro posto di blocco dove i protagonisti sono un cucciolo di cane e un uccellino giallo con cui gioca. I paesaggi diventano sempre più belli e si miscelamo con i miraggi che si inghiottono la strada, al tramonto raggiungiamo un altro posto di blocco e poi si scende ancora nella depressione, arriviamo all’ultimo posto di blocco che si iniziano a vedere le luci di Bahariyya. In perfetto stile beduino Mustafa guida a fari spenti, ma la via è ben visile perché illuminata dalle tante stelle, con il ponere del sole c’è stato un cambio drastico di temperatura e ora complici anche gli spifferi fa veramente freddo, sono circa le dieci quando si entra dentro Bawiti il paese principale dell’oasi, dopo l’ultimo controllo nella caserma del paese finalmente il nostro autista ci consegna i passaporti custoditi segretamente sotto il tappetino della pedaliera del guidatore. È un brusco risveglio, siamo tornati in Egitto, siamo assaltati da una nuvola di persone che si fiondano addosso come le zecche cercando di accaparrarsi le prede europee, manca la magia di Siwa. Circondati da questo flusso epilettico di “amici” ci spostiamo seguendo un cartello di un hotel “no, no lì troppo caro!” ma finalmente si dileguano. Si tratta e ci si piazza. Arrivando ho visto dei fuoristrada con le targhe dell’organizzazione del Rally dei Faraoni la cosa mi incuriosisce e vado a cercare un internet per saperne di più. A differenza di Siwa, internet qui è lento e va collegato al telefono, ma dal web una gradita sorpresa, le modifiche al sito grazie a Miki sono on line, le notizie del giorno sono: vince la Brown al debutto e la Ferrari fa schifo, segna Pazzini il sampdoriano e Berlusconi si autocelebra al congresso di fondazione del popolo … il rally dei Pharaoni passerà di qui però a settembre. {youtube}yRaV2k97JoY{/youtube} |
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La Tomba di Alessandro Magno ? |
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Shali, la Meravigliosa Fortezza del Sogno Il cielo viola comincia a schiarirsi nell’immobilità che precede l’alba e la sagoma nera dell’oasi prende la forma sfrangiata delle palme, a oriente tutto si inizia a tingere d’arancio preparando la scena al Sole che tremolante e infuocato sbuca già padrone e incendia tutto. All’improvviso il silenzio si interrompe nel fragore del battito d’ala di centinaia di garzette, che all’unisono s’involano verso i laghi regalando lo spettacolo magnifico delle eleganti sagome nere che si stagliano nel cielo arancione, un lungo attimo di meraviglia che svanisce nella luce del nuovo giorno. È arrivato il tempo di lasciare Siwa, nel pomeriggio al fonduk incontro un autista beduino che nei prossimi giorni va a Baharyya con il suo pick-up; tratto, troviamo l’accordo sul prezzo e si decide di partire domenica. Mi immalinconisce l’idea di lasciare Siwa, il timore che in tempi brevi la magia che si conserva in questo scrigno di palme e sale scomparirà per sempre, è più di una sensazione. Nel cantiere della piazza le armature delle fondamenta sono già state smantellate e le tavole sono pronte per diventare gli stampi per le colonne, è arrivata anche una ruspa gigante che fa bella mostra di se all’ingresso del paese. Come tanti occhi le mille crepe e le finestre di Shali sembrano osservare tutto e tutti, anche le nuove case in blocchetti che stanno crescendo sul lato di tramontana. Entriamo fra questi vicoli sabbiosi che si allungano fra ruderi ormai abbandonati e case ancora abitate, in un misto di kirshif, calcestruzzo, mattoni crudi e blocchetti di calcare, nella via si incrociano solo due donne che camminano avvolte nel classico Tarfoulet per celarsi ad ogni sguardo e poi si entra nella fortezza, che con le ombre lunghe del tardo pomeriggio acquista ancora più fascino. Camminare fra queste mura dalle forme indefinibili è uno stupore continuo che si rigenera all’infinito, mille figure di mostri benevoli appaiono e scompaiono disegnati da speroni di sale e ombre cangianti e anche gli elementi più banali come le finestre e le ringhiere di legno di olivo, sembrano possedere anima, movimento e personalità. La grande torre diroccata è lo scorcio a me preferito, ti guarda da ogni angolo presentandosi sempre in forma diversa, da lontano ti scruta con il ghigno minaccioso di un gigantesco demone dalla testa coronata, poi sembra voltarti le spalle ma riappare subito dopo più alta e slanciata nelle sembianze di un polifemo urlante, per poi trasfigurarsi nel volto rugoso di un anziano guerriero che stanco di orrore si guarda intorno cercando quiete e chiedendo clemenza. Man mano che il sole si abbassa i colori di Shali si scaldano acquistando tonalità fulve e le forme surreali di kirshif si tingono di vitalità tonificandosi in un’onirica muscolatura che gli dona un’illusione di movimento e così la sezione di un palazzo diventa un gigantesco sacerdote fantasma dagli occhi di cielo, che allargando le braccia celebra afono un rito ancestrale controllato dallo sguardo serio della sua ombra di gufo. La mente vaga senza corpo fra i mille anfratti di questa illusione reale dove ogni forma può essere tutto e il contrario di tutto, come la parete del bastione principale, dove l’erosione ha scolpito il volto di uno spettro benevolo che dietro un’espressione di apparente pacatezza cela misteriose facoltà sovrannaturali, forse da bocca della verità oppure una porta spazio temporale. Shali è più di un cumulo di antiche ed uniche architetture di sale e fango, è più di un dedalo di friabili carrugi misteriosi, cangianti e spettrali, il suo fascino trascende dal razionale, va oltre; le sue forme distorte e in continuo mutare sono qualcosa di simile alla materializzazione di un groviglio di pensieri astratti, Shali è l’Oasi della Fantasia. Passo a salutare Mohamed che nel suo studio rudere sta disegnando una complicata trama di china animata da centinaia di sguardi, l’estro gli scintilla negl’occhi mentre con fare beffardo e benevolo mi mostra la sua opera, “Occhi di Gufo” è parte di Shali e il suo talento si specchia in lei. Mentre gironzolo quasi mi scontro con l’ansimare di un turista che preso dalla frenesia di fare le foto al tramonto dal punto più alto si è perso nel labirinto di kirshif, Serena gli indica la via e lui ci si fionda, passano pochi attimi e ripassa fulmineo e concitato controllando l’orologio, è andato via senza nemmeno avere atteso la Posa di Sole, probabilmente è qui con un gruppo di passaggio e deve partire, spero per lui che un po’ di magia gli sia rimasta impressa negli scatti. Scendendo verso sud nella parte bassa della città fortezza ci sono ancora delle case abitate e dalla finestra di una di queste si affacciano due bimbi, mentre la sorella più grande domina la sua curiosità rimanendo nell’ombra. Vinta la timidezza il frugolino passo di fulmine scende in strada per vedere le foto dentro il visore della camera, poi facendosi coraggio mi chiede una penna che non ho, cerco di mitigare la sua delusione con la promessa di tornare. Usciti da Shali in uno spiazzo fra le case a ridosso della fortezza, delle ragazzine velate giocano a pallone ma quando mi vedono scappano e si nascondono nelle abitazioni gridando no foto, sono ancora bimbe ma ormai già promesse e farsi fotografare è considerato assai disdicevole. Come ogni venerdì anche stasera c’è tanta gente intorno alla moschea, però solo uomini e bambini, ci sono anche due piccoli amici vestiti a festa che stanno giocano di fianco al luogo di culto, uno dei due è albino e finalmente ora che il sole è tramontato può giocare liberamente anche lui. Sono tanti gli albini a Siwa, appartengono alle famiglie più ricche dell’oasi e si occupano di commercio, qui non ci sono discriminazioni nei loro confronti come invece purtroppo succede in altre parti dell’Africa. Gli albini Siwani sono ricchi e rispettati ma rimangono comunque dannati, la loro pelle senza melanina li costringe a vivere nell’ombra e i loro occhi che non sopportano il sole sono sempre strinti e sofferenti, come i pipistrelli solo ora con l’arrivo del crepuscolo serale si possono muovere liberamente. Anche qui come in tutte le piccole comunità, spesso i figli nascono da unioni fra parenti, specialmente se ricchi, e questo probabilmente spiega l’alta percentuale di albini fra i benestanti dell’oasi. La natura è spietata e severa con l’avidità umana che si illude di coniugare la felicità con la ricchezza, quanta sofferenza ha generato e genera la bramosia di possesso e quante menomazioni immolate in nome di un potere vano, effimero e transitorio. È ormai calata l’oscurità quando ritorno dentro la fortezza per onorare l’impegno e gustarmi la corsa gioiosa verso il babbo che rientra dalla campagna mostrando fiero il suo pennarello, e anche lo sguardo radioso di una bimba dalle lunghe trecce felice perché il suo babbo al rientro dalla campagna la fa salire sul carretto carico di canne, le ultime case abitate dentro Shali sono fra le più povere dell’oasi ma regalano scampoli preziosi di massima umanità. Arriva la notte e riprende l’opera distruttiva delle pale meccaniche, nel vecchio agglomerato davanti alla piazza di nuovo rumore, polvere sospesa e odore di nafta, illuminato da fanali e riflettori il braccio meccanico dello scavatore si muove come un drago impazzito ruotando irrequieto il suo”collo” e ogni volta che la benna tira giù un vecchio muro, insieme al tonfo si ha un’esplosione di polvere che la luce dei riflettori enfatizza rendendo la scena ancora più demoniaca. C’è suggestione ma senza armonia, l’aria è pesante e non solo di polvere, si respira il disagio delle coscienze, chi lavora non vuole pensare, chi passa non vuole vedere, tutti vorrebbero dimenticare questa notte ma nessuno ha le palle di fermarla, nemmeno io che mi limito ad essere il fotografo di un’esecuzione. |
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Il mitra, la falce e la betoniera Il cielo è terso e la temperatura sta aumentando rapidamente, con le bici andiamo al tempio Umm Ubeyda, il tempio secondario di Siwa dedicato al culto di Amon, risalente al tardo periodo Faraonico fu costruito durante il regno di Necnanebo II, sovrano della trentesima dinastia; del monumento rimane poco, un pilone restaurato con bassorilievi che conservano ancora un po’ di colore e rovine sparse tutt’intorno, si vede però ancora molto bene la grande strada cerimoniale che un tempo collegava questo luogo di culto con il tempio principale sulla collina di Aghurmi. Il tempio si era conservato piuttosto bene fino alla fine dell’ottocento, come testimoniano le cronache e i disegni lasciatici dai viaggiatori dell’Ottocento, ma nel 1896 il governatore Ottomano stanziato a Siwa lo usò come cava per costruire il proprio palazzo, smantellandolo completamente. Si prosegue fino al tempio dell’Oracolo ma sta arrivando un pullman di turisti e allora si gira dalla parte opposta dove si sviluppa il villaggio ancora abitato, da qui il tempio dell’Oracolo assomiglia tanto al castello del Volterrio, si affaccia al centro della parete a strapiombo e domina dall’alto con le mura restaurate del Santuario e della Sala delle Profezie, i suoi blocchi di pietra sembrano pronti a sfidare l’avanzare dei secoli più della collina stessa; al contrario il malridotto rudere del torrione della vecchia Aghurmi costruito con argilla, sale e pietrisco, sembra temere anche il posarsi dei falchi. Il cielo terso e la luce bella esaltano il volo elegante dei falchi che nelle fenditure della rocca hanno costruito diversi nidi, ai piedi dello sperone due bimbi stanno lavorando sodo spostando sassi con una carretta, non vogliano essere fotografati e per farmelo capire bene si nascondono dietro la carriola. Torniamo alle bici e ripassando davanti all’ingresso “ufficiale” del tempio dell’Oracolo, ritroviamo i turisti che stanno risalendo sul bus, c’è una guardia armata vestita stile Blues Brhoters con tanto di occhiali a specchio, che con cipiglio da rambo e mitra in mano vigila sulla sicurezza del gruppo per difenderlo dai pericolosi frequentatori dell’oasi, forse da noi, o più probabilmente dal contadino che sta passando con la falce in mano e che impassibile a tutto questo trambusto sta andando verso una palma isolata in cerca di datteri. Andiamo verso i margini dell’oasi in direzione delle prime dune dove si trova l’albergo in cui lavora un ragazzo Siwano conosciuto a internet che parla italiano, per chiedere se c’è la possibilità di rimediare un passaggio per Bahayya. È una grande struttura che fa il verso senza riuscirci all’architettura Siwana, la cosa come pensavo non è fattibile con i nostri bubget, qui sono impostati sui viaggi organizzati e gli equipaggi sono stabiliti in anticipo, e poi anche se ci fosse posto come mi spiega un responsabile “non possiamo mettervi insieme a loro con tutto quello che pagano”. Ritornando verso Dakrur si incontra un altro stabilimento in corso di ampliamento dove imbottigliano l’acqua, nonostante sia notte ci sono ancora uomini e bimbi che lavorano nei campi intorno a Dakrur. Grazie a internet parlo con Nicol e Sofia che ogni volta mi sembrano tanto più grandi, che mi raccontano della scuola e delle lezioni di danza, fondamentalmente è questa la grande differenza rispetto ai viaggiatori del passato, questa possibilità di comunicare in tempo reale da quasi tutti i luoghi. Un aspetto assai meno piacevole di questa globalizzazione è la continua trasformazione di Siwa, che da qualche giorno ogni notte si trasforma in un cantiere edile, una squadra di una trentina di ragazzi sta gettando le fondamenta di un nuovo palazzo, anche questo in una posizione paesaggisticamente sciagurata, lavorano con grande lena impastando sabbia e cemento con una betoniera a scoppio e poi riempiono le fondamenta spingendo un carellone con la culla basculante, c’è grande eccitazione perché si guadagna bene e si intravedono miraggi di prosperità, e invece si sta distruggendo un qualcosa di unico, che se conservato sarebbe ricchezza economica e culturale. |
Lo sciopero delle garzette Mi sveglio all’alba per fotografare la partenza delle garzette dalle palme dell’oasi sul sorgere del sole. Il sole sorge e anche bello, ma le garzette non hanno nessuna voglia di partire, alle sette e mezzo ormai il sole è altissimo e sono sempre sulle palme. È una giornata siwana passata per lo più a scrivere e incontrare persone in piena armonia con il lento stile siwano. Consolidiamo i due preziosi contatti per Base Elba, Daniela ci porta le foto che Athar ha fatto a scuola con la sua digitale e poi andiamo da Mohamed che stasera si incontra con un po’ di bimbi in una casa Siwana e ci ha invitato ad andare con lui. Passiamo una bella serata in compagnia di un gruppo di bimbi e ragazzi ospiti di una famiglia che apprezza il lavoro che questo artista sta facendo per i bimbi dell’oasi. La lezione di questa sera consiste nel creare un libricino origami, inventarsi una storia e disegnarla cronologicamente dentro il libro, ognuno partecipa a modo suo, i piccolini disegnano liberi sui fogli, le bimbe più precise eseguono in maniera rigorosa il modello del maestro, mentre i ragazzi più grandi, forse inibiti da noi, ci mettono un po’ prima di cominciare ma poi si mollano, anche il capo famiglia partecipa al workshop, come lo chiama Mohamed, solo le donne non si vedono, si intravedono solo le sagome velate nella penombra della stanza adiacente, dopo un paio d’ore con le mani tutte colorate e con un disegno regalatomi da Miriam ce ne torniamo felici a casa. |
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Laghi e Sorgenti fra Siwani e Beduini pensando a Cambise e al kayak All’alba dal palmeto sorge un sole infuocato e le garzette s’involano verso il lago. Anche stamani fa freddo ma non c’è vento, ci troviamo in piazza con Roxy (che in realtà come quasi tutti si chiama Mohammed) un ragazzo con cui abbiamo concordato un giro in motocarro per raggiungere i villaggi di Zaytun e Ain Safi. Sono le sette quando si parte, il triciclo di fabbricazione cinese accusa la temperatura bassa e c’ha messo un po’ prima di mettersi in moto, si attraversa il villaggio mentre i bimbi in divisa si preparano per andare a scuola e poi si passa dalla strada rialzata che divide la laguna di Aghurmi dal lago di Zaytun, che visto dal basso non ha confini definiti e sembra un mare. La strada costeggia il lato nord del bacino in direzione est e dopo pochi minuti ci si ferma alla prima pozza di acqua dolce Ain Qurayshat, che si trova proprio al confine con la laguna salata, la vasca contornata da palme e alimentata da una sorgente tiepida è bella, profonda e isolata, si prosegue per quattro o cinque chilometri e si arriva alla famosa sorgente di Abu Shuruf considerata dai Siwani quella con l’acqua più pulita. È più grande dell’altra e anche questa è tiepida, al suo interno ci sono centinaia di pesci, i più grandi sono lunghi una quindicina di centimetri, però il contorno non è un gran che, a pochi metri dalla sorgente c’è uno stabilimento per l’imbottigliamento dell’acqua che con i suoi pozzi ha fatto seccare tutte le palme qui intorno. Mototopo Roxy cerca una sorgente a suo dire bellissima, ma nonostante le informazioni chieste a un paio di contadini, sbaglia strada più volte e comincia ad agitarsi, da buon Siwano non ama i grandi spostamenti e da quando abbiamo lasciato la sorgente di Abu Shuruf si sente un po’ spaesato, la sensazione è che sia una delle prime volte che oltrepassa la famosa vasca. Per noi in realtà è una fortuna perché sbagliando via si vede di più e poi gironzolando finiamo in un tecnologico cantiere agricolo ai margini del deserto dove stanno piantando gli olivi nella sabbia grazie all’installazione di un impianto a goccia che si alimenta da un pozzo, fa un certo effetto vedere questi sottili tubi di polietilene che si perdono nel deserto con a fianco le piantine di olivo e tutt’intorno solo sabbia e polvere. Passiamo davanti all’insediamento beduino di Ain Safi per poi arrivare dopo qualche chilometro al villaggio abbandonato di Zaytun. La zona del paese è totalmente spoglia di vegetazione ed è circondata solo dall’aridità del deserto. L’insediamento è costruito con il solito impasto di sale e fango, all’interno più o meno al centro c’è un interessante e misterioso tempio in pietra a pianta rettangolare, probabilmente risalente al periodo Faraonico, l’edificio si è ben mantenuto e conserva completamente la copertura, all’interno è annerito e si capisce bene che in periodi recenti è stato usato come abitazione. Tutt’intorno al tempio il villaggio si sta rapidamente sgretolando e soltanto pochi tetti che sono fatti con cannicciati ricoperti di fango, sono rimasti a coprire i tronchi di palma e i cannicci penzolanti creano degli affascinanti giochi di ombre nelle mura sgretolate. Sparse per le case ci sono tante tracce di vita quotidiana, dalle piccole macine a mano a un frantoio, che fanno pensare ad un abbandono piuttosto recente, ovunque nelle abitazioni si aprono grandi crepe, uno degli edifici più suggestivi che probabilmente era la moschea, è un grande stanzone con il tetto crollato che conserva dei grandi travi di tronco di palma poggianti su robuste colonne poste all’interno e nel fianco di una parete il rudere ha una piccola abside completamente staccata dal resto della muratura. Ritorniamo da Roxy che ci aspettava sulla via e si prosegue lungo una pista per paio di chilometri arrivando in una grande necropoli dentro il deserto, è un sito molto esteso che dovrebbe risalire al periodo Romano, ci sono centinaia di tombe alcune hanno ingressi importanti con architravi lavorati e all’interno si sviluppano con più stanze, dentro ci sono decine di scheletri e anche qui come nella necropoli vicino al lago di Siwa, molti scheletri sono praticamente integri. La sabbia ha ricoperto quasi tutto ma si capisce bene che questa era una collina, intorno affiorano anche resti di murature importanti, forse dei templi. Ancora una grande necropoli a testimoniare che un tempo questa zona era molto popolata, poi qualcosa di grave deve essere successo, guerre o epidemie o più facilmente le condizioni ambientali si sono modificate velocemente riducendo le risorse idriche, guardando la grande desolazione che ci circonda rimane difficile immaginare grandi insediamenti umani nel passato. La desertificazione è un processo assai veloce e in queste settimane Siwane tante cose ci hanno fatto capire che l’azione dell’uomo, anche quella apparentemente più marginale, può incidere in maniera profonda sui delicati equilibri idrici di questo ambiente, rendendo sterili e inabitabili aree fertili, ma anche come abbiamo visto poco fa rendere fertili zone aride. Sicuramente le dinamiche del pianeta, così delicate e collegate fra di loro, in questi ambienti estremi si leggono meglio e questi luoghi aiutano a ragionare in maniera globale valutando sempre causa ed effetto di ogni azione. È un po’ di giorni che penso, senza avere nessun elemento che me ne dia fondamento, a la causa della scomparsa di questa grande popolazione che gli storici mi sembra di capire collegano alla fine dell’Impero Romani, e se fosse legata a un aumento spropositato della popolazione? Magari legato a un improvviso incremento collegato con la famosa armata di Cambise che invece di essere scomparsa nelle sabbie del Sahara come ci racconta la storia, si era pacificamente dispersa nella fertile depressione Siwana e che magari nei secoli a seguire, anche a causa delle richieste di derrate alimentari da parte di Roma, l’agricoltura si sia sviluppata così tanto da rendere sterile questa grande area, seguendo le stesse dinamiche che oggi stanno portando ad aumentare la salinità del lago di Siwa? Tutte domande che vorrei fare a chi studia la storia e la geologia di queste terre e spero in futuro di averne occasione. Ritornando verso Ovest si entra nel villaggio beduino di Ain Safi, i Siwani rispettano i Beduini ma ci tengano a marcare le differenze e ha non mischiare le etnie e assolutamente non gradirebbero una comunità beduina all’interno dell’oasi. I Siwani sono di ceppo Amazigh (berbero) e i beduini sono di origine Araba, i primi da secoli contadini e stanziali, i secondi da altrettanto tempo pastori e nomadi; e da che mondo è mondo contadini e pastori non si sono mai potuti vede’, che sia all’Elba, in Corsica, in Sardegna, sull’Atlas o nel Rif, nella steppa di Sirte o nella depressione di Siwa, la solfa è sempre quella. I coltivi sono un pascolo ambito per le greggi e i contadini hanno sempre visto i pastori come vagabondi e potenziali razziatori. È un insediamento recente di poche case, quasi tutte di fango e sassi, che sorge in una zona estremamente brulla, nonostante ci sia una conduttura che porta l’acqua non ci sono ne frutteti ne orti, fra le abitazioni ci sono un paio di essenziali fonti (tubo e rubinetto) per l’uso domestico. Si riconosce subito un villaggio beduino, ci sono le greggi di capre e anche qualche pecora, le donne sono velate ma vestite in maniera più povera rispetto alle Siwane e si muovono nel vento che alza la polvere e fa svolazzare le loro vesti. Si vede solo un uomo nel villaggio e sembra felice della sua scelta di diventare un beduino stanziale, anche perché si sta costruendo una casa con i blocchetti di pietra bianca. I beduini a differenza dei Siwani, che sono contadini e preferiscono lavori statici, non sanno e non amano coltivare la terra e ormai impossibilitati alla vita nomade ambiscono a fare tassisti o camionisti, attività che più si confanno alla loro indole errante. Come avevamo già visto in Libia e nella zona mediterranea dell’Egitto, i governanti non amano le popolazioni nomadi e spingono in tutti i modi per farle diventare stanziali con incentivi e sovvenzioni per costruire villaggi e deterrenti e limitazioni per scoraggiare, se non addirittura proibire, la vita nomade. A poca distanza dal villaggio c’è una micro oasi, una specie di stagno dove si concentra la vita animale, ci sono tanti volatili e per la prima volta vedo gli ibis neri, c’è anche un grande falco che volteggia sullo stagno a caccia di prede, ai margini della pozza pascolano gli asini dei beduini con le zampe anteriori legate fra loro, come usavano fare anche in Libia, dentro il laghetto c’è anche un isolotto con un po’ di arbusti secchi e due dromedari, anche loro con le zampe legate, che mangiano polvere e legna secca. È molto bella questa macchia di verde in mezzo al niente brulicante di vita, si avanza ancora un centinaio di metri e ci fermiamo a una sorgente caldissima dove da un tubo bucato esce una nuvola di vapore, l’acqua sgorga dal terreno con una grande potenza e fra i giunchi si vedono gorgogliare le polle, anche qui ci sono tante canne, giunchi e piccoli tamerici e un rigagnolo di acqua calda e rossa che va ad alimentare il vicino stagno. Tornati sulla strada asfaltata avanziamo nuovamente verso est fino ad arrivare a un controllo di polizia posizionato sul limite percorribile senza l’autorizzazione per attraversare il deserto, da qui inizia la pista che attraverso 350 chilometri di Sahara conduce fino all’oasi di Baharyya. Roxy si prende un po’ di informazioni e poi si ritorna verso ovest, gironzolando un po’ tra deserto e palmeti e fermandosi di tanto in tanto a vedere acque sorgive a volte fredde a volte calde, che alimentano le piscine che servono per irrigare. Si incontrano delle piccole oasi veramente rigogliose, con grandi palme circondate da fitti canneti che spesso nascondono le vasche, ci sono anche pozze scavate di recente con gli escavatori e canali di drenaggio che evidenziano uno strato di argilla grigia che segna il limite delle acque superficiali, come avevo già visto nella zona del lago di Malaki, con questi canali profondi invece che drenare il terreno si rischia di portarci dentro il sale e renderlo sterile. Speriamo che la saggezza antica dei coltivatori non venga spazzata via da mezzi meccanici e bramosia; e che al contempo invece si sposi con i nuovi sistemi di irrigazione a goccia, come fa ben sperare una piccola vasca tradizionale di acqua fresca e pulitissima, che collegata ad un impianto a goccia irriga un coltivo. Ci fermiamo a vedere un grande impianto di pompaggio sul lago di Zaytun, anche qui ci sono tanti pesci, il lago è già in gran parte secco e bordato da grandi placche di sale, verso l’interno si estende in un suggestivo scenario formato dal fondo di fango salmastro arricciolato in forme geometriche e poi in pozze sempre più ampie che regalano effetti miraggio, fino a perdersi nell’orizzonte di dune sabbiose. Rientriamo verso Siwa ripassando dalla strada che attraversa il lago salato, è uno dei tratti più belli con gli isolotti di fango che sbucano da tutte le parti e i grandi cristalli di sale che si addensano sul terreno ai margini dell’acqua. A Roxi il lago salato proprio non piace, lo considera inutile e dannoso, gli spiego che lo trovo bellissimo e che mi ricorda il mare e che se fossi un Siwano organizzerei dei giri con le canoe nei laghi principali per visitare i tanti isolotti, mi dice perplesso che non avrei concorrenza perché nessun Siwano farebbe mai una cosa così stupida, anche in questa conversazione ci ritrovo qualcosa di familiare e già sentito. Rientrati a Siwa, tempo di mangiare qualcosa, andiamo a vedere un bel tramonto da una nuova angolatura e poi si passa a salutare Mohamed nel suo studio dentro la vecchia città. {youtube}V6SgLv_i89I{/youtube} |
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È Piovuto |
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Gli scheletri misteriosi e l’Insegnante di Marsa Matruh La mattina se ne va a internet fra Viottolo e invio di bozze a riviste, poi nel pomeriggio si va a fare un giro verso il lago principale. Appena fuori dal paese, vicino a una sorgente incontriamo dei bimbi che stanno caricando l’acqua sui carretti per portarla a casa, mentre altri si lavano nella vasca di acqua calda alimentata dalla stessa sorgente. Avvicinandosi al lago le palme lasciano il posto a orti circondati da canali salmastri, è un ambiente ardito per coltivare, fatto di terreno salmastro e poggioli di terra rossa da dove si vede il lago con gli isolotti sterili e le dune del deserto sullo sfondo. È una giornata fredda e in giro non c’è nessuno, avanzando fra affioramenti di rocce rosse e piccoli laghetti ricoperti da piastre di sale, arriviamo a una piccola collina brulla con tanti loculi, è una necropoli che conserva tanti scheletri, si sviluppa su più livelli e le sepolture sono diverse decine, come sempre è difficile dare una datazione, il deserto e il sale rallentano tantissimo i tempi di decomposizione sui cadaveri rendendo simili corpi che hanno qualche decennio con cadaveri millenari, ma i loculi scavati nella pietra fanno pensare ad epoche precedenti a quella islamica o perlomeno a retaggi di precedenti culti dei defunti. È un sito in completo abbandono e i tanti teschi sparsi intorno alle sepolture fanno pensare più che a scavi di studio a profanazioni o riti di magia nera, il posto è molto interessante e ci voglio tornare per approfondire. Intanto continuiamo a perlustrare, a qualche centinaio di metri in direzione del grande “Birket”c’è un’isola con un villaggio in kirshif abbandonato, per arrivarci si attraversa un tratto di lago secco il cui basso fondale si è trasformato in un deserto di incartapecoriti lastroni di fango e sale. L’isola fantasma è abitata da un numeroso branco di cani paurosi e afoni, come tutti quelli fino ad ora incontrati in Africa. Il paese abbandonato è spettrale, dei tetti è rimasto solo il resto di qualche trave sbiancato fatto con i tronchi di palma che sbucano dai muri sciolti e deformati e pareti dalle forme incredibili. Era un agglomerato piuttosto grande, con almeno una cinquantina di case e anche qui è difficile capire quando è stato costruito e quando abbandonato, quello che si capisce bene osservando i tronchi secchi delle palme in mezzo all’acqua, è che il livello del lago si è elevato di recente. La luce ovattata, il vento freddo e i nuvoloni grigi che si stanno addensando verso il deserto Libico, danno a questa laguna un aspetto primordiale, sembra quasi che debba apparire un dinosauro da un momento all’altro, invece arriva un tramonto infuocato con il sole che buca le nuvole e trasforma il grigio in arancione prima di scomparire dietro l’Adrar Amellal. Come succede quasi sempre rientriamo che è notte, comunque in tempo per incontrarci con Athar, l’insegnate di inglese delle scuole medie di Siwa con cui abbiamo un appuntamento. Silvia e Daniela si sono date un gran daffare cercando la miglior soluzione per stabilire un contatto di Base Elba a Siwa e dopo che Silvia ha sondato la fattibilità con i dirigenti scolastici locali e con gli insegnanti, abbiamo fissato questo incontro. Athar è di Marsa Matruh, è molto giovane ed è grande amica della sua coetanea Daniela, è una ragazza intraprendente e con idee molto aperte, nonostante l’abito rigorosamente islamico induca a pensare diversamente. Non ha nessuna intenzione di sposarsi, vuole studiare, insegnare e viaggiare. Le faccio leggere il progetto di “Base Elba” in arabo e un articolo che ha pubblicato su di noi un giornale Cairota e qui, dimostrando la vocazione per l’insegnamento, si mette a correggere anche l’articolo dicendo che parla molto bene di noi, ma ci sono tanti errori grammaticali nel testo. La sua famiglia vorrebbe che insegnasse in una scuola più vicina a Matruh ma lei vuole restare qui perché vuole dare un opportunità a questi ragazzi a cui è affezionata e poi pensa che i suoi allievi vivrebbero questo come un tradimento. Il progetto le piace ed è molto contenta di fare da referente per Siwa per iniziare a stabilire un primo contatto. Con la ferma intenzione di arrivare in tempi ragionevolmente brevi a uno scambio di visite, ci lasciamo con l’intento di risentirci a brevissimo e se fosse il caso di andare giovedì insieme a Matruh, dove c’è la sede del governatorato a cui fa capo la scuola di Siwa, per discutere del progetto con i dirigenti della regione. Mi piace il senso pratico e la voglia di concretizzare con dei fatti di queste donne e ripenso alle analisi lucide e spietate che Athar ha fatto sulla società egiziana, sulla politica, l’istruzione, la condizione delle donne, l’islam, mi piacerebbe tantissimo che Athar venisse all’Isola, anche per dare un metro di paragone a tante sue coetanee che si credono emancipate solo perché vanno in giro con le mutande più in su dei pantaloni e si drogano con regolarità. Un confronto di culture e soprattutto di persone che vada oltre gli schemi precostituiti e i giudizi e per questa opportunità devo ringraziare tantissimo Silvia e Daniela, che oltre a stabilire il contatto, mi hanno permesso questo dialogo altrimenti impossibile a causa della mia repulsione verso questa antipatica lingua anglofona, che però nel mondo quasi tutti parlano. È già domani da un bel po’ quando si esce da internet e sta succedendo una cosa incredibile: piove a Siwa, è una pioggerellina rada e sottile ma per questa oasi è un evento straordinario. |
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Motopia, la Casa della Fantasia È mattina presto, dormono tutti nella quiete del palmeto solo i gatti sono già svegli, è un’inizio di primavera di solleone e palme in fiore. Attraversiamo l’oasi quieta e laboriosa fino a Dakrur, cerchiamo e troviamo la scuola della libertà, un arco di foglie di palme si apre su un recinto di colore e una casa di sale senza porte, è il trionfo della fantasia, qui nella rigida Siwa tra tradizioni cupe, regime e islam, a contrasto risplende libera Motopia, la scuola voluta da Mohamed Fawzy, un inno di libertà nella polvere, un apparente caos che emana l’armonia nel suo denso accumulo di sparpagliata creatività, mille disegni e sculture di plastica riciclata, legno, terracotta e filo di rame e di ferro, capanne di fronde di palma, letti, amache, antenne, reti, animali, libri, cd, quaderni, computer, lucidi e mostri benevoli. Non c’è nessuno, si gironzola fra scheletrici Don Chisciotte di filo di rame, disegni a china, acquarelli e totem di bidoni e legni, il fruscio tintinnante delle girandole ombrellate e centinaia di origami multicolori che balzellano appesi al soffitto e poi lenzuoli dipinti con decine di omini dalle mani enormi e tante foto e collage con dentro di tutto un po’. Arriva Mohamed trafelato, era andato a rimediare un po’ di materiale per fare il tetto alla biblioteca di Motopia, è dispiaciuto che non ci sono bimbi ma a quest’ora sono tutti a lavoro, oggi è giorno di festa a scuola e i bimbi aiutano i genitori. Motopia non è ben vista dalla maggior parte dei genitori e nemmeno dalla scuola, che sia Coranica o di stato, ma i bimbi ci vogliono venire e spesso ci vengono di nascosto, per questo è sempre aperta, tutti possono venire quando e con chi vogliono e qui si sta tutti insieme maschi e femmine. Mohamed è una figura leggera, ma ha potenza, coraggio e carisma ed è riuscito ad ottenere la stima e la fiducia anche di un po’ di genitori che sono felici di mandare i figli qui e in altre attività fatte da Mohamed, come andare coi bimbi a dormire nelle dune del deserto… che spettacolo che sarebbe portare qui i bimbi Elbani, sarebbe un’esperienza indimenticabile e lo sarebbe anche per i “grandi” Isolani che le cose le vogliono fa’ ma solo in teoria, sempre frenati da mille paure e finti problemi, ma intanto il contatto è stabilito, questo è uno di quegli incontri speciali che aprono prospettive future importanti. C’è una festa nella zona del villaggio di capanne costruito sul fianco ovest della collina di Dakrur, quello della grande ricorrenza di Siyaha, ci sono un centinaio di persone, le donne coi bimbi stanno in basso dove ci sono i pentoloni del cibo e gli uomini in alto al fresco delle costruzioni. Si gironzola per l’oasi fra laghetti e coltivi incontrando tanti bimbi che lavorano e che giocano, facciamo anche un tratto su un carretto guidato da un ragazzino ciccione che ci offre un passaggio. Nel piccolo villaggio ad est delle montagna dei fantasmi, si incontra una bimba pittrice che sta disegnando su un cartone inzuppando uno stecco in un bussolotto di acqua sporca di vernice, è una delle bimbe che frequenta Motopia, insieme a lei il fratellino piccolo e due sorelline più grandi. Mi fermo un po’ a giocare con i colori e piano piano si diventa sempre di più, dietro ogni bimba c’è sempre una bimba più grande, poi una ragazzina e un’altra ancora più grande, un effetto matrioska che finisce nella penombra dentro lo sguardo di una donna velata. Nella zona della festa c’è una partita di calcio fra donne, sono coreografiche con i veli sventolanti ma quando ci vedono smettono di giocare e fuggono via. La festa sta finendo e le persone cominciano ad andare via salendo sui cassoni dei pik-up, un gruppo di ragazzine si avvicina gioioso, sono incuriosite da Serena vorrebbero farsi qualche foto ma la loro esuberanza è bruscamente interrotta da un paio di adolescenti dal pelo vano, che seri e bacchettoni le mandano via urlando, completamente assorti nel ruolo di castrati e castratori celebrali, il vuoto alienato e severo dei loro sguardi mi fa capire ancora di più le difficoltà incontrate da Fawzy e la sua determinazione. La via che da Dakrur conduce a Siwa regala sempre grandi scorci di poesia, specialmente se ci si dilunga nei vicoli laterali dove tutto è ancora più morbido e silenzioso e sempre uguale a se stesso. Nella piazza del paese invece la quiete è turbata da due slavate befane che si sono sedute in un cafè a bordo strada esponendo scolli per qui sconcissimi e stanno mandando in crisi il proverbiale autocontrollo dei Siwani, che oscillano con malcelata indifferenza con carretti, moto e biciclette, sfiorando il marciapiede dove sono in visione le pallide membra. Ritorniamo a Dakrur per il tramonto e poi si ripassa dalla casa della fantasia dove nel frattempo qualcuno è stato a giocare…il sogno di Mohamed è una realtà, una gran bella realtà. |
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Forma e Sostanza
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