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I fogli dei poliziotti e il sogno realizzato di Badr
Farafra è avvolta nella cappa della calura già di prima mattina, in paese è  arrivato un numeroso gruppo di fuoristrada francesi, stanno facendo un raid dalla Tunisia alla Turchia e la loro sosta ha messo in subbuglio i poliziotti che continuano fare domande ai fuoristradisti e a scrivere continuamente su fogliettini non si sa bene cosa. Cerchiamo di rintracciare gli italiani del “progetto” chiedendo di volta in volta, tra un passaggio in moto (qui è normale andarci in tre e anche in quattro) e l’attraversamento di un piccolo tratto desertico, arriviamo alla sede del Parco del Deserto Bianco. Purtroppo i due italiani che sono responsabili del progetto non ci sono, però ci parlo al telefono, sono in vacanza sul Mar Rosso per qualche giorno, è un vero peccato perché poteva essere una bella occasione per vedere e saperne di più. Rientrando in paese ci fermiamo a vedere il museo Etnico di Farafra, è una struttura bella e originale costruita di argilla e fango secondo le tecniche tradizionali, l’ha voluta e costruita Badr Abd El-Moghniat un artista nato a Farafra che qui realizza ed espone le sua opere. L’ingresso è libero, è un ambiente accogliente che ricorda gli ksour della regione tunisina di Tataouine, ci sono tante piccole stanze su due livelli che si affacciano su una grande corte interna, dentro ci sono esposte tante opere, sculture e dipinti realizzate con tante tecniche diverse, spesso miscelate fra loro, mi piacciono tanto le sculture di argilla cruda che ritraggono uomini anziani seduti nella sabbia a giocare a “Siga” (una specie di dama che si disegna nella sabbia e si gioca con le ghiaie) le loro epressioni sono scolpite con grande maestria tanto da rendere reale la partita. Ogni stanza è colma di opere che ritraggono soprattutto mostri benevoli e grandi mani, sono sogni materializzati, anche le donne qui sono protagoniste, figure sensuali avvolte nei lunghi capelli, spesso nuotano nude dentro paesaggi di sogno, però non è un mondo solo gioioso quello riprodotto, anzi i protagonisti sono spesso sofferenti e a volte disperati, però mai crudeli. Mentre gironzolo fra gli sgabuzzini espositivi arriva Badr Abd el Moghniat, il fautore del museo e di tutte queste opere, si presenta e comincia a raccontarmi di se e del museo, ha occhi larghi e mani grandi, è del cinquantotto ma sembra più giovane, forse per via del faccione barbuto sormontato da una ceppata di capelli neri, nelle sue espressioni ci rivedo Sergio Rossi. Mi spiega che il museo rappresenta il suo terzo grande sogno traformato in realtà, il primo è stato quello di fare l’artista, il secondo il grande giardino delle sculture, Badr è nato a Farafra e la sua è un’antica famiglia e di questo va molto fiero, tutte le opere sono ispirate alle storie e alle tradizioni locali che qui come a Siwa, anche se con più promiscuità con altre etnie, sono legate alla cultura Amazigh. Mi spiega che il suo usare esclusivamente legno, rocce e colori locali vuole essere un grido contro il cemento che sta soffocando Farafra e la sua storia, si chiacchera un po’ nonostante la mia ignoranza linguistica comunque ci si intende, è incuriosito dal viaggio e condivide con me il pensiero che ci sia grande affinità fra le Oasi e le Isole, che bello sarebbe poter portare le sue opere all’Elba e ancora di più scoprire in che maniera l’Isola toccherà la sua creatività, intanto ci si scambia gli indirizzi poi chissà magari si riesce a combinare qualcosa. Come a Motopia, la casa della fantasia voluta da Mohamed Fawzy a Dakrur nell’Oasi di Siwa, anche qui si respira la libertà di pensiero e di espressione, anche nelle bellissime foto d’epoca esposte che ritraggono donne scalze avvolte in vesti eleganti, ingioiellate e sempre a viso scoperto, così diverse da quelle completamente velate e sfuggenti che si vedono oggi a Farafra. Ormai il sole è a picco e il caldo è veramente forte l’aria sembra densa e non si riesce a fare nient’altro che attendere che il sole si abbassi. Verso il tramonto andiamo a fare un giro dentro il vecchio villaggio che si sviluppa sopra una piccola collina, della storica fortezza originaria che si trova sul vertice non è rimasto praticamente niente, solo un grande cumulo informe di mattoni crudi sciolti, la trovò più o meno così anche il primo europeo che visitò Farafra nel 1819 che raccontò di avervi trovato il rudere di una fortezza abbandonata e un centinaio di abitanti. La “città vecchia” si sviluppa intorno all’antica e misteriosa rocca di fango, è un piccolo villaggio fortificato in mattoni crudi in gran parte abbandonato, dove comunque vivono ancora un po’ di persone, solo qualche casa mantiene integralmente l’affascinante architettura tradizionale, ormai le colonne di calcestruzzo sbucano come demoni da tutti i lati. Nei cortili interni le donne lontane dagli sguardi indiscreti si ritrovano per chiacchierare, i vicoli dei vilaggi Sahariani sono sempre affascinanti anche se sgarrupati come questi e regalano sempre scorci di magia, nel cuore del “centro storico” c’è un bel marabutto bianco e intorno diverse piccole moschee da cui i muezzin stanno chiamando la preghiera del tramonto che da il via al flusso di adunanza degli uomini.   Passiamo davanti alla moschea principale e poi entriamo nell’oasi antica, quella che per millenni  ha permesso alla gente di vivere qui, è un posto di pace e silenzio con una temperatura assai piacevole grazie alle grandi palme che ombreggiano il tutto, al suo interno ci sono numerose sorgenti, alcune delle quali calde che alimentano le vasche dove i contadini finita la giornata si stanno lavando. Oltre alle palme ci sono anche tanti banani e delle grandi piante di vite rinselvatichite potenti e selvagge  che ricordano quelle viste in Marocco nella catena del Rif lo scorso anno, probabilmente quello che rimane dei vigneti per cui era famosa Farafra durante il periodo della dominazione Romana. Gli italici invasori qui estesero anche la coltivazione dell’olivo che a differenza dei vitigni non è mai stata abbandonata, gli olivi sono ancora numerosi e ce ne sono diversi secolari che sono sono alti almeno una decina di metri, c’è anche qualche albicocco ma i frutti purtroppo sono ancora acerbi. Come ieri con l’arrivo della notte Farafra si ravviva, ora la temperatura permette alla gente di passeggiare per le strade e anche le attività sono tutte aperte, i soliti micro negozi, i barbieri, il calzolaio e l’immancabile negozio di mobili che espone degli orribili catafalchi scuri. Farafra oltre che la porta del Deserto Bianco è anche il punto di partenza della pista che conduce al Djara Cave, una grotta poco conosciuta di cui si dicono meraviglie, passiamo la serata a cercare informazioni su questo luogo, che però sembra molto difficile e costoso da raggiungere.