Sveglia alle cinque, si carica e si parte, dopo mezz’ora siamo già in marcia su un bel sentiero fra lecci e speroni di calcare, è un paesaggio che ricorda la Sardegna dalle parti del Supramonte. Ogni tanto si incontra una radura seminata a grano e Tambone trebbia, uscendo dalle macchia il sentiero è delimitato da muretti di sassi bianchi per difendere il grano dai muli di passaggio.
Incontriamo un gruppetto di case e stalle con il tetto spiovente, è una campagna ricca e ci sono tante mucche, un uomo gentile, incredulo ma divertito dall’averci visto sbucare dalla macchia, mi indica una scorciatoia fra i campi di grano. C’è ricchezza d’acqua e in un fossetto prima del paesino a fondo valle vediamo un po’ di tartarughe, il paese è piccolissimo la moschea bianca da lontano lo faceva sembrare più grande, è un nucleo di una decina di case in pietra con i tetti spioventi di tavole di cedro, la cosa più bella sono i nidi delle cicogne da cui fanno capolino i cicognini appena nati. Madama denti d’argento, una berberona dal sorriso metallico, ci mette sulla giusta via, sempre lungo il oued fino a trovare le cascate. Si cammina fra i campi di grano, nel fiume che in realtà è un fossetto di acqua salata dove si formano delle piccole anse ci sono tante tartarughe, comincia a fare caldo quando arriviamo in una gola rossa dove ci sono delle grandi grotte, è arido ma dalla forma delle grotte si capisce che c’è acqua nel sottosuolo. Arriviamo su, sopra una gola stretta, sotto di noi il salto, è strano perché il fossettino salato nel giro di cinquanta metri diventa un torrente impetuoso e ricco di rapide, sono le sorgenti dell’Oum er Rbia il fiume più lungo del Marocco. Scendiamo per visitarle da vicino, Tambone è incazzatissimo per essere finito fra i sassi dopo aver visto (e assaggiato) tutto quel grano, salta il fosso stile cavallo di zorro e si schianta sulle lisce, per fortuna, a parte il teatrino, tutto bene, parcheggiamo il fava e facciamo il giro delle cascate.
Il posto è bello ma turistico, ci sono tanti ristorantini sui lati delle rapide, in fondo alla gola arriva la strada e quando arrivano le macchine dei turisti c’è una nuvola di persone che si contende i clienti, ci sono tanti turisti europei ma sono numerosi anche i marocchini delle città. Tutto il paese in pratica vive sull’attrattiva delle cascate. Facciamo una pausa pranzo e poi si riparte. La strada sale dal lato opposto al fiume in direzione nord, è una strada asfaltata circondata da campi di grano e ogni tanto qualche casa isolata con il tetto a capanna, il sole è gia tramontato quando arriviamo a Ouiouane, un altopiano con una piccola Moschea isolata fra i campi e poi qualche casa, ce n’è una con le mura bianche, le persiane verdi e il tetto a capanna coperto a marsigliesi che la fanno assomigliare a una tipica casa Elbana, tra nostalgia di casa e la poca voglia di montare la tenda come da programma mi ritrovo ospite della casa bianca e Tambone rimedia una stalla di lusso con paglia e fieno. Il portone verde si apre su un’aia pulitissima dove fa gli onori di casa un austero signore alto e bianco di vestito, ha un nome impossibile e dirige le tre donne di casa come schiave, ci portano degli sgabellini di legno e un bollitore di acqua calda per lavarsi, poi seguendo la rigida regia del capo veniamo accompagnati nella sala per una merenda con pane burro e the, la serata si chiude con un abbondante tajine.
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TagAprile 2008
Si parte presto, lungo la via ci sono tanti piccoli villaggi con le case dai tetti spioventi quasi tutti in lamiera e nei pascoli ci sono tante mucche. La strada scende dolce sul fianco dalla montagna contornata da campi di grano e Tambone cammina a testa bassa come una trebbiatrice rifilando le spighe a bordostrada. Sotto di noi una valle profonda che si estende in lontananza verso est in direzione di Khenifra e prevalentemente di terra rossa che fa risaltare ancora di più i numerosi “fiumi di sale”, la pianta più comune è il leccio, ma prevalentemente ci sono campi di grano che comincia a diventare giallo e tanti papaveri. A monte delle sorgenti non salate partono gli acquedotti che irrigano i fianchi della valle, mentre in fondo al pendio scorre il fiume Chbouka. Nel verde spiccano grandi rocce di calcare e il canto dei grilli e le api sui fiori ci fanno capire che siamo in piena primavera. Si sale e ritornano i cedri, la strada si inerpica fra decine di piccole valli in linea d’aria si fa pochissima strada, poi inizia la discesa, incontriamo qualche pastore e poi in una radura delle fornaci abbandonate per cuocere la calcina. In questa zona i cedri sono giganti, ci sono tanti falchi e si vedono volteggiare anche due bianconi, poi una famiglia di bertucce attraversa la strada in gruppo per poi disperdersi arrampicandosi agilmenrte sui cedri, ce ne sono tante di queste scimmie, se ne stanno sedute sui rami osservandoci curiose. Proseguendo incontriamo delle strane rocce di calcare con degli inserimenti di rocce rossastre che sembrano sculture astratte.
Sotto i cedri, poco prima di un altopiano coltivato, una tenda di nomadi, per quanto mimetica ruba la scena, è fatta di sacchi lisi cuciti fra loro e bruciati intorno al tubo della stufa, si affaccia una bimba bellissima, è vestita di rosso e ha un portamento fiero, gli chiedo a cenni se posso fare delle foto, mi sorride contenta e chiama anche le sorelle, sembra un’ immagine proveniente dal passato, mi sembra di essere dentro un immagine di CesareMaria De Agostini che a inizio ‘900 fotografava gli abitanti della Terra del fuoco.
Uscendo dalla foresta troviamo un piccolo insediamento, intorno ad un pozzo circondato da grano maturo delle donne alte e longilinee stanno lavando. Incrociamo una signora con un mulo che ci da informazioni precise, confermate subito dopo da due pastorelli, il paese Ajdir in realtà non esiste è una grande pianura in mezzo ai cedri dove pascolano centinaia di pecore e intorno un po’ di capanne di legno di cedro e lamiera, i pastori, man mano che si avanza, ci indicano la via per l’Aguelmane (il lago). Oltre l’estesa radura sul confine della foresta c’è un villaggio di case in legno con alcune tende a cono rovesciato come quelle dell’indiani d’america, sembra un villaggio di pionieri uscito da un racconto di Jack London. Ci fermiamo all’ultima casa, ha il tetto fatto con tavole larghe quasi un metro e davanti all’ingrasso c’è una tenda a cono rovesciato che protegge il forno. Fatima, la padrona di casa, prima ci offre latte appena munto, pane e l’immancabile athey, poi ci accompagna fino ad una recinzione abbattuta dove inizia una foresta incantata, c’è un piccolo viottolo ombreggiato da cedri giganti, i più grandi visti finora, e le lame di luce che ogni tanto filtrano fra i rami rendono tutto ancora più magico, il sentierino si perde in mille dedali ma una signora dal volto tatuato avvolta in un manto turchese mi indica il giusto cammino. Nella foresta ci sono delle spianate di rocce bianche dove ci sono diverse bertucce che quando ci vedono velocemente salgono sugli albri, ce ne sono tante almeno una ventina, alcune ci guardano dai rami piu alti, ci fermiamo un po’ su queste “lisce”per godersi questo scorcio da “libro della jungla”.
Le scimmie dopo pochi minuti si tranquillizzano e cominciano a scendere facendo delle evoluzioni spettacolari, si avvicinano ma non troppo e sempre guardinghe, nella foresta comincia a fare buio quando ripartiamo, camminiamo ancora una mezz’oretta e poi arriviamo al lago Azigza. Sul lato opposto del lago arriva una pista e la conseguenza è che c’è un po’ di spazzatura, infondo al lago c’è una grande casa in degrado, ci spostiamo lì per chiedere ospitalità. In origine era un albergo ristorante ma ora è ridotto proprio male, ci vivono due coppie giovani e quattro bimbi piccoli, la cosa strana è che stanno in una specie di baracca sotto la gronda e usano la struttura grande come magazzino, per noi il “gran garage” è un’ottima sistemazione così non si monta la tenda e domani si parte presto.
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Ci svegliano tre pastori, con loro scendiamo alla sorgente e poi alla radura grande dove c’è la loro tenda con il tubo della stufa fumante, il pastore più anziano sta preparando il the. Tutt’intorno ci sono mucche e muli al pascolo, mentre le pecore sono ancora nel chiuso. Facciamo colazione nel prato tutti insieme su una grande tovaglia rossa. In sella a un grande mulo bianco arriva Driss, ha portato the e farina, è un amico della famiglia ed è l’unico del gruppo che parla francese, come sempre ci invitano a rimanere e la voglia è tanta, stando qualche giorno con loro scoprirei posti favolosi imparando tante cose, ma la strada da fare è tanta. Veniamo accompagnati alla nostra tenda e ci aiutano a caricare, ci si sente fra amici e il momento del saluto come sempre in questi casi si appesantisce nel silenzio rotto da gesti ampi di saluto, herra !! Si lascia il bel plateau avanzando nella strada che si insinua nella foresta. Il canto fragoroso e insistente delle rane ci conduce su una grande pozza dov’è in corso un’orgia anfibia, ci sono diverse centinaia di rane che si inseguono e si accoppiano continuamente, nei pressi della pozza ci sono delle cicogne che beccano frai prati umidi. Proseguiamo lungo la strada immersa nella foresta di questi giganteschi alberi monumentali, ogni tanto si trova qualche radura. In un grande altopiano erboso incontriamo un anziano pastore che in compagnia di una bambina vigila su un gregge di pecore e qualche mucca, c’è anche un vitellino con il muso rinchiuso in una spinosa maschera di ferro. Dopo una dozzina di chilometri pressoché a livello, si inizia a scendere, sulla strada si incontrano tante moto perlopiù di spagnoli, man mano che perdiamo quota diminuiscono i cedri e ritornano i lecci. Arrivati al fiume la strada risale dall’altro lato a tornanti per poi distendersi e scorrere a mezza costa. Incontriamo delle case lungo la strada in stile francese, ma con tetti in lamiera, e dei piccoli torrenti di acqua salata contornati da cristalli di sale. Lungo la via incontriamo Abdullah che ci invita a casa, accettiamo. E’ una situazione strana, in realtà non è la casa di Abdullah, qui abitano solo una ragazza, Fatima e le sue due sorelline che stanno rientrando con gli animali dal pascolo. E’ ormai notte quando arriva la mamma, sembra molto vecchia, è tutta gobba e dolorante ma è gentilissima. Ci guardiamo un pò di foto poi arriva anche il babbo, mangiamo il classico tajine e poi andiamo a dormire. | |
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Domani arriva il re e nella notte sono arrivati altri militari, la scuola che si vede dalla finestra è circondata da camion dell’esercito. Tambone fa le bizze non c’è verso di caricarlo, scalcia continuamente probabilmente disturbato da tutto questo traffico. Facciamo colazione al solito bar legando Tambone a una bandiera e poi imbocchiamo lo stradone asfaltato che prendono i pullman diretti a Marrakech con le prode tutte linde e imbandierate. Dopo un paio di chilometri incontriamo un pastore che ci indica la via nel deserto che conduce verso Itzer. Nel plateau arido incontriamo dei muli soli, poi si iniziano a trovare cespugli fioriti e campi di grano per la gioia di Tambone che ogni tanto si tuffa fra le spighe. Si va avanti a saliscendi fra zone aride e campi di grano e biada dove si incontrano papaveri viola e rossi. Siamo ormai al godron il plateau arido è finito, Itzer è alla nostra destra e finalmente siamo sotto le montagne delle famose foreste di cedri. Il panorama è cambiato nettamente, sembra di essere nella campagna maremmana, fra coltivi e chiazze di macchia, una donna che sta lavando al pozzo ci mette sulla giusta via, ci sono delle zone rimboschite a pino e tante mucche al pascolo. Passano dei quad, uno si ferma, è uno spagnolo simpatico ma un po’ rincoglionito che non sa da dove viene né dove sta andando, però segue la polvere di quelli davanti e si diverte un casino. Incontriamo di tanto in tanto delle fattorie e qualche contadino sui muli che ci aiuta a trovare la via. Dopo qualche ora ritroviamo il godron e finalmente iniziamo a salire incontrando i primi cedri che diventano sempre più giganti. Serena è stanca e monta sul mulo, si sale oltre i duemila metri circondati dai cedri, in lontananza, dopo il plateau, l’Ayachy che si sta defilando, arrivati al culmine, ci troviamo in un posto da favola, sotto di noi si apre una grande radura erbosa dove dei pastori nomadi hanno montato la loro tenda. Noi la tenda la montiamo più in alto all’inizio della foresta sotto un grande cedro. Si fa conoscenza e mi invitano a cenare insieme, ma Serena è in “coma” e ci diamo appuntamento per domattina a colazione.
Davanti al falò mi godo il silenzio e le stelle fra le enormi sagome scure dei cedri.
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Mi sveglio alle cinque ho voglia di mettermi in pari e partire, Zeida non mi piace, ma non c’è corrente, dopo un’ora ho finito la batteria e non posso né scrivere né andare a internet, andiamo con un taxi collettivo ad Itzer per vedere se lì c’è l’energia elettrica. La corrente non c’è però è un posto carino e oggi c’è il souk che si estende per un’area molto ampia, è molto colorato e autentico senza turisti e ci sono venditori di tutto, le più scenografiche sono le donne che tingono la lana nei pentoloni sopra i bracieri, ma per me la parte più bella è il grande ciucodromo dove ci saranno almeno cinquecento fra asini e muli che in gran parte si stanno apprestando a partire per tornare con i loro padroni ai piccoli villaggi di montagna. Ci compriamo due capelli di paglia e poi andiamo a mangiare, questo è un posto vero dove si mangia e si spende come la gente del souk. Facciamo un giro nei vicoli stretti e ombreggiati fra le case basse e stondate di Itzer e poi si torna. Zeida si sta riempiendo di militari per la visita reale ormai prossima, con la sera torna l’energia elettrica e tornano le musiche berbere e le lucine colorate fra la nebbia delle braci dei ristoranti lungo la via. | |
Giornata passata in gran parte a internet per cercare di spedire materiale e sistemare alcune questioni relative al Viottolo e al sito del viaggio; e poi al bar dove c’è la presa di corrente, per scrivere col pc. In serata vengo avvicinato da un tipo tutto entusiasta del viaggio col mulo, che ci invita a mangiare nel ristorante gestito dalle sorelle, in realtà più che al viaggio il tipo è interessato a vendere droga e quando capisce come ragiona il Segnini si dilegua, dopo avermi spiegato come organizzerà una serata da “ruina total” per un gruppo di suoi “amici” spagnoli.
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Zeida è un paese autogrill, qui si fermano per mangiare i bus e i camion provenienti da tutte le direzioni, ci sono decine di ristoranti tutti uguali che propongono tajine e carne di montone arrosto, anche i ristoratori sono tutti uguali, tanto che sembrano clonati. Ogni tanto ci sono delle scene divertenti come quando da un furgoncino parcheggiato scappa un gregge di pecore che si disperde per il paese. Anche qui è tutto imbandierato perché lunedì passerà il re che è in zona per inagurare una grande diga, è un paese di mercanti, tutti ti chiamano per vendere. Passo la giornata a scrivere qui c’è l’energia elettrica e posso scrivere sul pc, quando fa buio vado a prendere Tambone che avevo legato in un campo, dopo aver chiesto il permesso, e incontro un tipo che mi accusa di avergli messo il mulo nel campo di grano, ma alla fine di una grande discussione che coinvolge una ventina di persone il problema si dissolve e mi dicono che domani posso rimettere il mulo nel campo.
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Oggi sarà una giornata impegnativa c’è da attraversare il plateau arid, sessanta chilometri di deserto di pietra sotto il sole.
Lasciata la zona mineraria vicino il villaggio, la pista si perde in mille viottolini, seguendo il consiglio di Said taglio salendo il crinale più alto, sembra di essere dentro un mondo di carta stagnola tutto riflette, ma non è un vero deserto, ci sono piccoli cespugli e tanti piccoli papaveri arancioni. E’ una zona ricchissima di minerale, di tanto in tanto ci si trova sopra a filoni in superficie, incontriamo un branco di asini che sembrano selvatici ci sono tanti piccoli e femmine gravide, dopo un paio di ore il primo incontro un pastore, ci vuole mandare indietro, i sentierini tagliano sinuosi per colline e depressioni in un panorama uniforme e senza sbocchi apparenti, per fortuna che ieri dalla montagna ho visto tutta la zona. Vediamo la prima tenda di nomadi e poco dopo una trincea di scavo con cristalli gialli, dopo poco si incrocia la pista principale dove c’è un camion che stà andando al souk di Midelt, l’autista è di Zeida e mi da una serie di informazioni sul percorso. Ancora un’ oretta e poi incrocio, dove ci lasciamo a destra, le strutture di un’altra miniera circondata da case fantasma. Camminiamo lungo una pista rettilinea dove c’e un po’ di verde e Tambone ne mangia i ciuffi continuamente, si avanza in un deserto di roccia con ciuffi di fienelli e ogni tanto qualche traccia di scavo. Su un cumulo dove sembra non ci sia niente appaiaono due donne e un bimbo, sono stupite e divertite nel vederci e ci invitano a rimanere lì, Zeida è Yagug (lontana), bzef!! (troppo), tafut (sole), non capisco dove abitano, non c’è niente apparte un monte di detriti, le donne hanno il mento tatuato con una linea verticale che parte dal labbro inferiore e termina al centro del mento e due linee puntinate di fianco, prima di salutarci ci chiedono di fotografarle, è un cosa che piace tantissimo, queste foto non le vedranno mai perché qui non c’è indirizzo ma piace l’idea di poter viaggiare anche se solo come immagine. Fa caldo, ma siamo organizzati bene con acqua e the, si prosegue lungo un infinito rettilineo dove nel punto più verde incontriamo una mandria di mucche, finalmente alle nostre spalle sparice la montagna di Aouli, in realtà un altopiano, arriva la deviazione per “barage” , un pastore ci conferma che siamo sulla via giusta, poi troviamo una zona di giunchi dove ci sono due accampamenti di pastori, l’Ayachi è sempre nel solito punto, ma lo sfondo a nord scorre e le nuove montagne si avvicinano. Un pastore con figlio ci dice che mancano 20 km al godron (la strada asfaltata) per essere sicuro che abbiamo capito, telefona al fratello che parla francese che ci conferma la distanza. Con il calare della sera è uscita anche un po’ di brezza, incontriamo un cimitero nel deserto fra grandi rocce granitiche , sembra una necropoli antica, ma in realtà è difficile capire perché anche le sepolture recenti sono fatte alla stessa maniera. La pista è diventata larga, a sinistra in lontananza si vede la polvere dei camion che vanno alla grande diga, poco dopo incontriamo il primo villaggio e un pastore che ci vuole ospitare, cala il sole quando incontriamo i primi piloni dell’elettricità, in una pozza vediamo un gruppo di tartarughe. E’ notte quando raggiungiamo l’asfalto, questa è un arteria importante per i trasporti marocchini. A nord vediamo le luci di Itzer e a sud di Zeida, la nostra meta che ormai dista solo cinque chilometri, che però sono i più antipatici e pericolosi per il buio ed il traffico. Entriamo nel centro di Zeida che sembra Las Vegas è un altra dimensione, luci, musica e tanta gente, lungo la via centrale ci sono decine di ristorantini che grigliano carne di montone, sono le dieci abbiamo percorso i sessanta chilometri previsti, ci fermiamo nel primo alloggio che troviamo, sistemiamo Tambone che nel frattempo si è spolverato il basilico dell’aiola poi si mangia e si va al cyber.
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Lasciamo il villaggio all’arrivo del sole e iniziamo a salire verso la montagna di Aouli, il massiccio principale e preceduto da una serie di piccole colline di roccia verde, ci sono tanti affioramenti di minerali, Malachite, Azzurrite, Agata, Quarzo e qualche cespuglio di ginestra. Il massiccio ha rocce simili alla Cattedral, si sale ripidamente e in breve tempo siamo sotto una parete verticale che precede la vetta, nelle fenditure ci sono numerosi nidi fra cui uno di falco pellegrino. Il viottolino friabile che porta sotto la parete nursery è puntellato di piccoli papaveri viola, fra le rocce c’è una fenditura che porta sulla vetta, superiamo il passaggio impegnativo e poi un tratto affacciato nel vuoto reso più stabile dalle “corde contorte” dei cespugli di rosmarino e finalmente la vetta che in realtà è un altopiano che si tronca improvvisamente verso il fiume. Dalla “spianata” la vista è favolosa, sotto di noi l’oasi e il villaggio, a est la stretta e profonda gola rossa che scompare serpeggiando verso il deserto, mentre a ovest lo sguardo si perde nelle vette innevate della catena dell’Ayachi dopo aver incrociato le miniere di Aouli, Mibladen e il lontano abitato di Midelt, più a nord il sole si specchia nell’ arido e metallico deserto di piombo che attraverseremo domani, poi piccole montagne colorate e oltre, confuse nella foschia, le vette del medio Atlas. Siamo avvolti dal silenzio c’è solo il fruscio del vento che muove i fienelli, fra le rocce scorgo un grosso rettile a metà strada fra una lucertola e un iguana che si fa fotografare tranquillamente. Attraversiamo un tratto di altopiano e poi iniziamo a scendere un viottolino seguendo le tracce delle capre che stanno pascolando più in basso custodite da un pastore che ci tiene sott’occhio. E’un pastore nomade che si sta spostando con il gregge, mi offre l’acqua e mi accompagna per un tratto indicandomi una via altrimenti invisibile che conduce a una fontana scura circondata da rosmarino, che sbuca improvvisa nella distesa di roccia, sembra di essere nella canzone del servo pastore, come se De André sia passato da qui scendendo dal Supramonte.
Nel terreno spunta tanta Agata e grandi blocchi scuri di rocce vulcaniche apparentemente identiche a quelle dell’Etna e poi grandi accumuli multicolori di quarzo. Riattraversiamo le colline roccia verde e poi si entra nell’oasi. E’ un’oasi con forme e profumi familiari, ci sono tanti albicocchi, peschi e olivi e campi di grano arrossiti dai papaveri, sotto i frutti c’è un complesso reticolo di canali di irrigazione e un’infinità di piccole chiuse per regimarne le acque. Le piante sono stracariche di frutta purtroppo ancora acerba, accanto al fiume gli ontani e le canne prendono il posto del frutteto e vengono usati per fare i travi e i cannicciati per i tetti delle abitazioni.
Il sole è già tramontato quando vado a prendere Tambone che è stato tutto il giorno a pascolare vicino al fiume del villaggio, ma lego male la sella e tombolo giù a fava sotto lo sguardo divertito di tutto il paese.
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Siamo chiusi a chiave nella casa fortezza, il vento è calato e c’è il sole però i padroni di casa dormono. I fratelli hanno chiuso a chiave tutte le porte, anche quella della loro camera. Finalmente si esce, Tambone è iper agitato per il vento, è schizzato, scalcia, non ne vuole sapere del tagrart. Carchiamo alla meglio, salutiamo i due generosi ladroni e ci avviamo sulla strada per Aouli.
Per fortuna è una bella giornata e non c’è il vento di ieri, la strada è godronata, attraversa un paesaggio arido di colline rossastre dove ogni tanto si incontra qualche pastore, man mano che si scende il vento scompare, lungo la strada scorre un torrente dove cantano numerose le rane. Ogni tanto si vede qualche galleria e discarica di miniera abbandonata. La strada scende sinuosa fra le gole aride, dopo tre ore di cammino incontriamo il oued Molouya, confine geografico dei nomadi dell’Atlante. Il fiume è ricco d’acqua, lo attraversiamo su un vecchio ponte di travi di legno che risale ai tempi della miniera, poi proseguiamo lungo l’altra sponda. È una gola alta e molto suggestiva, le montagne sono formate da rocce stratificate in cui si individuano bene i filoni dei minerali, lungo le sponde del fiume sono numerosi i tamerici, ci sono anche piante di capperi. Continuiamo lungo il corso del fiume dove si vedono numerosi piccoli pesci. Dopo un’oretta di cammino iniziamo a trovare le prime case di questo villaggio abbandonato. Ci sono decine di case in pietra semi distrutte che salgono sulla montagna come in un presepe diroccato, in tutto questo abbandono spicca il cartello pubblicitario di un’aranciata dai colori brillanti. Un cane sopra un pilastro di cemento ci accoglie all’ingresso del centro di quella che un tempo veniva chiamata la piccola Parigi. Le strutture della miniera sono imponenti ed estese su un area di diversi chilometri, nel centro del paese c’è un grande ponte in ferro alto una ventina di metri che attraversa il fiume e collega le gallerie che si sviluppano sui due lati, con la torcia entro in quella a nord che nell’aspetto ricorda il livello di – 54 del Ginevro, è molto ampia e dentro ha una estesa ferrovia che si perde nel ventre della montagna. Il paese è praticamente disabitato, qui all’inizio degli anni ottanta vivevano più di diecimila persone richiamate dalle miniere di piombo, fa impressione vedere dal nulla apparire questo agglomerato di “modernità abbandonate”, negozi, il cinema, la centrale telefonica, viali alberati, giardini, tutto in degrado, ci sono decine di porte blindate e saldate, su entrambe le sponde del Mouloya tante case inghiottite da una vegetazione anomala di piante importate come i pergolati di vite che testimoniano la presenza francese. Si lascia il fiume, la strada sale fra grandi colline di scarti minerari e regala grandi paesaggi. Troviamo una montagna bianca, in alto il villaggio di baracche dove viveva gran parte della manovalanza marocchina. Sotto come in un miraggio, intorno ad un ansa del Mouloya una grande macchia di verde intenso nel deserto di pietra, e a fianco il piccolo villaggio di Aouli dominato da una grande kasbak degradata. Il villaggio esisteva prima della miniera e gli è sopravissuto con una popolazione dimensionata ai prodotti che riesce a fornire l’oasi. Sembra un posto fuori dal tempo, armonico e vivo con le donne che lavano al fiume e gli asini che vanno e vengono fra l’oasi e il villaggio, tutto dominato alle spalle da una montagna magica, di rocce verdi e rosse, domani ci fermiamo qui è un posto che merita di essere conosciuto bene. Ci viene incontro Said offrendoci ospitalità, facciamo un giro nel villaggio avvolto nelle ombre lunghe della montagna che ora è diventata rossa nell’ultima luce del giorno e poi andiamo nella casa dove ci stanno aspettando. E’ una casa grande con una corte interna che ha un piccolo giardino, le mura sono di fango e paglia e il tetto di argilla poggia sui travi ricavati dagli alberi dell’oasi. Alì, il figlio maggiore, è un ragazzo di 23 anni che in casa viene venerato come un semidio perché conosce il francese, il tedesco e l’inglese, ha un cervello vivace, raccoglie l’agata sulle montagne qui intorno per conto di un tedesco che lavora le pietre a Monaco di Baviera, ne raccoglie 20 quintali, poi fa venire qui un camion e porta il bottino a Marrakech. Mi parla con orgoglio dell’identità Berbera, dell’antichissima scrittura Tamasir: “Questo è un anno estremamente importante per la gente perché per la prima volta nella storia del Marocco nella scuola si insegnerà la lingua Tamasir e la vera storia del Marocco, non quella degli arabi scritta dagli arabi, la storia del popolo nomade che da sempre abita il Marocco” dice “il problema è che i berberi non andavano a scuola perché avevano da lavorare e gli arabi sono diventati i padroni del paese con un’ amministrazione scritta e gestita in arabo e insegnando una storia di parte, ma grazie ai berberi che hanno studiato e sono arrivati vicino al potere oggi si riscrive la storia e gli arabi sono obbligati a conoscere la nostra storia, e allora tutto cambierà“ afferma fiero.
Mi viene in mente la cena fatta un mese fa ad Anarghi con una coppia di Marocchini Arabi di Casablanca, contrariati per questa novità scolastica che secondo loro avrebbe creato solo confusione e rallentamenti nella scolarizzazione del paese.
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